Nessun burundese dimenticherà mai il 1993. L’assassinio del neo-presidente ha scatenato ancor più l’odio etnico, la rabbia, il desiderio di vendetta, specialmente in noi giovani.
E anch’io, come tutti – uomini e donne, bambini e adulti – ho dovuto imparare ad usare il fucile, ma c’era una domanda che mi girava continuamente in testa: come cambiare questa situazione?
Un giorno, proprio nel mio villaggio, c’è stato uno scontro fra militari del governo e ribelli: cinquanta i morti. Erano amici, gente che vedevo ogni giorno per strada. Non potevo accettarlo, la vendetta mi pareva l’unica soluzione. Dovevo prendere le armi e combattere per difendere la mia gente.
Una domenica, per ripararmi dalla pioggia, mi sono rifugiato in chiesa e mi sono trovato in una sala dove si teneva un incontro sulla Parola di Dio. Invitato da qualcuno a trattenermi, ho iniziato ad osservare le persone: erano diverse dalle altre, raccontavano della loro vita che si intrecciava col Vangelo, parlavano di unità, di fraternità, ma soprattutto la vedevo vissuta tra loro. Ero sconvolto, ma volevo provarci, fare mia la sfida dell’amore. Avevo scelto l’università come banco di prova. In quelle aule, che frequentavo tutti i giorni, le divisioni erano più acute a causa della presenza di giovani di tutte le etnie. Tanti avevano perso i loro parenti in guerra e vivevano di odio e vendetta. Studiare in queste condizioni non era certo facile.
Nonostante ciò, ogni mattina entrando a lezione salutavo tutti, anche se qualcuno mi prendeva per matto. Ho subìto accuse, critiche anche dalla mia stessa etnia, ero cosciente di muovermi sulle sabbie mobili, ma non ho cambiato il mio comportamento.
Volevo dimostrare che il dialogo è più potente delle armi, che l’amore è la soluzione ai nostri problemi. Anche Gesù aveva passato lo stesso: anch’io come Lui volevo dare la mia vita per un mondo più unito.
Fuori dall’università, intanto, con i miei amici non avevamo tempo da perdere: amare significava diffondere una cultura di pace, raccogliere vestiario e cibo per i poveri, organizzare momenti di dialogo, feste, incontri sportivi. Tutto per far vedere che vivere da fratelli è possibile.
È stato solo due anni dopo che un mio compagno di facoltà ha trovato il coraggio di confessarmi di aver messo anche il mio nome sulla lista dei nemici da eliminare. È stato il mio comportamento a fargli cambiare idea.
Ha buttato via la pistola che portava sempre con sé: aveva deciso di cambiare vita.
Jovin, Burundi

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