Il brano che segue, preparato di recente da Chiara Lubich per un incontro con amici ebrei, rispondeva ad una domanda sul significato del dolore, e del dolore legato all’amore.

“È un argomento difficile, il più difficile da affrontare specialmente per me, ora, davanti a persone che fanno parte di un popolo che ha sperimentato come nessuno in questo secolo la sofferenza, il dolore indescrivibile della Shoah, quell’immane tragedia che è stata forse la prova più grande che abbia mai dovuto subire il popolo ebraico o qualsiasi altro popolo. Tanto che uno dei vostri grandi pensatori, Martin Buber, ha potuto coniare la metafora dell’Eclissi di Dio, perché Auschwitz ha messo in discussione la fede stessa.

“Il problema del dolore è antico quanto l’uomo che ha cercato di dargli una quantità di risposte attingendo alla sapienza umana, alla filosofia, alla psicologia. Ma il problema rimane e soprattutto rimane la realtà del dolore. Cercherò di dirvi come noi lo abbiamo affrontato, premettendo che la nostra è stata un’esperienza fatta nel solco della tradizione cristiana.

“Non sono stati i duri tempi di guerra che ci hanno portato ad una riflessione sul dolore. Anzi dobbiamo dire che la fede nell’amore di Dio era così luminosa e gioiosa da farci quasi scomparire gli orrori della guerra, anche se vivevamo gomito a gomito con tutti e condividevamo le tragedie di chi ci stava accanto. Finché un giorno la nostra attenzione fu richiamata su quel grido in aramaico di Gesù sulla croce: Elì, Elì, lemà sabactàni?, Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?, che è l’inizio del Salmo 22. Ci fu detto che quello era stato il più grande dolore di Gesù, perché abbandonato da tutti si sentì abbandonato anche da Dio.

“Ora questo fatto ci ha fatto pensare. Come mai, abbiamo detto, il Padre ha permesso che Gesù provasse un dolore così grande? Non amava egli il Figlio infinitamente? Ed abbiamo capito: l’ha permesso perché c’era su Gesù un disegno d’amore particolare: Egli doveva soffrire per tutti gli uomini e poi risorgere. E gli uomini, che avrebbero creduto in lui, sarebbero risorti con lui. Gesù, asceso al Cielo, avrebbe goduto per tutta l’eternità anche di ciò che lui aveva fatto in terra. La storia di Gesù ci ha così illuminato su ogni storia umana dolorosa. Anche noi siamo figli di Dio. Anche su di noi c’è uno splendido disegno. Merita soffrire per raggiungerlo.

“Mi sembra che la meditazione sul dolore che ha provato Gesù nell’abbandono non sia estranea nemmeno alla vostra tradizione e alla vostra storia. Mi ha molto colpito infatti un passo del Talmud che mi permetto di riportare: “Chiunque non prova il nascondimento del volto di Dio, non fa parte del popolo ebraico” (TB, Hagigah 5b). In tutta la storia ebraica, da Abramo in poi, ci sono momenti e situazioni che sembrano segnati dal “nascondimento del volto di Dio”. Non per nulla nei Salmi spesso si esprime angoscia sull’esperienza che “Dio nasconde il suo volto”.

“Ma nascondimento di Dio non vuol dire assenza di Dio. Forse su questa terra rimarrà sempre un mistero perché Dio ha permesso questo buio, ma l’eclissi non permane. La Shoah, questo trauma che ha segnato la storia dell’umanità, oltre a quella del popolo ebraico, non è stata la vittoria definitiva del male. Allora è possibile la nascita di una nuova vita? E che appaia nuovamente il volto di Dio dopo un’eclissi così spaventosa? Con questa speranza “il ricordo”, che è così importante, può servire a dare una svolta alla storia e a costruire un mondo nuovo.

“Il mio augurio e la mia preghiera è che si ricordi la Shoah sempre di più come un passaggio e come la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, proprio per quell’alleanza da Dio mai revocata con il Suo popolo. E noi vi saremo accanto ogni giorno in questo vostro cammino che è anche nostro”.

(Da Città Nuova n.2 – 2000)

 

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