«Caro A., come vedi, nel nostro piccolo cerchiamo di aiutare quei compagni che hanno molte difficoltà… Quello che facciamo noi è poco, però ci dà la forza di andare avanti nella strada dove c’è la luce. Quando ci addormentiamo ci sentiamo liberi e con la coscienza a posto. Con i compagni cerco sempre un dialogo: a volte serve una parola buona, a volte basta essere disponibili, altre volte diciamo insieme una preghiera, affinché il Signore ci aiuti a superare questi momenti brutti».

Così scrive un detenuto ad A., che tutti i giovedì mattina scende a Roma per recarsi al Nuovo Complesso di Rebibbia, dove i suoi amici detenuti lo aspettano. Da alcuni anni impiega così il suo giorno di libertà dal lavoro, facendosi carico dei problemi e delle speranze di gente che spesso ha toccato il fondo.

In via eccezionale, A. ha ottenuto il permesso di incontrare i detenuti di tutti i reparti. Ne segue una cinquantina, e attraverso i più disponibili arriva ad altri ancora; li aiuta anche dando loro la Parola di vita mensile e la rivista Città nuova. Molti dei suoi amici dicono di trovare in questo un alimento, un aiuto a vedere le cose da un’altra visuale, come esprime questa poesia scritta da uno di loro:

«Il silenzio della notte/ è come un accogliente letto caldo/ (…). È la voce della nostra coscienza./ (…) Possono i carcerati ravvedersi /i ciechi vedere tramonti /i barboni sognare un camino acceso./ Possono i potenti diventare umili e saggi /i malati tornare a sorridere./ Il silenzio della notte/ è il letto caldo dove tutti/ fanno i conti con la Verità».

Spesso, il rapporto continua anche con chi ha finito di scontare la sua pena o viene trasferito: è il caso dell’autore della poesia, che scrive da un altro carcere: «È dal ’96 che sono in carcere. Disagi, lutti in famiglia e di nuovo carcere… Meno male che ho imparato ad amare e credere, perché oggi, se così non fosse stato, non so che fine avrei fatto. Voglio confidarti che continuo a pregare e cerco di portare questa vita di amore a chi ne ha più bisogno. Anche fuori di qui non sarà facile, ma bisogna fare i conti con il proprio passato, accettarlo, tirare fuori l’umiltà e dire: ho bisogno di aiuto. Non nego che ci sono stati momenti in cui ho provato sulla mia pelle qualcosa che ha vissuto Gesù: l’abbandono, la persecuzione, l’indifferenza di tante persone… ma poi dico a me stesso: io sono colpevole e Lui era innocente. Ha sacrificato la sua vita per redimerci, per farci capire fino a che punto dobbiamo amare. Come si può non amarlo e adorarlo?».

Le esperienze finora raccolte sono una testimonianza commovente. Ecco alcuni flash.

«Un ragazzo della cella di fronte alla mia era disperatissimo per aver perso l’anello che gli aveva regalato la moglie. Ho provato a smontare il sifone del lavandino e così l’abbiamo trovato. È difficile dire come era felice… Di sera ho scritto una lettera per un detenuto analfabeta… Ho regalato un pacchetto di sigarette da dieci con piacere, a costo di restare io senza».

«Ho lavorato per due mesi a costruire una barca con degli stuzzicadenti. Volevo venderla e ricavare dei soldi. Un mio amico però non aveva niente per fare un regalo a sua moglie e allora ho pensato di regalargli la mia barca».

Brani di vita nuova che ci fanno capire meglio come farci “prossimi”, sul modello di Gesù in croce, di quanti ci passano accanto nella vita, volendo esser pronti a “farci uno” con loro, ad assumere una disunità, a condividere un dolore, a risolvere un problema, con un amore concreto fatto servizio.

(cfr. Città Nuova n. 5/2006)

 

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