Bambini-mondo

 
Ci sono degli aspetti che appartengono a tutti i bambini, che li rendono tali, e che attraverso i quali loro sono in grado di relazionarsi con gli altri e con il mondo.

Bambini mondo.
Ciascun bambino è diverso dagli altri. Per mille motivi (psicologici, culturali, sociali, ecc…). Ma ci sono degli aspetti che appartengono a tutti i bambini, che li rendono tali, e che attraverso i quali loro sono in grado di relazionarsi con gli altri e con il mondo. Conoscerli vuol dire conoscere attraverso quali occhi loro ci guardano e comprendono, attraverso quali “porte” possiamo incontrarli, in quali “luoghi” loro fanno esperienza. Questo ci permetterà di comprendere il loro punto di vista per capire come relazionarci con loro, per fare esperienza insieme a loro.

PICCImmagine1OLI SCIENZIATI. Winnicot , pediatra e psicoanalista inglese, diceva che “quando i bambini vengono al mondo si trovano davanti ad un caos indifferenziato”. Nei primi 9 mesi di vita i bambini vivono in una condizione di vita sicura e protetta, necessaria allo sviluppo del feto. Con la nascita essi si trovano catapultati nel mondo, una realtà nuova fatta di oggetti e di persone che è tutta da conoscere ed esplorare. Nei primi anni di vita le categorie a disposizione del bambino per comprendere ed affrontare ciò che lo circonda e come relazionarsi con esso sono ancora fragili, poco affinate ed articolate. Per questo i bambini procedono alla scoperta del mondo come dei piccoli scienziati (o piccoli esploratori). Con curiosità, meraviglia e a volte anche un po’ di timore, fanno ipotesi, esperimenti pratici, cercano somiglianze e differenze tra le cose, tutto per iniziare a costruire un’idea personale del mondo che li circonda. In loro c’è una spinta naturale a superare il caos. Dovremmo imparare da loro: solo nella misura in cui ho una profonda conoscenza di ciò che mi circonda posso relazionarmi autenticamente con esso. La conoscenza dell’altro è il presupposto della relazione. Non solo, Levinas sosteneva che “è dalla relazione, dal noi, che nasce l’io”.

 

IL GIOCO. Ma in che modo i bambini conoscono il mondo e gli altri? Attraverso il gioco. Se lo scienziato fa i suoi esperimenti in laboratorio, il bambino li fa nel gioco. Molto spesso il gioco viene visto come un “non fare niente”, un modo di occupare il tempo, un’attività per tenere impegnati i bambini in qualcosa o per non essere disturbati mentre noi adulti facciamo cose che chiamiamo “serie”. Altre volte, viene considerato un premio da concedere ai bambini quando sono stati bravi, quando hanno fatto i compiti o hanno soddisfatto le nostre aspettative: diciamo loro: “Ora puoi andare a giocare”. Contrariamente a questi stereotipi sociali, il gioco è per sua natura un’esperienza che educa: attraverso di esso, in contesto protetto e divertente, il bambino impara a conoscere ed esprimere se stesso (la sua personalità, i suoi talenti, la sua fisicità, il suo bisogno relazionale), il mondo, a sperimentare il valore delle regole, a stare con gli altri, a gestire le proprie emozioni, a scoprire nuovi percorsi di autonomia e a sperimentare per tentativi ed errori le sue convinzioni sulle cose e sugli altri. E’ un promotore dello sviluppo cognitivo, socio-affettivo e psicomotorio. Diceva Michel De Montaigne “I giochi dei bambini non sono giochi, e bisogna considerarli come le loro azioni più serie”.Volleyball-kids-1

LA CREATIVITÀ’. Secondo Winnicot ‘La creatività consiste nel mantenere nel corso della vita qualcosa che appartiene all’esperienza infantile: la capacità di creare e ricreare il mondo”. E’ tra le capacità espressive più tipica dei bambini. Se per la razionalità le cose sono così come sono, per la creatività ogni cosa può essere mille altre cose. Questo è un vantaggio dato dalle categorie di pensiero non ancora rigide, dove i nessi causa-effetto non sono ancora così vincolanti. Riferendosi al potere creativo del gioco sfruttato per alleviare il dolore dei bambini delle procedure mediche, Piaget diceva ““Il gioco separa il reale dall’immaginario in uno spazio in cui le cose (ad esempio l’ago della siringa) sono ciò che non sono (farfallina) pur rimanendo ciò che sono (un ago)”. Essere creativi vuol dire avere una visione aperta sulle cose. In questo i bambini hanno molto da insegnarci.

IL SIMBOLO. Strettamente legato al gioco e alla creatività è la dimensione simbolica che il bambino spesso usa. Il simbolo è qualcosa che sta per qualcos’altro. Questa dimensione è più importante di quanto sembri per i bambini e gioca un ruolo centrale per lo sviluppo del pensiero. Anche il simbolo è un modo per conoscere il mondo. Ad esempio, un telefono può diventare una macchinina, o una banana può diventare un telefono. Questo processo “magico” crea due livelli di rappresentazione mentale: quello della realtà delle cose (dove una macchina resta una macchina) e quello astratto, simbolico, trascendente, “altro” (dove la macchina può diventare un telefono). Attraverso il simbolo i bambini possono trascendere la realtà tangibile, concreta, misurabile (tipica di noi adulti) per fare con essa un’esperienza più grande, più ampia, più ricca di significati (anche emotivi). La realtà simbolica eleva la realtà concreta, arricchendola.

VISIONE ASSOLUTA. Questo aspetto si lega fortemente al nostro dover essere testimoni. I bambini hanno una visione assoluta di noi adulti, soprattutto se siamo le sue figure più importanti. Il bambino ci attribuisce indirettamente un sapere, un potere, una forza di cui si fida profondamente. Questo è un punto di forza che il genitore ha. L’importante è che l’adulto usi questo sapere, questo potere, questa forza come servizio, come amore, come donazione. Così il bambino scopre che essere grandi vuol dire amare, essere al servizio, donarsi. Gli attribuisce questo significato.

TEMPO ETERNO. Anche rispetto al tempo i bambini hanno un’esperienza diversa. Più sono piccoli più il tempo è dilatato. Il gioco, il pranzo, il bagnetto, la separazione della mamma durano molto di più di quanto sembri a noi. Allo stesso tempo i bambini hanno la capacità di piangere in maniera disperata ed improvvisamente, un secondo dopo, diventare felici o essere divertiti. Questo perché i bambini sono pienamente e totalmente nel qui ed ora, nell’attimo presente. Sono biologicamente e psicologicamente predisposti al ricominciare. E’ importante ricordarcelo quando stiamo con loro. Da questo abbiamo molto da imparare: mentre noi facciamo una cosa, siamo contemporaneamente assorbiti da ciò che abbiamo appena fatto e da ciò che dovremmo fare dopo, perdendoci la profondità del momento.

Un altro effetto della dilatazione del tempo riguarda la prevedibilità (es. quando la mamma va a lavoro, la notte, ecc…). E’ importante dire sempre al bambino che si sta andando via e che si tornerà. Questo per offrire una comprensione di ciò che accadrà e che altrimenti li manderà in angoscia. Meglio fare i conti con una tristezza comprensibile che con una angoscia senza significato.

LOGICA EGOCENTRICA. Fino ai 6-7 anni il bambino è guidato da una logica egocentrica. Molto spesso noi genitori ci scontriamo con questo aspetto (es. “questo gioco è mio, la mamma è mia” ecc…), ma è una fase dello sviluppo del tutto naturale e necessaria. Jean Piaget, psicologo svizzero, descrisse l’egocentrismo infantile “come l’incapacità del bambino di percepire la differenza tra la propria visuale e quella altrui”. Il bambino può iniziare ad aprirsi a prospettive diverse solo attraverso il confronto con la propria. Per questo motivo i primi anni sono necessariamente dedicati alla costruzione della propria realtà. Inoltre, la propria realtà è per certi versi rassicurante in quanto prevedibile e governabile. Il bambino ha bisogno di una certa maturazione cognitiva, sociale ed affettiva prima di poter considerare l’esistenza di altre legittime realtà. Aprirsi è affacciarsi verso ciò che è sconosciuto, questo vale anche per noi.

Il comno-bambinipito della famiglia è iniziare a stimolare l’interesse verso altri da sé. L’entrata nel mondo della scuola favorirà molto il superamento di questa fase dello sviluppo.

I NO. A volte i bambini sembra che ci sfidino. A qualsiasi nostra proposta ci sentiamo rispondere sempre “NO !”, indipendentemente dal suo contenuto. Anche in questo caso non dobbiamo irritarci, ma provare a comprendere che significato c’è dietro.  La difficoltà di noi genitori spesso sta nel repentino cambio di atteggiamento del bambino: mansueto e ubbidiente fino a poco prima, sfidante subito dopo. La fase del NO inizia intorno ai 2 anni e dovremmo, invece, leggerla in modo positivo. E’ in questo periodo che ci appare evidente che il bambino non è un oggetto, ma un soggetto, una persona. I “no” non sono legati tanto al tipo di proposta che gli facciamo, ma rappresentano i suoi primi tentativi, un po’ maldestri ed egocentrici, di autodeterminarsi, di autoaffermazione di sé, di dire “io sono” e sperimentarne l’effetto di questa sua posizione sugli altri. Il bambino sta scoprendo e mettendo alla prova il suo essere individuo, essere persona. Sta prendendo le misure con chi è, con i suoi limiti, i suoi confini, i suoi desideri, le sue possibilità. La comparsa del NO è favorita anche dal fatto che verso i 2 anni i bambini hanno già raggiunto buoni livelli di autonomia (es. linguistica e motoria) e il loro desiderio di esplorazione è spinto al massimo, ma senza ancora un criterio (es. attraversare la strada senza pensare al pericolo). Questo si scontra con le regole ed i limiti imposti dai genitori.

STIMOLI MOLTEPLICI. Un aspetto più recente riguarda la capacità dei bambini di soffermarsi su più stimoli contemporaneamente. Recente perché sembra dovuta ad una forte influenza sociale a cui tutti siamo chiamati ad adattarci, più che ad una caratteristica assoluta dei bambini. Le ricerche hanno dimostrato come i bambini di 50 anni fa erano capaci di soffermarsi per più tempo su un singolo compito, ma meno capaci di gestire più stimoli contemporanei. I bambini di oggi fanno più fatica a sostare sul singolo stimolo, ma riescono a tenere insieme più stimoli (sono bambini multitasking). Essendo una evoluzione della nostra società, non possiamo sfidarla ma gestirla. La famiglia deve assumere un ruolo di responsabilità: non dovrebbe essere anche essa un moltiplicatore di stimoli, ma un elaboratore di stimoli. Non tanto promuovere tante cose da fare, ma pensare sulle cose, pensare a come pensare, a come scegliere, a cosa desiderare per sé e per gli altri. Margareth Mead, antropologa statunitense, diceva “bisogna insegnare ai bambini a pensare, non a cosa pensare”.