“Porta”, non “frontiera”, almeno fino a quando la Francia non ha sospeso i trattati di libera circolazione. Così, Ventimiglia è diventata un imbuto, dove si raccolgono i migranti che considerano il nostro paese solo una tappa, prima di raggiungere altre mète oltre confine. «Da Ventimiglia sono passate più di 20 mila persone lo scorso anno».

A raccontarlo è Paola, della comunità locale dei Focolari. «Praticamente un’altra Ventimiglia, perché la nostra popolazione si aggira intorno ai 24 mila abitanti». Insegnante presso il Seminario vescovile, ricorda: «Tra febbraio e marzo 2015, i seminaristi avevano cominciato un servizio di distribuzione di cibo ai clochard della stazione. Con l’andare dei giorni, però, questi clochard si moltiplicavano». Infatti, a loro si stavano aggiungendo i migranti che, sbarcati sulle coste italiane, volevano attraversare il confine con la Francia per raggiungere altri paesi europei. «Da allora è cominciata un’”emergenza” che non è mai finita. All’inizio, ci siamo impegnati con altre realtà locali nella distribuzione volontaria di panini per strada». Un volontariato svolto in collaborazione con la Caritas diocesana. «Ci siamo messi in contatto con la comunità dei Focolari oltre confine, la quale ha condiviso con noi i turni, e ci ha sostenuto con i fondi raccolti dalla vendita di beneficienza svolta durante il Grand Prix di Monaco».

«A giugno 2015 – continua – è sorto il campo della Croce Rossa vicino alla stazione. L’accesso era limitato, ma quanti di noi avevano l’HACCP sono potuti entrare per collaborare in vari modi». Accanto a questo campo “ufficiale”, durante l’estate è nato un campo “informale” proprio sulla frontiera con la Francia. «Molti migranti arrivavano senza documenti, e siccome nel campo gestito dalla Croce Rossa era obbligatoria l’identificazione, molti preferivano accamparsi lì, per cercare di passare subito la frontiera». Poi, ai primi di ottobre, questo campo è stato smantellato e sgombrato, “piuttosto brutalmente”. «Quando a maggio del 2016 è stato chiuso anche il Campo della Croce Rossa ci siamo trovati all’improvviso con più di mille persone in città. Una situazione insostenibile, aggravata dall’ordinanza comunale che vietava la distribuzione di cibo e beni di prima necessità ai migranti, pena sanzioni penali e multe. Finché la Caritas è intervenuta a mediare. Così è nata una realtà di accoglienza intorno alla chiesa di Sant’Antonio. Chiesa di giorno, dormitorio di notte. Le famiglie con bambini e le persone più fragili venivano ospitate in chiesa: via le panche, si prendevano le coperte e poi, il mattino, si ripuliva tutto».

A metà luglio del 2016 viene aperto un nuovo campo della Croce Rossa, fuori città, riservato agli uomini: le donne e i minori continuano ad essere ospitati in chiesa. «Nel 2017 è cominciato l’afflusso di una serie infinita di minori, che per lo più si fermavano lungo il fiume Roya. Così, il Prefetto ha chiesto alla Croce Rossa di aprire una sezione dedicata a loro. Nel frattempo c’erano rastrellamenti continui, con centinaia di migranti caricati sugli autobus per Taranto. Ma dopo pochi giorni, erano di nuovo qui». Il fatto è – spiega – che queste persone vogliono ricongiungersi a familiari che si trovano in altri paesi, e per questo sono pronti a tutto: «È da qui che possono provare a passare il confine. C’è gente che ci ha provato anche dieci volte prima di riuscirci». Il confine è presidiato giorno e notte. «Purtroppo quello che stiamo facendo è solo assistenzialismo. Ma loro non hanno bisogno di un vestito o di un paio di scarpe. Hanno bisogno di esercitare quella libertà di autodeterminazione che dovrebbe essere di tutto il genere umano». Forse, la soluzione potrebbe essere creare un campo di transito, suggerisce Paola, «un luogo dove il migrante, durante il viaggio, possa fermarsi, nutrirsi, lavarsi e cambiarsi d’abito; dove ricevere le cure mediche, l’assistenza legale necessaria».

Paola li chiama “rien du tout”, cose da niente, dettagli che fanno sentire questi viaggiatori di nuovo persone: «Cuciniamo ricette africane o arabe a base di cous cous e riso, abbiamo imparato a mescolare le spezie e comporre i piatti come nelle loro tradizioni. Un giorno, abbiamo notato che una donna siriana si lavava ogni volta che veniva alla Caritas, ma continuava a mettersi sempre lo stesso abito. Portava una tunica, con sotto i pantaloni. Continuava a scavare nella pila dei panni, ma se ne andava via sempre a mani vuote. Finché non abbiamo capito e, allora, abbiamo chiesto a delle amiche marocchine se avevano un abito in quello stile. Finalmente si è cambiata, e se ne è andata via felice».

Fonte: United World Project

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