Il libro – esile di pagine ma denso e compatto come andrebbe invidiato a chi scrive o stampa – viene opportunamente alla luce in tempi assai difficili.

Credo non vi sia stato, in questo recente scorcio d’anni, un momento che abbia prodotto, nel mondo, un così profondo e sconcertante sentimento di precarietà. (…)

Sarebbe in atto – così si pretende – uno scontro aperto, di natura non solo religiosa, ma anche civile ed etica, che coinvolge l’identità complessiva di due civiltà. (…)

La domanda che da più parti viene posta è se il cristianesimo rappresenti ancora una pretesa “civiltà superiore” in grado di moderare le contraddizioni del mondo. Mentre si dà per certo che l’Islam, tutto quanto, è un insieme di obbedienze e di intolleranze imbevute di ritualità e fanatismo, ignorando i tesori di armonia e di saggezza che la sua religione continua a riservare anche alle dimensioni civili e culturali via via insorgenti. (…)

Riflettevo su queste cose scorrendo L’arte di amare, di Chiara Lubich. Penso al bene che ne verrebbe – non in senso virtuoso, edificante, ma proprio per suoi significati concreti – se la lettura di queste pagine, disadorne e amorevoli, avesse la forza di contrastare le grandi, plateali, sulfuree esternazioni concesse, su pagine ben più influenti, a chi si esalta nel proclamare purezze, distanze, primati e, appunto, inconciliabilità. (…)

Chiara Lubich, come altri mistici della Chiesa, è insieme annuncio e ascolto, parola e traduzione, segno e senso. Ecco perché è una possibile congiunzione tra profezia e cammino, volta a mettere insieme ciò che inclina a separarsi; e lo fa in nome di ogni uomo, di ogni cultura, di ogni religione. Dove è stata voluta e ascoltata, cioè in ogni parte del mondo, ha provocato un’idea di Dio riconducibile alla sua essenza unica e univoca, non mutuabile, né separabile, né ripetibile; facendo rivivere, in sostanza, lo “Spirito di Assisi”, secondo cui non c’è un inginocchiatoio dal quale una preghiera possa pretendere di salire più in alto di tutte le altre.

E proprio qui la testimonianza di Chiara spegne i fuochi delle solitudini ardenti – invaghite dei propri privilegi, a cominciare dal Dio personale – in cui si prega e si spera ciascuno per sé, non tenuti a condividere il bene e il male che attraversano tutti e ogni cosa. Radicata in un secolo colpevole di tanti orrori, ma al quale va riconosciuta la più morale e sociale delle scoperte antropologiche, quella del primato del noi sull’io – il primato non solo etico, ma anche reale, dell’esser nati per la condivisione – Chiara ci mostra che gli uomini non solo vivono, ma esistono, insieme. (…)

Chiara Lubich non a caso ci interpella sul da farsi per rimettere insieme l’etica dell’unità, cioè riunire i frammenti dell’indivisibile, l’uomo, ricomponendo le strutture del condivisibile, la comunità. (…)

Ma con quali mezzi? E’ una contraddizione, secondo Chiara, che si scioglie sulla Croce, dove c’è un uomo che non misura più le distanze, non cerca più il colpevole, non si fa più giustizia, ma assume su di sé la tua vita, con tutte le sue ferite; dove, con le sue braccia larghe, e inchiodate, in realtà stringe al petto le divisioni del mondo. Non dunque un’altera, incontestabile, dogmatica professione religiosa: al contrario, è partendo da qui che si compie il salto rischioso della fede, come lo chiama Kierkegaard, dove si lanciano i dadi di Pascal, dove si svolge la partita a scacchi del “Settimo sigillo” di Bergman. Ciò che lacera gli uomini e la loro relazione è l’idea che la nostra vita dimori in un arcipelago di innumerabili isole in ciascuna delle quali c’è uno di noi che vede l’umanità nella propria ombra, fidandosi di quella soltanto. Pronto a cogliere in quella del vicino qualcosa di sospetto, di ostile, da dover controllare e magari colpire. Le guerre di religione, e di civiltà, nascono dal vedere e amare quelle ombre.

Chiara Lubich, ‘L’arte di amare’, Editrice Città Nuova, Roma 2005

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