Il quadro drammatico di quanto ha provocato il terremoto che ha colpito il Kashmir è noto: oltre 50.000 morti, 65.000 feriti e più di 4 milioni senzatetto. Ci sono ancora villaggi sulle montagne in cui non è stato possibile arrivare neppure in elicottero. I feriti trasportati negli ospedali di Rawalpindi e Islamabad con gli elicotteri sono più di 5.000, ma le strutture non sono assolutamente adeguate. L’emergenza sanitaria cresce di ora in ora anche per il pericolo di epidemie e infezioni. Già ci sono tanti casi di tetano.

La terra continua a tremare. Non sono solo piccole scosse di assestamento, ma forti scosse di terremoto. Di notte si stenta a dormire e di giorno intensa è l’opera di soccorso.

Ma si sta assistendo a una straordinaria generosità da parte di governi di molti Paesi e di organizzazioni internazionali – anche se insufficiente per far fronte alle dimensioni del sisma. C’è chi ha detto che gli aiuti così tempestivi arrivati da Europa e Stati Uniti, stanno sanando quella ferita aperta tra occidente e mondo islamico.

Colpisce la generosità del popolo. Una generosità che non conosce confini di classe, di religione, di nazionalità. A contatto con i feriti e i senzatetto che hanno perso tutto, restiamo edificati dalla grande lezione di fede. Quella fede che fa credere che al di là di tutto c’è Dio che ti ama e che fa riscoprire ciò che veramente vale nella vita.

Queste notizie che ci giungono dal Pakistan, da alcuni amici cristiani e musulmani. Ci hanno scritto una toccante lettera che ci aiuta a penetrare il volto più umano di questa catastrofe:

“Vorremmo soprattutto condividere con voi la storia di alcune delle tantissime vittime del terremoto, perché anche voi possiate conoscerle almeno attraverso queste poche righe. Vorremmo caricarci sulle nostre spalle un po’ dei loro dolori, delle loro sofferenze, perché non siano soli e possano sentirsi capiti e aiutati nella loro situazione”. Ed ecco la loro testimonianza:

 

Tra i terremotati feriti negli ospedali di Rawalpindi: “I feriti, via via che erano estratti dalle macerie, venivano trasportati ad Islamabad e Rawalpindi, e smistati nei vari ospedali. Cerchiamo di portare sostegno ai feriti, perché manca chi li ascolta, li lava e li assiste. Tutti gli operatori ospedalieri ci hanno suggerito questo compito, di cui vedevano l’assoluta necessità. La gente ha bisogno di ripetere a qualcuno quanto ha vissuto. Sentiamo quanto sia importante essere lì per prendere su di noi questa sofferenza ed essere segni concreti dell’amore di Dio.

Alessandro è andato al Rawalpindi General Hospital. Racconta: “La scena che ci si è presentata all’ingresso dell’ospedale era agghiacciante, l’atrio, i corridoi, ogni spazio era occupato da barelle e lettini, con donne, uomini, bambini, medicati alla meglio, alcuni in condizioni visibilmente gravi, e quasi tutti in silenzio, con lo sguardo smarrito, forse sotto shock”.

“Ma la più grande lezione ci viene proprio dalle vittime del terremoto, che incontriamo negli ospedali e che ci raccontano storie dolorosissime e terrificanti. Una studente di 17 anni: “Ero in classe quando sono iniziate le prime scosse, ero vicino alla porta e mi è venuto spontaneo correre fuori. Girandomi ho visto davanti ai miei occhi la terra aprirsi e inghiottire tutta la mia classe. Sono l’unica sopravvissuta”.

Molti hanno perso tutto, e in molti casi, l’intera famiglia. Ma la fede, che questa gente attinge dall’Islam, fa credere che aldilà di tutto c’è un Dio che ti ama, e fa riscoprire cosa veramente vale nella vita.

Oggi Rani, visitando un reparto dell’ospedale, si ferma con una bambina, ancora in stato di shock, con una gamba ingessata e l’altra ferita. Le offre una mela e la piccola abbozza un sorriso, ma non parla. “Coraggio, di’ come ti chiami” interviene dolcemente il padre, con un gran sorriso. Rani è commossa da questa scena e chiede all’uomo dove sia la moglie. ‘Non c’è più’ è la risposta, data con lo stesso sorriso e commovente serenità.

In un’atmosfera di reciproca gratitudine, sembra che tutto sparisca, e resti solo quell’amore concreto e reale, che ci fa sentire parte di una stessa famiglia.

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