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Solingen si trova nel nord ovest della Germania ed è sempre stata una piccola e tranquilla città, conosciuta nel mondo per l’industria metallurgica, per le sue forbici e i suoi coltelli. Unico neo: il grave problema della disoccupazione, aggravato dall’alta percentuale di stranieri arrivati in cerca di lavoro. Ormai da parecchi anni, però, pensavamo di esserci abituati a convivere bene tra persone di molte nazionalità.
Finché di colpo, nel maggio 1993, non è esploso in maniera drammatica il problema dell’inserimento degli stranieri. Sono stati giorni tragici, seguiti con interesse e apprensione sulle televisioni della nostra e di altre nazioni: alcuni giovani di destra hanno appiccato il fuoco ad una casa abitata da famiglie turche. Nell’incendio sono morte cinque persone: donne e bambini.
In quei giorni era Pentecoste e io mi trovavo fuori città. Ho ricevuto la drammatica notizia da una telefonata e, in un primo momento, non riuscivo ad accettare la notizia terribile e scioccante che mi veniva data. Sembrava impossibile. Vi erano stati attentati in altri luoghi, ma mai a Solingen! Nella nostra città così pacifica, e nel quartiere proprio dietro casa mia! Eppure era vero.
Al rientro ho trovato la città in stato di guerra: vetrate demolite, negozi saccheggiati, migliaia di poliziotti, e, per le strade, battaglie tra gruppi estremisti tedeschi e turchi che erano confluiti lì da tutto il paese. Quella notte non ho potuto dormire. I rumori, gli elicotteri, le sirene sembravano un unico grido al quale occorreva dare una risposta.
L’indomani ci siamo incontrati con la nostra comunità. Tanti, provenienti direttamente dal lavoro o dall’università, avevano potuto attraversare a fatica la città. In tutti emozione e tormento, l’esigenza di fare, di dire qualcosa. È nata lì l’idea di un concerto per la pace nella piazza centrale di Solingen. Data la situazione, era un’idea ardita, umanamente una pazzia. Eppure, nessuno di noi aveva il minimo dubbio. In serata, siamo riusciti a prendere contatto con il sindaco della città e con gli organi di sicurezza. Tutti ci hanno appoggiato, anzi, ci chiedevano di realizzare l’idea quanto prima.
È avvenuto una specie di miracolo: dopo solo settantadue ore di preparazione ha inizio il concerto, con un programma fatto dal nostro complesso insieme ad un gruppo musicale turco.
L’iniziativa è subito stata messa in rilievo dalle reti televisive come l’unica manifestazione pacifica in una settimana di violenza. Tra i mille partecipanti c’erano persone di molte nazioni, tanti turchi, e anche i parenti delle vittime. Ogni parola veniva tradotta in turco e si è ben presto creata una grande attenzione e distensione in tutta la piazza.
Alla fine, abbiamo lanciato l’azione « uno per uno »: la proposta che ognuno, tedesco, turco, italiano o coreano, cercasse di costruire dei legami di amicizia con almeno una persona di un’altra nazionalità. Già lì, in piazza, durante lo spettacolo, tanti hanno trovato l’occasione e il coraggio per i primi contatti.
È stata una serata di una bellezza indescrivibile. Chiara Lubich ci ha scritto, incoraggiandoci, convinta che il nostro contributo, « per la testimonianza di unità, lascerà un segno ». E questo è avvenuto! Certamente il concerto non ha cambiato di colpo la situazione nella città, ma è stato un segno accolto dalla popolazione. E ora sappiamo di essere in compagnia di tanti gruppi, a Solingen e in Germania, che si impegnano con passione per far fronte ai nuovi e crescenti fenomeni di intolleranza razziale.
In seguito, abbiamo dato origine ai Cafè international. Si tratta di un incontro mensile durante il quale, a turno, gli immigrati di vari paesi si fanno conoscere, con la propria cultura, i costumi, la musica, i cibi tipici, ma anche condividendo dolori e speranze. E, conoscendoci, scopriamo quanto ogni popolo, proprio per la diversità, è per gli altri un dono e un arricchimento.
L’iniziativa ha trovato una forte risonanza. Ogni volta si aggiungono altre persone di altre nazioni. E l’esperienza si sta moltiplicando in altre città: a Colonia, Amburgo, Münster e Hannover.
L’ultima volta mi sono trovata a tavola con persone dell’Afghanistan, della Serbia, Bosnia e Croazia che vivono in un vicino campo profughi. Durante la cena, le signore dell’Afghanistan mi hanno offerto una loro specialità. Alla mia domanda se fosse tipica del loro paese, mi hanno risposto: « No, è tipica della Bosnia. Abbiamo imparato a prepararla da una nostra amica ». E la indicano. « Abitiamo sullo stesso corridoio e abbiamo la cucina in comune. Trovarci lì, in un ambiente così stretto, fra etnie in contrasto tra loro, è stato durissimo. Il Cafè international ci ha fatto diventare sorelle ».
Con queste persone, segnate dal dolore e da una nuova speranza, ho toccato il cielo.
Ormai, passato qualche anno dalle prime iniziative per la pace, tanti di questi Cafè incominciano a guardare fuori dei confini nazionali. Insieme, si impegnano per le necessità di altri paesi. È una testimonianza di unità che coinvolge e che attira sempre più gente.

 

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