“Sviluppo della comunione tra i Movimenti ecclesiali, fra loro e con i Pastori della Chiesa, dal 1998 ad oggi”

Cari amici,

sono molto contento di partecipare alla prima giornata di questo convegno promosso dal Movimento dei Focolari. Sono contento di incontrare tanti sacerdoti di tutte le parti del mondo, che sono legati al carisma del Movimento dei Focolari o ad altri Movimenti.  Questi sacerdoti hanno in comune l’esperienza che rappresenta il titolo di questo convegno: i movimenti ecclesiali e la nuova evangelizzazione. Infatti coloro che sono riuniti qui -voi, cari amici- avete un contributo importante da dare proprio sulla frontiera più decisiva della vita della Chiesa nel 2000: la comunicazione del Vangelo.
Sono contento di essere qui per vedervi negli occhi e per conoscere la vostra esperienza. Infatti i Movimenti e la nuove Comunità sentono sempre di più, non solo il bisogno di collaborare, ma di vedersi e essere insieme. Una settimana fa, Chiara era a Roma, a Trastevere, nella basilica di Santa Maria, dove si riunisce ogni sera la Comunità di Sant’Egidio per pregare. La preghiera è la prima opera per la Comunità in tutto il mondo, da Maputo in Mozambico a San Salvador in Centro America. E’ la prima opera in una Comunità che lavora in tanti luoghi del mondo con i più poveri, quelli che il mondo mette ai margini.
La visita di Chiara rientra in una consuetudine di fraternità per cui ci si sente uniti nella diversità dei carismi, ci si sostiene, ci si accompagna. E’ lo stesso spirito con cui sono qui con voi. Perché quello che un Movimento vive è anche dell’altro Movimento. Questo avviene non per un vincolo esteriore, ma per quella comunione profonda che sta divenendo la realtà del nostro vivere. Così scopriamo che stiamo camminando nella stessa direzione, con lo stesso orientamento, anche se le vie sembrano o sono diverse.

La direzione del nostro camminare viene dal fondo del nostro carisma stesso: comunicare il Vangelo. L’evangelizzazione, come si dice. I Movimenti normalmente nascono da questo: dalla condivisione di quella compassione di Gesù per le folle, stanche e malate, –come si legge nel Vangelo- per cui inviò i suoi apostoli a predicare ovunque il Vangelo del regno. I Movimenti nascono, in tempi diversi della storia, dal dono di quella passione del Signore per la gente che si fa evangelizzazione.
Infatti comunicare il Vangelo è il primo gesto che compie la Comunità, che compiono gli apostoli, dopo l’effusione dello Spirito Santo in quella Pentecoste di Gerusalemme. Nel secolo trascorso, il Novecento, l’evangelizzazione è tornata ad essere la dimensione principale della vita della Chiesa non solo nei paesi mai raggiunti dal Vangelo, ma anche nelle terre di antica cristianità. Infatti si sono smarrite quelle istituzioni e quei quadri sociali attraverso cui si comunicava la fede, mentre ogni generazione che sale rappresenta una grande occasione per trovare insieme le parole del Vangelo e per aprire la propria vita alla presenza del Signore. Per questo, cari amici, oggi è giusto parlare di nuova evangelizzazione, proprio dopo questa prima Pentecoste del 2000.

Ci troviamo in un mondo tanto nuovo, globalizzato, senza frontiere, ma dove riemergono –purtroppo- tanti muri. Tra il Novecento e il nuovo secolo è avvenuta una svolta antropologica e storica, per cui oggi l’evangelizzazione si pone in un modo nuovo: tra un mondo globale e tante identità che si chiudono. Ma non siamo qui solo ad affrontare un discorso sull’evangelizzazione, ma anche a chiederci quale responsabilità hanno i movimenti nell’evangelizzazione? Nel nostro programma sono poste in testa le parole di Giovanni Paolo II in quella indimenticabile Pentecoste del 1998. Le ripeto: “Più volte ho avuto modo di sottolineare come nella Chiesa non ci sia contrasto o contrapposizione tra la dimensione istituzionale e la dimensione carismatica, di cui i movimenti sono un’espressione significativa. Ambedue sono coessenziali alla costituzione divina della Chiesa…”.

Non si tratta di un discorso teorico, ma di una realtà della nostra vita. Si tratta di una realtà che riguarda da vicino il modo di essere della Chiesa, che tocca da vicino l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Del resto questa è anche la realtà a cui sono particolarmente sensibili i sacerdoti che, per il loro ministero, sono a contatto –vorrei dire- con la dimensione istituzionale ma anche –come voi- sentono molto da vicino quella carismatica. I sacerdoti partecipi dei carismi dei movimenti – mi sembra- quasi vivono in una zona di frontiera che può essere, allo stesso tempo, un terreno di ricchi innesti e scambi, ma forse di qualche difficoltà.

Non sempre nella lunga storia della Chiesa è stato tutto così luminoso e chiaro come in quella giornata di Pentecoste del 1998 in piazza San Pietro. Quella giornata rappresenta un punto di arrivo e di grande chiarezza teologica ed ecclesiale. Infatti credo che dobbiamo far conoscere ancora di più quel discorso del papa e riflettere su di esso. Del resto il problema del rapporto tra la dimensione istituzionale e quella carismatica è antico come la lunga storia della Chiesa. Sono tentato di percorrere –e la mia visione di storico mi spinge in questo senso- la lunga storia della Chiesa per cogliere la dinamica di questo rapporto: quasi la vicenda della coessenzialità. Ma non è il mio tema oggi. Tuttavia vorrei citarvi un episodio lontano della storia della Chiesa occidentale. Nella vita di San Benedetto, all’origine di quel grande movimento carismatico di uomini e di donne, che è stato il monachesimo occidentale (cuore dell’evangelizzazione di tanta parte dell’Europa medievale), si trova un episodio narrato da Gregorio Magno.

Si tratta di una storia, dietro a cui si trova nascosta una grave difficoltà di Benedetto con un prete dal nome Fiorenzo. Un grande carismatico e un prete… Questo prete Fiorenzo prese a invidiare la buona reputazione di Benedetto e il fatto che molti venivano attratti da lui. L’invidia giunse a un punto tale che il prete gli inviò un pane avvelenato; ma l’uomo di Dio si salvò. Allora il prete prese a diffamarlo e tentarlo. Ma Dio protesse il padre dei monaci. E’ un episodio di tensione tra un ministro ordinato che non tollera il carisma sino a volerlo sopprimere e un grande carismatico. Tale tensione può avvenire anche in senso diverso, quando un’esperienza carismatica si sente, in modo prepotente e poco filiale, come se fosse tutta la Chiesa, quasi in maniera messianica… quando un’esperienza carismatica non sente con amore e venerazione non solo la dimensione ministeriale, ma anche il fatto che nella casa di Dio ci sono molte dimore (e quindi tanti modi diversi di vivere la stessa fede). Infatti vivere la coessenzialità tra la dimensione istituzionale e quella carismatica vuol dire comprendere che tutti siamo figli nella Chiesa. Dice un antico adagio armeno del quinto secolo: “Riconosciamo come nostro Padre il sacro Vangelo e come Madre la Chiesa apostolica universale”.

Un grande carismatico del 1200, Francesco d’Assisi, ha espressioni molto significative a questo proposito. Sono espressioni rivelatrici della genuinità evangelica del suo carisma. Tommaso da Celano racconta, nella sua Vita del santo, che il Papa di quei tempi difficili aveva fatto un sogno prima di incontrare Francesco: “Aveva sognato infatti che la basilica del Laterano stava per crollare e che un religioso, piccolo e spregevole, la puntellava con le sue spalle perché non cadesse: ‘Ecco, pensò: questi è colui che con l’azione e la parola sosterrà la Chiesa di Cristo”. E’ un’immagine stupenda della coessenzialità del carisma con l’istituzione: quel piccolo uomo reggeva l’immensa basilica che rischiava di crollare, senza uscire dalla sua piccolezza. E’ un’immagine evocativa di una coessenzialità che diviene originale corresponsabilità.
Non posso dilungarmi su questo aspetto di Francesco grande carismatico e grande figlio della Chiesa, come si vede dal suo rapporto con il papa, dalla scelta di non predicare mai contro la volontà del vescovo del luogo. Ma vorrei farvi risentire –almeno questo- alcune parole del suo testamento, scritto nello stesso anno della sua morte, il 1226:
“Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri.”

Il carisma francescano coinvolse talmente il mondo cristiano del Duecento spingendosi anche al di là delle frontiere della cristianità, come nell’incontro con l’islam al di fuori di una logica di contrapposizione violenta. Allora –come sappiamo- il rapporto tra islam e cristianesimo era rappresentato dal binomio guerra santa-crociata: ma Francesco percorse un’altra strada. C’è una forza comunicativa del Vangelo che si manifesta nel carisma francescano. Questa forza comunicativa del carisma vive l’unità con le istituzioni e i ministeri della Chiesa di quel tempo. Dove c’è questa unità, dove c’è questa comunione, si moltiplica la forza attrattiva e comunicativa del Vangelo del Signore. Non si tratta di un piano o di un progetto pastorale, ma di qualcosa che viene dal profondo di una Chiesa viva che respira a pieni polmoni nella larghezza di tutte le due dimensioni, senza mortificarne alcuna.

La coessenzialità veramente vissuta tra carisma e istituzione riveste l’intera Chiesa di una sua forza particolare. E’ un punto su cui vorrei concludere fra un poco (non troppo) la mia riflessione. Il carisma di un laico, Francesco (che poi fu ordinato diacono), coinvolse non pochi sacerdoti, come si vede dai primi compagni di Francesco e poi nello sviluppo del movimento francescano stesso. Fin dall’inizio ci sono preti attorno all’umile Francesco e nel suo movimento. Ma soprattutto quel carisma portò il Vangelo al di là dei quadri stanchi e feudali della vita ecclesiastica nel cuore della società; e lo portò pure al di là della cristianità. E’ un’immagine che dobbiamo avere ben presente, mentre entriamo nel nuovo secolo.
E’ un’immagine che era esplicita nel discorso di Giovanni Paolo II alla veglia di Pentecoste del 1998: quando carisma e istituzione vivono l’unità, la libertà nel servizio del Vangelo, l’amore nella differenza, si manifesta pienamente una forza di salvezza nella vita della Chiesa, delle comunità, dei singoli. E’ quello che mi dicono tanti sacerdoti, che sono partecipi del carisma di un movimento: si sentono più preti, più capaci di comunicare il Vangelo, più forti nella fede e più al servizio del popolo di Dio. Ma è quanto dicono vescovi e sacerdoti, che pure sono esterni al carisma di un movimento, quando lo vedono vivere bene nella Chiesa: il Vangelo parla in maniera eloquente.

Ogni carisma ha la sua storia. Ognuno ha il suo valore. Sono come figli della Chiesa: tutti hanno un valore –proprio come i figli- nonostante siano più o meno sviluppati. E’ la storia degli ultimi tre/quattro anni in cui ci siamo incontrati tra tante nuove comunità e tanti nuovi movimenti: quello di scoprire il valore, anche se diverso, di ciascuna realtà suscitata dallo Spirito. Ogni movimento ha la sua storia e il suo modo di vivere la coessenzialità, la presenza dei sacerdoti nel movimento carismatico e altro. Ognuno rappresenta una ricchezza per noi tutti. Per questo la dinamica del futuro di ogni movimento non è la clericalizzazione: non si è più ecclesiali, se si è più clericalizzati. Un carisma non è un’ondata che, bene o male, deve essere assorbita. C’è un fluttuare del carisma nella vita, libero e unito, in comunione forte con la dimensione istituzionale e con altri carismi, che rappresenta una grande ricchezza.

Il problema dei movimenti non è la loro clericalizzazione e il loro assorbimento. Un esempio antico di questo problema si trova nella Regola di San Benedetto (che è l’espressione del grande carisma monastico in Occidente, che ebbe una profonda forza di evangelizzazione e di umanizzazione sino dal primo Medio Evo). La Regola di san Benedetto insiste in due capitoli sui sacerdoti che volessero entrare in monastero e condividere il carisma monastico e sull’ordinazione presbiterale dei monaci. Nel primo caso, quello dei preti che entrano in monastero, Benedetto stabilisce: “Se qualcuno appartenente all’ordine sacerdotale chiedesse di essere accolto in monastero, non gli si acconsenta troppo presto. Se tuttavia insistesse assolutamente in simile richiesta, sappia che egli dovrà osservare tutta quanta la disciplina della Regola…”.

Il problema è che il sacerdote, che entra a far parte della comunità, sappia che dovrà vivere approfonditamente il carisma, rappresentato dalla Regola. Vengono prima la Regola e l’abate: si vuole evitare che, perché prete, l’ordinato si consideri al di là del carisma stesso. Ma all’interno del movimento benedettino ci sono giovani che possono venire ordinati. Allora la Regola stabilisce:
Se un abate volesse che gli venga ordinato un monaco o un diacono, scelga fra i suoi chi sia degno di esercitare l’ufficio sacerdotale. L’ordinato però eviti la vanità e la superbia, né ardisca fare se non ciò che gli viene comandato dall’abate, conscio di dover sottostare più degli altri alla disciplina della Regola… Quel posto che gli spetta secondo l’ingresso in monastero, lo conservi sempre, eccetto che l’ufficio dell’altare…”
L’ordinato resta partecipe del carisma (conservi il suo posto di sempre!), e anzi –proprio perché prete- sappia di dover vivere il carisma ancora di più (“dover sottostare più degli altri alla disciplina della Regola”). Un sacerdote –questo è lo spirito della Regola- non deve essere meno sacerdote e, anzi perché sacerdote, deve quasi vivere di più il carisma. Il monastero non si clericalizza, ma vive, per i monaci laici e per i monaci chierici, attorno al carisma, rappresentato dalla Regola e dall’abate.

Sentiamo come questa storia, quella del rapporto tra le due dimensioni della vita della Chiesa, quella dei sacerdoti nei movimenti carismatici, non sia solo la nostra, ma affondi le sue radici addirittura nel primo millennio. Risolvere in maniera unilaterale –cioè fuori dalla comunione- questa storia può significare la clericalizzazione dei movimenti oppure, d’altra parte, la loro assolutizzazione nella Chiesa, quasi in un senso di superiorità su altre esperienze o sulla stesso ministero ordinato. A questo proposito non posso non richiamare le parole del Testamento di Francesco d’Assisi: “E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri”.

Dopo il Concilio Vaticano II e con Giovanni Paolo II, questa storia è giunta a un particolare punto di maturazione nella coscienza ecclesiale. Ma questa coscienza, come è stata espressa dal papa per la Pentecoste del 1998, rappresenta anche una grande responsabilità per noi tutti in questo mondo contemporaneo. In che senso si può parlare di una responsabilità? Almeno, io credo sotto due aspetti, quello della comunione nella Chiesa e quello della comunicazione del Vangelo nel mondo contemporaneo.
Una lettura politica e esterna alla vita della Chiesa ha parlato talvolta quasi di una rivalità tra i movimenti, proprio a partire dalla diversità. L’esperienza che noi facciamo di dialogo, di unità, di mutuo sostegno tra i movimenti, ci porta a dire il contrario. Non vedo tutto questo, se non in qualche angolo di immaturità, talvolta iniziale di qualche esperienza. Infatti la diversità non motiva la rivalità, ma anzi aiuta ciascuno a vedere –proprio nel confronto da fratelli- la specificità del proprio carisma. Il carisma, per restare tale, non può pretendere di volere informare a sé tutta la Chiesa in maniera messianica: è quell’assolutizzazione del carisma che fa torto al dono stesso che si è ricevuto.
Del resto l’ultima stagione della vita della Chiesa, proprio a partire dalla Pentecoste del 1998, è stata profondamente segnata da una crescita di collaborazione e di simpatia tra i movimenti. Lo dico perché ho partecipato a questa stagione, assieme a Chiara Lubich, che si è sviluppata in tanti incontri tra i responsabili dei movimenti stessi. Ma questa stagione ha significato anche una crescita di amicizia nelle situazioni concrete tra la gente dei diversi movimenti.
Questa amicizia era viva già da anni. Mi diceva un’amica di Sant’Egidio, che lavora in un ospedale, come in una situazione di grande tensione e disumanità, si fosse ritrovata spontaneamente con altri colleghi che erano legati a vari movimenti. Gli appuntamenti della vita, la testimonianza del Vangelo e della carità, avvicinano quelli che partecipano a spiritualità differenti. La stessa esperienza si verifica nell’incontro con vescovi, parroci, sacerdoti che fanno parte di un movimento o che si riferiscono alla spiritualità di una nuova comunità.
Una spiritualità vissuta educa al gusto per i diversi carismi nella vita della Chiesa, proprio nel senso di una accoglienza e di uno stimolo di carisma anche che non appartengono alla propria spiritualità. Ho tante esperienze concrete a questo proposito, che mi confermano in questa consapevolezza. Ho visto sacerdoti del Movimento dei Focolari impegnati a far sì che nascesse una Comunità di Sant’Egidio lì dov’erano e a desiderarlo in maniera molto fattiva, come se si trattasse dell’esperienza a cui loro stessi erano legati.
Perché ? Mi sembra che questi ultimi anni abbiano fatto crescere la coscienza che la diversità vissuta nell’amore è una ricchezza per la Chiesa e per ogni carisma. E’ una coscienza diffusa tra i Movimenti, ma anche tra quelli che non partecipano direttamente alla spiritualità e alla vita dei movimenti. Si sono visti tanti incontri, tante giornate, animate dai movimenti ecclesiali e imperniate sull’unità tra di loro, che hanno fatto la gioia di numerosi vescovi. In alcune situazioni sono stati i vescovi stessi a promuoverle.     Non si tratta di un coordinamento o di un consiglio dei movimenti. Ma è qualcosa di più profondo. Infatti a che giova il coordinamento, se non c’è una coscienza profonda di unità, se non c’è un amore alla base che rende consapevoli come l’uno sia indispensabile all’altro? I coordinamenti, le consulte, i consigli non sono una novità nell’organizzazione della Chiesa. Ma qui c’è qualcosa di più: è la vera recezione del Concilio, come Giovanni Paolo II l’ha proposta: quella di una Chiesa, ricca di carismi, orgogliosa dei doni dello Spirito Santo, ma unita e coesa nell’amore.

I movimenti non sono piccole Chiese, ambiziose di estendersi a una vasta Chiesa. Ma sono doni che, lungo la storia del Novecento, il Signore ha fatto alla sua Chiesa. Ogni movimento ha interpretato un aspetto della vocazione della Chiesa stessa in una maniera originale: ma esso rinvia per sua natura alla Chiesa. Le tante vocazioni sacerdotali, che nascono nei movimenti, sono un dono alla Chiesa. La testimonianza della carità verso tutti, ma soprattutto verso i più poveri, è un dono alla Chiesa per il mondo intero. La comunicazione del Vangelo che è alla base della strutturazione missionaria del carisma dei movimenti, è un dono alla Chiesa.
Infatti i movimenti sono –per utilizzare il termine di Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte-, scuole di comunione. La stessa vita comune, la partecipazione alla missione, tra sacerdoti e laici nello spirito di un carisma, è una scuola di comunione. Se i movimenti nascono da un carisma e da un fondatore, si muovono –almeno per quelli del Novecento- nella dinamica stessa della comunione. E’ quella comunione che fonda metodi originali, semplici, diretti, di comunicare il Vangelo o di viverlo in maniera attrattiva per tante donne e uomini, nostri contemporanei. Si manifesta una pienezza di vita che abbraccia i movimenti grandi e i meno grandi, le istituzioni della Chiesa, i ministri ordinati, le Chiese locali, le parrocchie, sino alle comunità religiose. Questa pienezza di vita è eloquente comunicativa di per sé: parla della bellezza della vita cristiana, comunica il suo fondamento evangelico, coinvolge gli altri.

L’unità tra i movimenti non è la costruzione di un fronte tra le forze più attive della Chiesa. Non è così. Sarebbe riduttivo. Essere uniti non vuol dire parlare la stessa lingua e fare le stesse cose. E’ un’idea riduttiva di unità. C’è una comunione profonda, che diventa solidarietà nella diversità e che rappresenta una ricchezza nella missione. Dopo la Pentecoste, quella prima Pentecoste di Gerusalemme, gli apostoli non si misero a parlare la stessa lingua, ma li udivano parlare in lingue diverse. Eppure la loro unità era profonda, come si manifestò poi con il discorso di Pietro. Dopo la Pentecoste del 1998, dopo il discorso di Giovanni Paolo II, non siamo chiamati a fare un fronte unico: sarebbe troppo poco. Ma siamo chiamati a amarci in profondità, a sentirci una cosa sola, a cogliere che abbiamo una missione in comune nel mondo, a sostenerci, ma anche a essere noi stessi, per fare della nostra libertà un’occasione per vivere secondo lo Spirito, per servire il Vangelo, per edificare la Chiesa.

Dico a ogni nostra comunità, specie a quelle più isolate e in luoghi difficili del mondo: non sarete mai sole! Sono stato nel marzo di quest’anno in Mozambico, dove ho visitato una buona parte delle 50 e più comunità che sono sorte in quel paese, dopo la pace, firmata a Sant’Egidio e mediata da noi, tra il governo e la guerriglia che ha posto fine ad una guerra durata 15 anni e che ha prodotto un milione di morti. A tutti ho detto: non sarete mai soli! Ma mi sono reso conto che anche un movimento non è mai solo: è bello scoprire che qualcuno cammina accanto a sé.
Gesù mandò i suoi discepoli due a due nel primo viaggio missionario dei Vangeli. Gregorio Magno si chiede perché Gesù non avesse mandato i discepoli da soli. La sua risposta è che, camminando l’uno a fianco dell’altro, comunicando insieme il Vangelo, guarendo gli ammalati, potessero testimoniare allo stesso tempo l’amore scambievole tra di loro. Da quell’amore li avrebbero riconosciuti. In quell’amore tra i due, c’era Gesù con loro. La loro missione fu efficace, tanto che Gesù vedeva Satana cadere dal cielo e li accolse, al loro ritorno, pieno di gioia. Quei due discepoli sono il segno di un cammino che stiamo facendo insieme tra diversi movimenti: la missione che compiamo, lungo strade differenti, in modi differenti, sarà più attrattiva e convincente, perché si fonda sull’unità.

E’ quell’unità che avrà anche la capacità di abbattere tante barriere, di allargare le frontiere, di costruire ponti invece che muri, nella vita della Chiesa e nel mondo. Penso all’ecumenismo, in cui molti movimenti hanno un compito particolare. Penso al dialogo della vita, con gli altri mondi religiosi. Penso alla guerra o alle situazioni di tensioni.    L’esperienza che noi possiamo fare, dopo la Pentecoste del 1998, è quella di vivere in maniera profonda l’unità. Scriveva un grande vescovo del II secolo, Ignazio di Antiochia, morto martire: “…quando infatti vi riunite, crollano le forze di Satana e i suoi flagelli si dissolvono nella concordia che vi insegna la fede”. C’è una forza di amore che nasce dall’unità vissuta nel profondo. Sono convinto che sta nascendo una nuova forza capace di far cadere tanti muri e divisioni: perché uno spostamento anche di pochi centimetri in profondità provoca sulla superficie un terremoto. E’ quella scossa profonda di amore e di Vangelo di cui il nostro mondo contemporaneo ha bisogno.

ANDREA RICCARDI

 

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