Mag 20, 2018 | Cultura, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Spiritualità
Nasce da un sogno, come le altre cittadelle dei Focolari sparse nel mondo. Negli anni ‘50, in Svizzera, dopo aver contemplato dall’alto di una collina la meravigliosa abbazia benedettina di Einsiedeln, Chiara Lubich ebbe l’idea che un giorno anche la spiritualità dell’unità avrebbe espresso qualcosa di simile: «Una piccola città, con tutti gli elementi di una città moderna, case, chiese, scuole, negozi, aziende e servizi. Una convivenza di persone di diverse condizioni, legate dal comandamento di Gesù: “amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”». Quelle parole sono diventate realtà dapprima a Loppiano, in Italia, poi in altre 24 piccole città, le “cittadelle” appunto. Tra queste la “Mariapoli Lia”, in mezzo alla “pampa” argentina. Carlos Becaría, uruguaiano, attualmente corresponsabile della cittadella, faceva parte del gruppo dei pionieri: «Non c’era ancora nulla. Ma c’era un’ispirazione profetica. Vittorio Sabbione, tra i primi focolarini, ci disse: “Siete qui perché avete scelto Dio. Non mancheranno i disagi, e allora dovrete pensare a Gesù in croce. Non vi offro niente di già fatto: dovrete costruire tutto voi”. Rimanemmo, perché in quell’utopia ci credevamo».
La “Mariapoli Lia” , nella località di O’Higgins (Provincia di Buenos Aires), è intitolata a Lia Brunet (25 dicembre 1917 – 5 febbraio 2005), una delle compagne della prima ora di Chiara Lubich, da lei inviata “pioneristicamente” per portare il carisma dell’unità nel continente latinoamericano. Trentina, come la fondatrice dei Focolari, venne definita una “rivoluzionaria” per la radicalità con cui ha vissuto il Vangelo in un continente segnato da forti problematiche sociali tese a cambiarne il volto. Di certo non immaginava, mentre dava un forte impulso alla nascita e allo sviluppo della cittadella di O’Higgins, che un giorno avrebbe portato il suo nome. “Lia”, come Loppiano in Italia, recentemente visitata dal Papa, e come le altre cittadelle nel mondo, vuole essere il segno tangibile di un sogno che si sta realizzando, quello di una umanità più fraterna, rinnovata dal Vangelo. Oggi ospita circa 220 abitanti stabili, ma ne accoglie ogni anno a centinaia, specie giovani, per periodi più o meno lunghi di formazione. Nei suoi pressi sorge il polo imprenditoriale “Solidaridad”, ispirato al progetto dell’Economia di Comunione.
Oltre 250 persone hanno partecipato alla fine del mese di aprile ai festeggiamenti, che proseguiranno durante l’anno, per il 50° dalla fondazione della “Mariapolis”, alla presenza di autorità ecclesiastiche, rappresentanti di diversi movimenti, chiese cristiane, fedeli ebrei e persone di convinzioni non religiose. «Arrivammo di notte – ricorda Marta Yofre, una delle prime ragazze arrivate dove stava sorgendo la cittadella -. Ebbi una sensazione di impotenza, ma anche una certezza: sarebbe stata Maria a costruirla». Nieves Tapia, fondatrice del Centro Latinoamericano di apprendimento e servizio solidale, ha frequentato negli anni ‘80 la scuola di formazione per i giovani: «Qui ho imparato ad amare la mia patria come quella altrui e ad allargare il cuore a tutta l’America Latina». Adrián Burset, musicista e produttore artistico, è cresciuto nella Mariapoli Lia. «Senza esserne cosciente, ho ricevuto in regalo di vivere come se fosse normale qualcosa che invece è rivoluzionario: l’amore al prossimo». Per Arturo Clariá, psicologo, master Unesco in Cultura della Pace, quanto vissuto nella cittadella venti anni prima è «un marchio che non potrò mai cancellare, la dimostrazione che l’amore trascende la vita».
Il Vescovo di Mercedes–Luján, Mons. Agustín Radrizzani: «Commuove costatare il significato che ha avuto per la nostra patria e per il mondo. Ci unisce la pace universale e l’amore fraterno, illuminato dalla grazia di questo ideale». Mentre Eduardo Leibobich, dell’Organizzazione Ebrea per il dialogo interconfessionale, ricorda le numerose “Giornate della pace” realizzate nella Mariapoli, il pastore metodista Fernando Suárez, del Movimento ecumenico dei Diritti Umani, sottolinea che «la tradizione metodista ha sempre lavorato per l’unità, cercando di realizzare il messaggio di Chiara». Infine Horacio Núñez, della Commissione internazionale del Dialogo tra persone di convinzioni diverse:«Invito a unire le forze, è troppo bello l’ideale di un’umanità libera e uguale, affratellata dal rispetto e dall’amore reciproco». Gustavo Clariá (altro…)
Apr 7, 2018 | Cultura, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo
«Pasqua è ormai passata: oggi, giorno di pasquetta, è un normale giorno lavorativo. Fa davvero caldo e la pioggia minaccia il cielo. Solo i cristiani fanno ancora festa. Qua e là si possono udire i brindisi e gli ‘alleluia’ trapelare dalle case. Eppure sono in un paese comunista. Ma qui le strade, all’uscita dalle chiese, si riempiono di motorini fino all’inverosimile, intasando il traffico. I poliziotti, di fronte alla cattedrale, devono dirigere il traffico. Per assistere ad una delle funzioni del triduo pasquale bisognava arrivare almeno 30 minuti prima, per trovare posto. In chiesa, lascio la borsa sulla panca e nessuno la tocca. Guardo la gente, tantissimi bambini, giovani, coppie anche anziane, con volti raccolti e sorridenti. Penso all’Europa, alle chiese semivuote finanche nei giorni di festa. Da queste parti, anche alle 5 del mattino di un giorno qualunque, bambini anche piccoli, insieme ai grandi, sono in prima fila a cantare. Tutti qui conoscono a memoria le preghiere e le canzoni. Saigon pullula di vita sregolata, quasi selvaggia, ad ogni angolo. Eppure c’è tanta fede, come forse in nessun’altra città dell’Asia. Perché qui la fede ‘costa’. Tutto costa in Vietnam. Tempo fa ho fatto un viaggio in autobus, cinque ore in mezzo alla calca, nel caldo. Ad un certo punto alcuni quintali di granturco sono stati caricati tra i viaggiatori, sotto i loro piedi, nel bagagliaio. La gente ha iniziato a gridare, mentre l’autista e il suo aiutante, a loro volta, gridavano per zittirli. Una signora accanto a me, imbarazzata nel vedermi in quella confusione, mi ha detto: “La vita qui è dura. Non dimenticarlo se vuoi vivere qui”. Non conosco il nome di quella donna e forse non la rivedrò mai più. Ma quelle parole hanno aperto una dimensione nuova dentro me. La vita, la loro come la mia, deve passare anche attraverso il dolore, la fatica, la sofferenza, per sfociare nella gioia. Io l’ho capita così. Da quel giorno tutto in me si è semplificato. Come tutti, sperimento gioie, ma anche dolori e fatica. Sono uno di loro. Nemmeno in quanto straniero sono speciale. Uno tra tanti.
La storia di quell’Uomo appeso ad una croce, simile a quella di tanti uomini che incontro ogni giorno, mi ha ricordato le parole di quella donna. La posso ritrovare in chi è povero e non ha nulla, in chi è ammalato di tumore e non ha i soldi per curarsi, con le ossa che spuntano da sotto la pelle. O in quella della signora Giau, 64 anni, povera, ma che ha “adottato” una bambina down, letteralmente gettata via dai genitori. Eppure anche qui, in Asia, è Pasqua. Anche in mezzo ai profughi Rohingya, tra Myanmar e Bangladesh. È Pasqua tra le truppe di alleati che si stanno preparando all’ennesima esercitazione. È Pasqua per i bambini di Xang Cut, nella zona del delta del Mekong, con l’acqua ancora infetta dall’agente orange, scaricato dagli alleati 40 anni fa. Ed è Pasqua anche per i bambini di Saigon, raccolti dalla strada e istruiti dalle maestre di Pho Cap. Avranno qualcosa da mangiare, grazie al loro amore eroico. Anche qui, in mezzo a molte sfide, tra i pericoli, l’inquinamento alle stelle e le sopraffazioni, qualcuno continuerà a sorridere, perché amato e curato da una mano amica. Questo è Pasqua: prendersi cura dell’altro, lenire il suo dolore, condividere il suo pianto. Il mondo, l’altro, mi appartiene. E la mia felicità passa attraverso quella degli altri, di tanti altri». (altro…)
Dic 7, 2017 | Chiara Lubich, Focolari nel Mondo, Spiritualità
“Io credo che Dio può e vuole far nascere il bene da ogni cosa, anche dalla più malvagia”. Così si esprimeva Dietrich Bonhoeffer alla fine del 1942, in piena guerra mondiale. Nel momento più crudo e terribile che la storia del Novecento abbia conosciuto, nel fare un bilancio in vista dell’anno 1943, questo grande testimone riesce ancora a sperare al di là di ogni speranza, a credere con fede ferma e certa nell’agire provvidenziale di Dio nella storia. La lotta tra il bene e il male, il peccato e la grazia attraverso la storia. È questo il contesto storico che fa da sfondo alla nascita del Movimento dei Focolari, per la cui edificazione venne posta la prima pietra a Trento proprio nel 1943, il 7 dicembre, con il dono fatto a Dio della propria vita da una giovane ventitreenne: Silvia Lubich, che come terziaria francescana aveva preso il nome di Chiara. Quel giorno perfino le condizioni meteorologiche sembravano rendere più stringente il contrasto, come emerge dal racconto che la Lubich fa del suo andare, alla mattina all’alba, verso il collegio dei cappuccini, alla cerimonia privata durante la quale si sarebbe consacrata a Dio per sempre: “Una bufera infuriava, così che dovetti farmi strada spingendo l’ombrello avanti. Anche questo non era senza significato. Mi pareva esprimesse che l’atto che stavo facendo avrebbe trovato ostacoli. Quella furia di acqua e di vento contrario mi sembrava simbolo di qualcuno d’avverso. Arrivata al collegio: cambio di scena. Un enorme portone si apre da solo automaticamente. Senso di sollievo e di accoglienza, quasi braccia spalancate di quel Dio che mi attendeva”. Tale “cambio di scena” ha un riflesso nella vita. La pienezza e la sacralità di quell’atto avvenuto nel nascondimento e nella povertà (tre garofani rossi sono l’unico segno esterno di festa) sono nell’anima di Chiara Lubich più sonore dell’atrocità della guerra che rimane come sfondo, quasi “cornice di un quadro”. La realtà più vera per lei è quanto Dio, riscoperto come Amore, va edificando. “C’era un ideale, uno solo, che non sarebbe venuto meno mai, nemmeno colla nostra morte. Era Dio. Ed a Dio ci attaccammo con tutte le forze dell’anima. Non aderimmo a Lui perché nulla c’era rimasto, ma perché una Forza in noi ci rendeva felici di averLo trovato nella vita come l’unico Tutto, l’unico Eterno, l’unico degno d’esser amato perché non passa, l’unico dunque, che avrebbe saziato le esigenze del nostro cuore. Già da parecchi anni facevamo la S. Comunione quotidiana e credevamo, perché appartenenti alle varie associazioni cattoliche, d’esser buone cristiane. Solo quando Iddio ci tolse ogni cosa per darSi, Lui solo, a noi, comprendemmo per la prima volta il primo Comandamento di Dio:“Amami con tutto il cuore, con tutta la mente…”. Lo capimmo perché solo allora veramente sentivamo di doverLo amare così, con totalitarietà di mente, di cuore, di forze, per non ingannarci”. Lucia Abignente, “Qui c’è il dito di Dio”, Città Nuova, Roma, 2017, pp. 25-26. (altro…)