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Sono stato nominato difensore d’ufficio di A., arrestato per furto aggravato. Mentre faccio ingresso in tribunale, si avvicina a me il padre dell’arrestato, supplicandomi di fare in modo che il figlio resti in carcere perché «drogato, violento e ribelle verso la famiglia, rifiuta ogni forma di recupero dalla tossicodipendenza».

Gli agenti penitenziari mi accompagnano dal detenuto che aveva trascorso la notte in carcere. Come prima cosa mi chiede di aiutarlo a non rimanere in quell’orribile posto. Studiando le carte del processo, noto che ci sono delle sfasature processuali che mi  consentirebbero di ottenere la scarcerazione dell’interessato. Ma mi assale il dubbio: cosa sarà meglio per questo povero ragazzo? Ha forse ragione il padre? Tuttavia il carcere non è poi così salutare per un tossicodipendente, che – per mia esperienza – è quasi sempre un essere sensibile e bisognoso d’affetto.

Cerco di ascoltare dentro di me la voce dello “Spirito di verità”, per cercare una via d’uscita. All’udienza per il giudizio in direttissima, chiedo al magistrato di concedere un termine di 5 giorni per preparare la difesa. A. torna in carcere, ma – mentre viene portato via dalle guardie – mi lancia uno sguardo impaurito che ancora non dimentico. Gli dico: «Stai tranquillo, verrò a trovarti, dobbiamo parlare». La mia intenzione era quella di trovare una casa di recupero per tossicodipendenti. All’uscita dal Tribunale mi viene ancora incontro il papà di A., convinto che il figlio non avrebbe accettato di andare in questa casa: loro ci avevano provato più volte, inutilmente. Raccolgo il suo sfogo, in cui mi racconta il dramma della sua famiglia che si stava sgretolando a causa di questo figlio drogato.

Passano i cinque giorni. In carcere A. riceve delle cure di metadone; migliora di giorno in giorno. Riusciamo nel frattempo a trovare la casa di cura, la migliore, che qualche mese prima lo aveva rifiutato. Poco prima del processo parlo al ragazzo: «Promettimi di andare in casa di cura, e di tornare a volerti bene; io farò in modo che tu venga rimesso in libertà. Sappi, in ogni caso, che i tuoi genitori ti vogliono un bene grande e che tuo padre di certo è qui fuori ad attendere la sentenza del giudice». Commosso, mi risponde: «Ok, ci sto!».

A. viene rimesso in libertà. Il giudice aveva intuito tutto il lavorìo che c’era stato e mentre andava via, mi saluta con un sorriso. All’uscita un grande abbraccio tra il padre e il figlio. A. oggi vive in una casa di cura per tossicodipendenti e in famiglia è tornata la pace. Il padre in seguito mi ha detto: «Siamo entrambi padri di A.»

(C. I. – Italia)

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