Per coloro che ascoltavano Gesù l’immagine della porta era familiare, dal sogno di Giacobbe, alla Gerusalemme dalle porte antiche che Dio ama in modo particolare. Ma sono le parole del Salmo 118,20: “E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti” che Gesù fa sue, dando ad esse una nuova pienezza di significato. Egli è la porta della salvezza, che introduce ai pascoli dove i beni divini sono liberamente offerti. Egli è l’unico mediatore e per mezzo suo gli uomini hanno accesso al Padre. “Egli è la porta del Padre – dice Ignazio d’Antiochia – attraverso la quale entrano Abramo e Isacco e Giacobbe e i profeti e gli apostoli e la Chiesa”.

«Io sono la porta…».

Sì, l’immagine della porta doveva far breccia nel cuore degli ebrei che, varcando quella della Città Santa e quella del Tempio, avevano la sensazione dell’unità e della pace, mentre i profeti facevano sognare una Gerusalemme nuova dalle porte aperte a tutte le nazioni. E Gesù si presenta come colui che realizza le promesse divine, e le aspettative di un popolo la cui storia è tutta segnata dall’alleanza, mai revocata, con il suo Dio. L’idea della porta assomiglia e si spiega bene con l’altra immagine usata da Gesù: “Io sono la via, nessuno va al Padre se non attraverso di me”. Dunque lui è veramente una strada e una porta aperta sul Padre, su Dio stesso.

«Io sono la porta…».

Cosa significa concretamente nella nostra vita questa Parola? Sono tante le implicazioni che si deducono da altri passi del Vangelo che hanno attinenza con il brano di Giovanni, ma fra tutte scegliamo quella della “porta stretta” attraverso la quale sforzarsi di entrare per entrare nella vita.
Perché questa scelta? Perché ci sembra quella che forse più ci avvicina alla verità che Gesù dice su se stesso e più ci illumina sul come viverla. Quando diventa, egli, la porta spalancata, pienamente aperta sulla Trinità? Là dove la porta del Cielo sembra chiudersi per lui, egli diviene la porta del Cielo per tutti noi. Gesù abbandonato è la porta attraverso la quale avviene lo scambio perfetto tra Dio e l’umanità: fattosi nulla, unisce i figli al Padre. E’ quel vuoto (il vano della porta) per cui l’uomo viene in contatto con Dio e Dio con l’uomo. Dunque lui è la porta stretta e la porta spalancata nello stesso tempo, e di questo possiamo farne esperienza.

«Io sono la porta…».

Gesù nell’abbandono si è fatto per noi accesso al Padre. La parte sua è fatta. Ma per usufruire di tanta grazia anche ognuno di noi deve fare la sua piccola parte, che consiste nell’accostarsi a quella porta e nel passare al di là. Come? Quando ci sorprende la delusione o siamo feriti da un trauma o da una disgrazia imprevista o da una malattia assurda, possiamo sempre ricordare il dolore di Gesù che tutte queste prove, e mille altre ancora, ha impersonato. Sì, egli è presente in tutto ciò che ha sapore di dolore. Ogni nostro dolore è un suo nome. Proviamo, dunque, a riconoscere Gesù in tutte le angustie, le strettoie della vita, in tutte le oscurità, le tragedie personali e altrui, le sofferenze dell’umanità che ci circonda. Sono lui, perché egli le ha fatte sue. Basterà dirgli, con fede: “Sei Tu, Signore, l’unico mio bene”, basterà fare qualcosa di concreto per alleviare le “sue” sofferenze nei poveri e negli infelici, per andare al di là della porta, e trovare al di là una gioia mai provata, una nuova pienezza di vita.

Chiara Lubich

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