Lo sentimos, pero este artìculo todavía no està disponible en español For the sake of viewer convenience, the content is shown below in this site default language. You may click one of the links to switch the site language to another available language.

«Desidero innanzitutto esprimere la mia gioia nel trovarmi oggi qui in questo Centro di Caux, ricco di iniziative intente a rafforzare i fondamenti morali e spirituali delle società, e a promuovere l’incontro pacifico delle culture, delle civiltà e delle religioni. Ringrazio in modo particolare il dott. Cornelio Sommaruga, che ha voluto invitarmi a dare un mio contributo a questo importante seminario interreligioso.
L’argomento che mi è stato chiesto di trattare oggi recita così: «Possono le religioni essere partners sul cammino della pace?».

E’ questa, come tutti sappiamo, una domanda di grande importanza e di estrema attualità.

Nel dilagare del terrorismo, nelle guerre condotte in varie parte del mondo per rispondervi, e nella tensione permanente in Medio Oriente, molti vedono i sintomi di un possibile «scontro tra civiltà». Esso sarebbe segnato e persino acuito dalle diverse appartenenze religiose. Questo modo di vedere però, provocato da estremismi e fanatismi di vario genere che distorcono le religioni, risulta, ad una lettura più attenta dei fatti, molto parziale.

Mai come in quest’ora del mondo, infatti, credenti e responsabili di tutte le religioni hanno sentito di dovere lavorare insieme per il bene comune dell’umanità. Organizzazioni come la Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace o iniziative come la giornata di preghiera per la Pace, indetta da Giovanni Paolo II ad Assisi nel gennaio 2002, ne sono una riprova.

In quell’occasione il Papa aveva ribadito, a nome di tutti i presenti, che «chi utilizza la religione per fomentare la violenza ne contraddice l’ispirazione più autentica e profonda» e che «non v’è finalità religiosa che possa giustificare la pratica della violenza dell’uomo sull’uomo» perché «l’offesa dell’uomo è in definitiva offesa di Dio» .

Con l’11 settembre 2001, l’umanità ha scoperto, sgomenta, la natura di questo grande, enorme pericolo che è il terrorismo. Non è una guerra come le altre, perché esse – ne abbiamo tutt’oggi circa 40 sul pianeta – sono in genere frutto dell’odio, del malcontento, delle rivalità, di interessi personali o collettivi.

Il terrorismo invece, come ha affermato ancora il Papa, è frutto anche di forze del Male con la M maiuscola, delle Tenebre.

Ora, forze di questo tipo non si combattono con soli mezzi umani, diplomatici, politici e militari. Necessitano forze del Bene con la B grande. E il Bene con la B maiuscola è – lo sappiamo – Dio, e tutto ciò che ha radice in Lui. Si può combattere, dunque, con forze spirituali, con la preghiera, ad esempio, col digiuno, come hanno fatto i rappresentanti delle religioni del mondo nella città di san Francesco.

Ma, ci sembra di dover dire che la preghiera non basta.

Noi sappiamo che molte sono le cause del terrorismo, ma una, la più profonda, è l’insopportabile sofferenza di fronte a un mondo mezzo povero e mezzo ricco, che ha generato e genera risentimenti covati negli animi da tempo, violenza, vendetta.

Si esige più parità, più solidarietà, soprattutto una più equa condivisione dei beni.

Ma, come si sa, i beni non si muovono da soli, non camminano da sé. Vanno mossi i cuori, vanno messi in comunione i cuori!

E per questo occorre diffondere fra più gente possibile l’idea e la pratica della fraternità, e, data la vastità del problema, di una fraternità universale. I fratelli sanno pensare ai fratelli, sanno come aiutarli, sanno condividere quanto hanno.

Per rispondere a questa sfida senza precedenti, il contributo delle religioni è decisivo.

Da chi, se non dalle grandi tradizioni religiose, potrebbe partire quella strategia della fraternità capace di segnare una svolta persino nei rapporti internazionali?

Le enormi risorse spirituali e morali, il contributo di idealità, di aspirazioni alla giustizia, d’impegno a favore dei più bisognosi, assieme a tutto il peso politico di milioni di credenti, che scaturiscono dal sentimento religioso, convogliati nel campo delle relazioni umane, potrebbero senz’altro tradursi in azioni tali da influenzare positivamente l’ordine internazionale.

Molto si sta facendo nel campo della solidarietà internazionale, da parte delle organizzazioni non governative. Ciò che manca è che gli Stati facciano proprie quelle scelte politiche ed economiche atte a costruire una comunità fraterna di popoli impegnata a realizzare la giustizia.

Perché di fronte ad una strategia di morte e di odio, l’unica risposta valida è costruire la pace nella giustizia. Ma senza fraternità non c’è pace. Solo la fraternità fra individui e popoli può assicurare un futuro di convivenza pacifica.

Del resto la fratellanza universale e la conseguente pace non sono idee di oggi. Esse sono state spesso presenti nelle menti di spiriti forti perché «il piano di Dio sull’umanità è la fraternità e l’amore fraterno è iscritto nel cuore di ogni essere umano».

«La regola d’oro – diceva il Mahatma Gandhi – è di essere amici del mondo e considerare ‘una’ tutta la famiglia umana» .

E Martin Luther King: «Ho il sogno che un giorno gli uomini (…) si renderanno conto che sono stati creati per vivere insieme come fratelli (…); (e) che la fraternità (…) diventerà l’ordine del giorno di un uomo di affari e la parola d’ordine dell’uomo di governo» .

Su questa linea, il Dalai Lama, a proposito di quanto è successo negli Stati Uniti due anni fa, scriveva ai suoi: «Per noi le ragioni (di questi eventi) sono chiare. (…) Non ci siamo ricordati delle verità umane più basilari. (…) Siamo tutti uno. Questo è un messaggio che la razza umana ha grandemente ignorato. Il dimenticare questa verità è l’unica causa dell’odio e della guerra».

Nonostante le distruzioni, può emergere dunque anche dalle macerie del terrorismo una grande, antica verità: che noi tutti sulla terra siamo un’unica grande famiglia.

Ma chi ha indicato e portato questa verità come dono essenziale all’umanità, è stato Gesù, che ha pregato così prima di morire: «Padre, che tutti siano uno» (Gv 17,21). Egli, rivelando che Dio è Padre, e che gli uomini, per questo, sono tutti fratelli, ha introdotto l’idea della fraternità universale. E con ciò ha abbattuto le mura che separavano gli «uguali» dai «diversi», gli amici dai nemici.

Ora senz’altro ognuno di noi, mosso dalla propria fede religiosa, avrà fatto le sue esperienze positive che possono essere utili alla soluzione di problemi simili agli attuali.

E poiché questo è il momento in cui – come diceva un vescovo, specialista in questo campo – «le religioni devono tirare fuori dal profondo di sé le loro forze spirituali per aiutare l’umanità e portarla alla solidarietà e alla pace» , mi permettano di offrire loro la mia esperienza fatta a contatto con persone di ogni età, lingua, razza, e soprattutto di religioni diverse, in ogni angolo della terra. E’ un’esperienza di dialogo che può fornire una chiave per una convivenza fraterna e pacifica, esperienza che mi pare pure nello spirito delle sessioni di Caux, che privilegiano la testimonianza personale all’esposizione teorica.

L’arte di amare

A 60 anni dagli inizi dell’esperienza del Movimento dei Focolari che rappresento, si rinnova sempre la sorpresa nel vedere come il sentiero spirituale sul quale Dio ci ha condotto si incrocia con tutte le altre vie spirituali dei cristiani ma anche di fedeli di altre religioni. In pratica di diventare partner di essi nel cammino della fraternità e della pace. Pur mantenendo la nostra identità, ci permette di incontrarci e comprenderci con le grandi tradizioni religiose dell’umanità.

In altre parole, in obbedienza e in ascolto dello Spirito, ci è stato insegnato come mettere in pratica con successo quella parola che è iscritta nel DNA di ogni uomo e di ogni donna, perché creati ad immagine di Dio-Amore, Dio Padre: amare, amare il prossimo, amare i fratelli. Quella parola, la sola, che può fare dell’umanità una famiglia.

Amore, non come in genere lo si può pensare, ma quel comportamento che ha imprescindibili esigenze.

Quell’amore che, se per i cristiani è addirittura una partecipazione all’amore stesso che è in Dio, non manca nei Sacri Libri delle altre religioni.

Il primo passo per noi, la prima illuminazione, su questo nuovo stile di vita fu durante la seconda guerra mondiale. Di fronte al crollo degli ideali e alla perdita di tutti i nostri beni materiali, sentivamo di doverci aggrappare a qualcosa che non passa e che nessuna bomba potesse distruggere: Dio. Lo scegliemmo come unico ideale della nostra vita credendo nonostante tutto al Suo amore di Padre, amore verso tutti gli uomini della terra.

Ma è ovvio che non bastava credere all’amore di Dio; non bastava aver fatto la grande scelta di Lui come Ideale della vita. La presenza e la premura di un padre chiamava ognuno ad essere figlio, ad amare a sua volta il padre, ad attuare giorno dopo giorno quel particolare disegno d’amore che il Padre ha su ciascuno, a fare cioè la Sua volontà.

E si sa che la prima volontà di un padre è che i figli, tutti i figli, si trattino da fratelli, si vogliano bene, si amino.

E vuole che amiamo, come fa Lui, tutti senza distinzione. Non c’è da scegliere fra simpatico o antipatico, bello o brutto, bianco o nero o giallo, europeo o americano, cristiano o ebreo, musulmano o indù… L’amore non conosce «alcuna forma di discriminazione».

Questa stessa fede nell’amore che Dio porta alle sue creature l’abbiamo trovata pure in tanti fratelli e sorelle di altre religioni, a iniziare da quelle abramiche che affermano l’unità del genere umano, la cura che Dio ha per tutta l’umanità e il dovere di ogni creatura umana di agire come il Creatore con immensa misericordia verso tutti.

Dice un detto musulmano: «Dio perdona cento volte, ma riserva la Sua suprema misericordia per colui la cui pietà avrà risparmiato la più piccola delle Sue creature» .

E che dire della sconfinata compassione per ogni essere vivente insegnata dal Budda, che diceva ai suoi primi discepoli: «O Monaci dovreste operare per il benessere di tanti, per la felicità di tanti, mossi da compassione per il mondo, per il benessere (…) degli uomini» .

Per un cristiano inoltre tutti vanno amati, perché in ognuno si ama Cristo. Lo dirà Lui stesso un giorno: «L’hai fatto a me» (cf Mt 25, 40).

Amare tutti, dunque, senza distinzione.

Ma c’è un’altra caratteristica di quest’amore che è molto conosciuta, riportata in tutti i Libri Sacri, e che da sola basterebbe, se vissuta, a fare di tutto il mondo una grande famiglia: amare come si ama sé, fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. E’ la cosiddetta «regola d’oro», della quale si fa menzione anche nella presentazione di questo seminario. Essa è tanto bene espressa da Gandhi quando ha affermato: «Tu ed io non siamo che una sola cosa: non posso farti del male senza ferirmi». Nella tradizione musulmana si conosce così: «Nessuno di voi è vero credente se non desidera per il fratello ciò che desidera per se stesso» .

Il Vangelo l’annuncia in questo modo: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12). E Gesù commenta: «questa infatti è la Legge ed i Profeti» (Ibid).

In questa semplice norma, seminata dallo Spirito in tutte le religioni, vi è dunque il concentrato di tutti i comandi di Dio. Conviene allora fare grande calcolo di essa nel dialogo interreligioso.

Da questa regola – che a ragione è chiamata «d’oro» – scaturisce una norma che da sola, se applicata, sarebbe il più grande motore dell’armonia fra individui e gruppi.

Un altro modo che insegna come mettere in pratica il vero amore degli altri è espresso da una formula semplice, fatta di due sole parole: farsi uno.

Farsi uno con gli altri significa far propri i loro pesi, i loro pensieri, le loro sofferenze e le loro gioie.

Il «farsi un o» vale anzitutto nel dialogo interreligioso. E’ stato scritto: «Conoscere la religione dell’altro implica entrare nella pelle dell’altro, vedere il mondo come l’altro lo vede, penetrare nel senso che ha per l’altro essere buddista, musulmano, indù, ecc.»

Questo «vivere l’altro» abbraccia tutti gli aspetti della vita ed è la massima espressione dell’amore, perché vivendo così si è morti a se stessi, al proprio io e ad ogni attaccamento; si può realizzare quel «nulla di sé» cui aspirano le grandi spiritualità e quel vuoto d’amore che si realizza nell’atto di accogliere l’altro; «farsi uno» significa mettersi di fronte a tutti in posizione di imparare, e si ha sempre da imparare realmente.
Un’ulteriore esigenza di questo amore è forse la più impegnativa di tutte. Mette alla prova l’autenticità dell’amore, la sua purezza, e perciò la sua reale capacità di generare l’unità tra gli uomini e la fratellanza universale. Si tratta di amare per primi e cioè di non aspettare che l’altro faccia il primo passo; di essere i primi a muoversi, a prendere l’iniziativa.
Questo modo di amare ci espone in prima persona, ma, se vogliamo amare, a immagine di Dio e sviluppare questa capacità di amore, che Dio ha messo nei nostri cuori, dobbiamo fare come Lui, che non ha aspettato di essere amato da noi, ma ci ha dimostrato da sempre e in mille modi che Egli ci ama per primo, qualunque sia la nostra risposta.

Noi siamo stati creati in dono gli uni per gli altri e realizziamo questo nostro essere impegnandoci per i nostri fratelli e sorelle con quell’amore che viene prima di ogni gesto d’amore dell’altro. Questo ci insegnano con la loro vita tutti i grandi fondatori di religioni.

Gesù ne ha dato l’esempio; Egli che ha detto: «Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per gli altri» (Cf Gv 15,13), l’ha data veramente. E l’ha data per noi peccatori e non certo amanti.

Quando poi l’amare per primi è vissuto insieme da due o più persone, si ha l’amore vicendevole, principio e fondamento sicuro della pace e dell’unità del mondo.

La nostra esperienza ci dice che per chi si accinge oggi a spostare le montagne dell’odio e della violenza, il compito è immane. Ma ciò che è impossibile a milioni di uomini isolati e divisi, pare diventi possibile a gente che ha fatto dell’amore scambievole, della comprensione reciproca, dell’unità, il movente essenziale della propria vita.

E tutto questo ha un perché, una chiave segreta e un nome. Quando entriamo in dialogo fra di noi delle più varie religioni, quando cioè ci apriamo l’un l’altro nel dialogo fatto di benevolenza umana, di stima reciproca, di rispetto, di misericordia, ci apriamo anche a Dio e «facciamo in modo – sono parole di Giovanni Paolo II – che Dio sia presente in mezzo a noi» .

Ecco il grande frutto del nostro amore scambievole e la forza segreta che dà vigore e successo ai nostri sforzi per portare ovunque l’unità e la fratellanza universale. E’ quello che il Vangelo annunzia ai cristiani quando dice che se due o più persone si uniscono nell’amore vero, Cristo stesso è presente fra di loro e quindi in ciascuno di loro.

E quale garanzia migliore della presenza di Dio, quale possibilità superiore può esistere per coloro che vogliono essere strumenti di fraternità e di pace?

Questo amore reciproco, questa unità, che dà tanta gioia a chi la mette in pratica, chiede comunque impegno, allenamento quotidiano, sacrificio.

E qui appare, in tutta la sua luminosità e drammaticità, nel linguaggio cristiano, una parola che il mondo non vuole sentire pronunciare, perché ritenuta stoltezza, assurdità, non senso.

Questa parola è: croce.

Non si fa nulla di buono, di utile, di fecondo al mondo senza conoscere, senza sapere accettare la fatica, la sofferenza, in una parola senza la croce.

Non è uno scherzo impegnarsi a vivere sempre il reciproco amore, a portare la pace e suscitare la fratellanza! Occorre coraggio, occorre saper patire.

Ora ciò che ho spiegato non è un’utopia. E’ una realtà vissuta da più di mezzo secolo da milioni di persone, esperienza pilota di quella fratellanza universale e di quell’unità alla quale tutti aneliamo.

Per via di questo modo di amare si sono aperti nel nostro Movimento fecondi dialoghi: fra cristiani di molte Chiese, fra credenti di diverse religioni, e fra persone delle più varie culture. E insieme ci si avvia a quella pienezza di verità cui tutti tendiamo.

L’esperienza di dialogo interreligioso del Movimento dei Focolari

Ed ora mi soffermerei in particolare sulle occasioni di incontro che abbiamo avuto, fin dagli inizi, con fratelli e sorelle di altre fedi religiose.

La prima forte esperienza da noi fatta è stata quella a contatto con i Bangwa, una tribù camerunense radicata nella religione tradizionale, quasi sterminata dalla mortalità infantile, che stavamo iniziando ad assistere.

Un giorno il loro capo, il Fon, e le migliaia di membri del suo popolo, si sono radunati, per una festa, in una grande radura in mezzo alla foresta, per donarci i loro canti e le loro danze. Ebbene: è stato lì che ho avuto la forte impressione che Dio, come un immenso sole, abbracciasse tutti, noi e loro, con il suo amore. Per la prima volta, nella mia vita, ho intuito che avremmo avuto a che fare anche con persone di tradizione non cristiana.

Ma l’evento in qualche modo «fondante» di questo nostro dialogo è avvenuto a Londra nel 1977 ad una cerimonia per l’assegnazione del Premio Templeton per il Progresso della Religione. Vi avevo tenuto un discorso e quando stavo uscendo dalla sala, i primi venuti a salutarmi sono stati ebrei, musulmani, buddisti, sikhs, indù… Lo spirito cristiano di cui avevo parlato li aveva impressionati, cosicché mi è stato chiaro che avremmo dovuto occuparci non solo della nostra e delle altre Chiese, ma anche di questi fratelli e sorelle di altre fedi. Ha avuto inizio così il nostro dialogo interreligioso.

Due anni dopo, infatti, è avvenuto l’incontro con una grande personalità buddista, il Rev. Nikkyo Niwano, fondatore della Rissho Kosei-kai, che mi ha invitato a Tokyo, a parlare sempre della mia esperienza spirituale a diecimila buddisti. Da allora fra focolarini e seguaci della Rissho Kosei-kai è nata una grande fratellanza dovunque nel mondo si incontrano.

Ma gli incontri più sorprendenti con il buddismo sono avvenuti con degli eminenti rappresentanti del monachesimo tailandese.

Durante un loro prolungato soggiorno nella nostra cittadella internazionale di Loppiano, in Italia, dove i suoi 800 abitanti cercano di vivere con fedeltà il Vangelo, due di loro sono stati profondamente toccati dall’unità fra tutti e dall’amore cristiano che non conoscevano.

E sono venuti meno così pregiudizi che impedivano un vero dialogo fra loro buddisti e noi cristiani.

Questi monaci, tornati in Tailandia, non hanno perduto occasione per raccontare, a migliaia di fedeli e a centinaia di monaci, la loro esperienza di incontro col Movimento dei Focolari. E’ nato così, se si può dire, un Movimento buddista-focolarino e cioè buddista-cristiano che è una delle porzioni di fraternità che stiamo edificando nel mondo.

In seguito sono stata invitata in Tailandia in una loro Università buddista e in un loro Tempio a parlare a monache, a monaci ed a molti laici e laiche.

Anche qui l’interesse è stato notevole, mentre noi siamo stati edificati da quel distacco da tutto che li distingue, dalla loro ascetica.

E il dialogo con l’Islam?

Sono ora 6.500 gli amici musulmani che appartengono al nostro Movimento, e ciò che ci lega ad essi è sempre la nostra spiritualità, in cui trovano incentivi e conferme per una più profonda, vissuta aderenza al cuore della spiritualità islamica. Abbiamo tenuto vari incontri degli amici musulmani. E ciò che ha caratterizzato questi convegni è stata anzitutto la presenza di Dio che si avverte specie quando pregano e che dà tanta speranza.

Speranza che ho visto divenire realtà personalmente nella Moschea Malcolm Shabazz di Harlem (USA), sei anni fa, davanti a 3.000 musulmani afroamericani, ai quali sono pure stata invitata ad esporre ancora la mia esperienza cristiana.

La loro accoglienza, a cominciare da quella del loro leader l’Imam W.D. Mohammed, è stata così calda, sincera ed entusiasta da aprire il cuore ai più promettenti sogni per il futuro.

Sono tornata, poi, negli Stati Uniti, a Washington, tre anni fa, per presentare a molti la nostra collaborazione in occasione di una Convention organizzata da loro e che ha visto riunite settemila persone, cristiani e musulmani. In un’esultanza non semplicemente umana, in un abbraccio sincero, con un applauso senza fine, ci siamo promessi di proseguire il nostro cammino nella più piena unione possibile e di allargarlo ad altri: ed ecco così altri brani di fraternità.

Non posso poi non citare gli incontri sempre più frequenti con sorelle e fratelli ebrei nello Stato d’Israele e altrove. L’ultimo da parte mia è avvenuto a Buenos Aires, con una delle loro più numerose comunità, seguito poi da altri membri del Movimento, in diverse occasioni.

E’ stato con grande commozione che ci siamo scambiati un patto di amore scambievole, così profondo e sentito, da aver l’impressione di superare di colpo secoli di persecuzioni e di incomprensioni.

Negli ultimi tre anni è iniziato un promettente dialogo in India anche con gli indù. Abbiamo contatti fraterni ed intensi con Movimenti Gandhiani nel sud di questa immensa nazione. A Mumbai un profondo dialogo è nato con professori dell’Università Somaiya e dell’Istituto Culturale Indiano. Più recentemente è incominciato un rapporto con un Movimento molto grande, Swadhyaya, che ha gli stessi scopi nostri dell’unità nella diversità e la fratellanza.

Un anno fa, abbiamo anche tenuto un primo Simposio indù-cristiano. L’atmosfera che si è creata è stata così bella e alta che abbiamo potuto partecipare loro tante verità della nostra fede. L’impressione che ne abbiamo avuto è che ci si spalanca davanti un orizzonte che non immaginavamo.

Pochi mesi or sono, sono tornata in India e abbiamo potuto continuare questo dialogo a livello della spiritualità che – a dire delle autorità della mia Chiesa – «è il culmine delle diverse forme di dialogo e risponde alle più profonde attese degli uomini di buona volontà» . Abbiamo ora in programma altri Simposi simili, buddista-cristiano e islamo-cristiano.

Per l’espansione universale del nostro Movimento siamo in contatto con tutte le principali religioni del mondo e sono circa 30.000 i membri di queste che condividono, sempre come è loro possibile, la spiritualità e gli scopi del Movimento.

Come dialogare?

Il nostro dialogo interreligioso ha avuto un’evoluzione così rapida e feconda perché l’elemento decisivo e caratteristico è stato quell’arte di amare di cui ho parlato prima.

Nel clima di amore reciproco che l’attuazione della regola d’oro suscita, si può infatti stabilire il dialogo con i propri partner, dialogo nel quale si cerca di farsi nulla per «entrare», in certo modo, in loro.

«Farsi nulla» o «farsi uno» con gli altri, il che è sinonimo.

In queste due semplici parole, alle quali ho già accennato, sta il segreto di quel dialogo che può generare l’unità.

«Farsi uno», infatti, non è una tattica o un modo di fare esterno; non è solo un atteggiamento di benevolenza, di apertura e di rispetto, o un’assenza di pregiudizi. È tutto questo, sì, ma con qualcosa di più.

Questa pratica del «farsi uno» esige che si tolga dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa, per immedesimarci con l’altro. Non si può entrare nell’animo di un fratello per comprenderlo, per condividere il suo dolore o la sua gioia, se il nostro spirito è ricco di una preoccupazione, di un giudizio, di un pensiero… di qualsiasi cosa. Il ‘farsi uno’ esige spiriti poveri, poveri in spirito per essere ricchi d’amore.

E questo atteggiamento importantissimo e imprescindibile ha un duplice effetto: aiuta noi ad inculturarci nel mondo degli altri, venendo così a conoscere la loro cultura ed il loro linguaggio, e predispone gli altri ad ascoltare noi.

Abbiamo notato, infatti, che, quando qualcuno muore a se stesso, proprio per «farsi uno» con gli altri, essi rimangono colpiti e chiedono spiegazioni.

Possiamo passare così al «rispettoso annuncio» dove, per lealtà davanti a Dio, per quella verso se stessi, ed anche per sincerità davanti al prossimo, diciamo quanto la nostra fede afferma sull’argomento di cui si parla, senza con ciò imporre nulla all’altro, senza ombra di proselitismo, ma per amore. Ed è il momento in cui, per noi cristiani, il dialogo sfocia nell’annuncio del Vangelo.

Il nostro lavoro con tanti fratelli e sorelle delle grandi religioni e la fraternità che sperimentiamo con essi ci ha convinto che il pluralismo religioso dell’umanità può perdere sempre più la sua valenza negativa come fomite di divisioni e di guerre per acquistare, nella coscienza di milioni di uomini e donne, il sapore di una sfida: quella di ricomporre l’unità della famiglia umana, perché in tutte le religioni è, in qualche modo, presente e attivo lo Spirito Santo, non solo nei singoli membri ma anche all’interno di ogni tradizione religiosa.

Parlando del meraviglioso avvenimento di Assisi, Giovanni Paolo II lo ha definito «manifestazione mirabile di quell’unità che ci lega al di là delle differenze e divisioni.» .

Riempiamo, allora, il nostro cuore dell’amore vero. Per esso tutto possiamo sperare in ordine all’unità fra i fedeli delle grandi religioni e alla fraternità vissuta da tutta l’umanità.

Grazie del loro ascolto.

Che Dio ci abbracci tutti col suo amore».

Chiara Lubich

Comments are disabled.