Non è un libro qualsiasi, La dottrina spirituale di Chiara Lubich.
Non appena si comincia a leggerlo, si ha la sensazione di entrare in una dimensione diversa, molto diversa, da quella a cui la realtà di ogni giorno troppo spesso ci abitua. Andando avanti con le pagine, si scende in profondità, ci si trova a fare i conti, inevitabilmente, con il senso più vero di parole e pensieri che lasciano il segno.

E anche con se stessi, e in particolare con il rapporto che ognuno di noi è capace di avere con gli altri: con chi ogni giorno condivide la nostra vita, ma anche con le persone di un’altra condizione sociale, di un’altra cultura, di una diversa etnia o fede religiosa.
C’è una parola, un valore fondamentale, che rappresenta la chiave di volta non solo del libro, ma credo di poter dire anche della vita di Chiara Lubich e del Movimento dei Focolari, da lei fondato – lo scrive – «con gran semplicità», e ormai presente in tutto il mondo. Questa parola è «dialogo».

Dialogo nella Chiesa, tra le Chiese, nei fedeli di altre religioni, tra i laici di «buona volontà»: quattro pilastri che reggono un edificio abitato e animato da più di due milioni di persone, quattro principi che segnano un crocevia per tutti coloro che ritengono valida la frase di Ghandi, citata dalla Lubich: «io e te siamo una cosa sola. Come posso ferirti senza far male a me stesso?».

È difficile non cogliere l’intima verità di questo messaggio. È difficile soprattutto oggi, nel momento in cui avvertiamo tutto il dolore della ferita più profonda che la storia degli ultimi cinquant’anni ci abbia mai inferto. Una ferita figlia di un odio maturato sotto la distorsione in fanatismo di una religione che come tutte le altre predica la pace e, appunto, il dialogo.

Una ferita che ha segnato l’umanità intera, perché la ragione Andrea Riccardi: quelle torri gemelle, ripiegate su stesse l’11 settembre, rappresentano una sorta di contemporanea «arca di Noè», abitate com’erano da donne e da uomini di ogni colore, di ogni credo religioso, di origini diverse, con radici che affondavano in così tanti paesi del mondo eppure con speranze e con sogni che non dovevano poi essere così dissimili tra loro.
Una ferita profonda, una lacerazione intensa e così grande che la politica e la comunità internazionale si sono dovute porre il problema del modo in cui impedire il ripetersi di una simile tragedia. Ma le istituzioni degli uomini devono sapersi porre anche un altro problema: quello del limite connaturato alle proprie azioni, dell’impossibilità di assicurare il futuro delle generazioni che verranno se non si riuscirà a far crescere una profonda cultura del dialogo, della conoscenza e del rispetto di ciò che è altro da sé.

Sono vere e colpiscono, in questo senso, alcune parole della Lubich, in particolare quando si sofferma sulla indispensabile capacità, che ogni individuo e ogni popolo dovrebbero ricercare, di «oltrepassare il proprio confine e guardare al di là», offrendo un contributo a «quanti lavorano in quest’immenso cantiere che è oggi il nostro pianeta».

Oltrepassare i confini del proprio modo di essere e di vedere le cose, creare ponti per costruire un dialogo: è questa la sfida. una sfida difficile, ma è l’unica stretta via per evitare che vinca chi vuole uno scontro di civiltà. Non possiamo permettere che un modo di pensare sia destinato a prevalere sugli altri, che si affermi una civiltà o una religione su un’altra. «Dialogando a 360 gradi», come dice ancora Chiara Lubich, potremo non fermarci di fronte allo «spacco della divisione»,ma potremo «trovarvi rimedio, tutto il rimedio possibile».
Anche perché, come lei stessa insegna, il dialogo e l’amore formano un flusso potente, ricco e a doppio segno: è un dare e ricevere continuo, senza interruzioni. È qualcosa che rafforza, che arricchisce e che costruisce rapporti di solidarietà tra gli uomini.

Quella stessa solidarietà per la quale ero partito per gli Stati Uniti, qualche giorno fa, e che ho portato al Sindaco e al Comandante dei Vigili del Fuoco di New York. Quella stessa, comune, solidarietà che poche ore dopo ho ricevuto da loro quando ad essere bisognoso sono stato io, è stata la città che rappresentavo, Roma, colpita da quella tragedia, da quella esplosione, dalla morte di chi stava facendo il suo dovere e di chi viveva e lavorava lì, a via Ventotene.

Davvero dialogo e solidarietà rappresentano un dare e ricevere, un flusso ininterrotto e biunivoco. E proprio dialogo e solidarietà hanno bisogno di essere costruiti, pazientemente, tenacemente, ogni giorno. Nei rapporti tra i popoli, ma anche nel sistema di relazioni che anima le nostre comunità, le nostre città. È compito di tutti: delle istituzioni, di chi governa e amministra, delle associazioni e dei movimenti che rendono ricco il tessuto di una società, di ogni uomo di buona volontà.

In un discorso riportato nel libro e tenuto a Castel Gandolfo, un anno e mezzo fa circa, Chiara Lubich fa cenno a un certo punto alla «tremenda responsabilità che hanno di fronte a Dio e agli uomini quelli che governano» e che il potere politico deve porsi «al servizio» dei cittadini.
Devo dire che come sindaco di Roma sento tutta la responsabilità di questo, e in particolare della parte che spetta alle istituzioni, del ruolo che il Comune può e deve avere, per contribuire a far funzionare al meglio quella rete di solidarietà cittadina senza la quale non avremmo speranza di «ricucire» una società che sia inclusiva e solidale, di costruire una città più umana, in cui ogni persona abbia garantita una vita degna di essere vissuta, in cui nessuno debba correre più il rischio di restare solo. Ma è proprio questo che conta di più, perché le condizioni di benessere di un città, di una qualsiasi realtà locale, non possono essere valutate e misurate unicamente in base alla generica capacità di produrre ricchezza, ma anche e soprattutto in base al livello di inclusione sociale e all’insieme di opportunità che le istituzioni e la comunità nel suo complesso sono in grado di garantire ai cittadini, a tutti i cittadini.

È vero, allora, che se il dialogo ha sempre più bisogno di «missionari», la solidarietà ha sempre più bisogno di «costruttori», di persone della fede e della profondità interiore di Chiara Lubich e di tutti coloro che, con il loro impegno quotidiano, siano amministratori o giovani che fanno parte di un movimento o di un’associazione di volontariato, spendono una parte di sé per la vita degli altri, per il futuro di tutti noi.

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