Noi indigeni siamo la maggioranza della popolazione guatemalteca, il 60%. E siamo sempre noi quelli che abbiamo, in sofferenza, il peso maggiore. Il mio popolo vive in piccole comunità con costumi e lingue propri, ma emarginate e in condizione d’inferiorità e dipendenza economica.

Sono la maggiore di 12 figli. Fin da piccola avevo delle responsabilità nella famiglia e ho dovuto lavorare molto presto per sostenerla. Alla dura realtà della mia infanzia si aggiungevano le percosse di papà: sfogava su di me i problemi con il nonno, nella cui casa abitavamo. Era così amaro il nostro rapporto da arrivare a pensare che non fossi figlia sua. Crescendo, si sviluppava in me una totale ribellione verso di lui e verso tutto ciò che faceva.
A ciò si aggiungeva la dolorosa presa di coscienza d’essere diversa: ero indigena.

Avevo otto anni, cominciavo a frequentare la scuola. Un giorno una compagna dice alle altre: “A quella (ero io) non parlatele: è indigena”. Io, però, non mi sentivo diversa da loro: potevo sorridere, parlare, amare, sentire le cose che loro sentivano. Anche all’interno del nostro gruppo etnico c’era divisione e quelli che riuscivano ad emergere disprezzavano gli altri.

Sognavo di studiare diritto per difendere il mio popolo dall’oppressione, vendicando le ingiustizie e il disprezzo ricevuti. Ancora alla scuola media, però, ho dovuto interrompere gli studi per sostenere la mia famiglia. Sono stata assunta in una fabbrica tessile dove lavoravo da 11 a 15 ore al giorno: un ambiente pieno di rivalità.
Sfruttamento e stanchezza, comunque, li affrontavo volentieri pur di evitare ai miei fratelli la sofferenza e il disprezzo che avevo subito io. Poco alla volta ho ripreso a studiare di notte, ma più del sacrificio sentivo una gran forza di lottare per raggiungere io e la mia famiglia una posizione migliore.

Ad una Mariapoli, l’incontro con l’Ideale, la scoperta di un mondo nuovissimo che mai avrei pensato esistesse. Mi colpiva soprattutto vedere che persone di differente condizione sociale, di razze differenti si amavano, pronte a dare la vita a vicenda. Vedevo comporsi una società nuova dove davvero ciascuno è uguale all’altro: tutti con la stessa dignità di figli di Dio.
Ed è iniziata una piccola, ma vera, rivoluzione. Una cosa, però, non riuscivo a superare: il rancore verso papà. Capivo di dovergli chiedere scusa…”Nulla è impossibile a Dio” Nulla è impossibile a Dio”.
A Lui potevo chiedere qualsiasi cosa… E’ stato un momento fortissimo di riconciliazione e ho sentito entrare in me un amore nuovo e più profondo.

C’era ancora da far crollare la barriera verso quanti disprezzavano il mio popolo.
Capivo che Dio mi chiedeva di andare oltre queste ferite. Attraverso un’esperienza concreta di perdono è entrata in me la libertà d’amare tutti, senza distinzione: e non solo perdonare, ma essere disposta a dar la vita per chi, da sempre, si era mostrato mio nemico, nemico del mio popolo.
Aprendomi all’altro, lo sperimento, si arricchisce il mio essere guatemalteca e allo stesso tempo mi scopro parte di un popolo nuovo, quello di Dio.

A. E. Guatemala

 

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