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Mi ero trasferita ad Abidijan da alcuni mesi per continuare gli studi, quando è scoppiata la guerra civile nel nostro paese. In poco tempo, tensione e paura hanno preso il sopravvento, insieme a un clima di diffidenza e disperazione generale.

Eravamo tutti chiusi in casa, incollati alla radio che trasmetteva solo bollettini di morte e violenza; si diceva che nei gruppi armati ribelli c’erano anche molti stranieri e questo fatto ha alimentato un odio crescente verso gli immigrati dai paesi vicini.

Con gli altri amici con i quali vivo e credo che costruire un mondo unito è possibile abbiamo deciso di non lasciarsi prendere in questa spirale di divisione e odio; Gesù ha detto “Ama il prossimo tuo come te stesso”: era questo il momento di crederci e vivere così per dare il nostro contributo a riportare la pace al nostro popolo.
Abbiamo deciso di cominciare dalla zona più povera della città, una bidonville in maggioranza abitata da stranieri – e quindi presi di mira – che vivono quotidianamente in condizioni di emarginazione. Quando siamo arrivati abbiamo trovato cumuli di macerie dappertutto, le case distrutte dall’esercito, la gente terrorizzata, perché sospettata di nascondere armi e ribelli.

Cosa potevamo fare per loro? Ancora una volta la risposta l’abbiamo trovata nel Vangelo: “Qualunque cosa avrete fatto a uno di questi piccoli, l’avrete fatta a me”. Abbiamo avvicinato le persone e cercato di capire di cosa avessero bisogno. Quindi abbiamo raccolto vestiario e cibo e l’abbiamo distribuito. Poi abbiamo fatto conoscere anche a loro la nostra azione mondiale per la pace: il Time out, un minuto di preghiera o di silenzio ogni giorno, diffuso ormai tra migliaia di persone in tutto il mondo. Tanti di loro hanno preso parte anche alle nostre iniziative per la pace ed il responsabile civile del quartiere ci ha detto di aver visto la sua gente riprendere speranza. Ora quella era anche la “nostra” gente: sentivamo di essere ormai un’unica famiglia e la loro vita, il loro dolore è il nostro.

Nel dicembre scorso la situazione è precipitata: nella capitale gli scontri si sono fatti violentissimi, i ribelli sono entrati anche in casa di alcuni di noi, distruggendo tutto e malmenando le persone. E per le strade decine, centinaia di morti ogni giorno. Tanti hanno iniziato a fuggire da Man: un esodo interminabile di migliaia di uomini, donne e bambini che avevano poco o nulla con se e nessun posto dove andare.

Abbiamo così aperto le porte di Victoria, la cittadella del Movimento dei Focolari in Costa d’Avorio, a quasi 1500 persone che vi si sono rifugiate per diverse settimane.
Sapevamo di trovarci proprio sulla linea del fronte tra le milizie ribelli e le truppe governative; ce lo ricordavano quei boati che squarciavano la notte: continue sparatorie e bombardamenti a pochi chilometri da noi ed ogni sera non si sapeva se all’indomani si sarebbe stati ancora vivi.

L’elettricità era saltata, il pozzo era inservibile, le riserve di cibo scarseggiavano; l’ospedale della città era stato chiuso. Improvvisiamo un’infermeria in casa di alcuni di noi. C’era un solo medico…, molti i feriti, i malati, le donne in attesa di partorire. Eppure, in mezzo a tutto questo è nato un bambino a cui la mamma ha dato il nome di Marius, per ricordare che è nato sotto la protezione di Maria.

Ad ogni ora del giorno e della notte continuavano ad arrivare famiglie, anziani o bambini che cercavano di sfuggire alla “strategia di pulizia” organizzata dai ribelli.
Abbiamo anche allestito una mensa, condiviso il riso che ci restava; aperto le nostre case, preparato letti, distribuito indumenti.

Una mattina, durante la S. Messa, dieci minuti terribili: rumori di mitragliatrici, esplosioni, sparatorie… Ma nessuno gridava o piangeva, c’era in tutti una grande sicurezza mentre recitavamo, una dopo l’altra, l’Ave Maria. Abbiamo continuato a recitare il rosario giorno e notte, sentivamo fortemente che solo Maria poteva ridonarci la pace.
“Anche qui, come dappertutto scarseggia il cibo e non c’è nulla – ci dicevano in tanti – ma si respira un’aria diversa, insieme non abbiamo paura”. Ed era vero, la forza era in quel patto che avevamo fatto: che tutto crollasse, ma non l’amore fra di noi, quello era più potente delle bombe. Quell’amore risanava ferite dentro e fuori, portava a sperare, a perdonare, a trattare gli altri come loro venivano trattati.

A fine gennaio un gruppo di ribelli è penetrato nella cittadella, sono stati accolti ed abbiamo dato loro del cibo, un luogo dove lavarsi, una stanza per riposare. Sembrava che questi soldati, alcuni di loro giovanissimi, avvertissero il clima di fratellanza che si respirava tra tutti e, come per miracolo, non si è verificato nessun incidente e non solo: ci hanno offerto la loro protezione.

(Colombe, Costa d’Avorio)

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