Essere educatori. Dall’amore ricevuto all’amore donato

 

“Andar alla memoria di chi ci ha fatto del bene” è, secondo Michele De Beni pedagogista, “un controccorrente urgente da promuovere oggi contro una cultura che sembra aver memoria e attenzioni quasi patologico-morbose unicamente verso l’aggressività e la negatività dell’esser umano”.

Venerdì 3 maggio l’Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze umane e sociali, ha ricordato la figura di Chiara Lubich educatrice in occasione della presentazione del libro “Essere educatori”, a cura di Michele De Beni (Città Nuova).

Altre città stanno organizzando iniziative simili, partendo dall’originale esperienza educativa e d’insegnamento di Chiara Lubich, ma allargando poi il discorso al ricordo di quanti ci hanno preceduto, i nostri educatori: di quanti ci hanno donato la vita, come Chiara ha fatto con i suoi allievi e per molti che l’hanno incontrata.

Varese 16 maggio, “Dateci educatori veri. Vi daremo un mondo migliore”

Verona 25 maggio, “Quale educatore per il XXI secolo?”

E’ su questa linea che stanno arrivando anche tante testimonianze: dall’amore ricevuto all’amore donato. E questo in famiglia, a scuola, nella comunità. Educatori veri, che continuamente giorno per giorno con la loro presenza, spesso umile e silenziosa, con coraggio hanno avuto a cuore e continuano a dare senso alla vita dei giovani a loro affidati.

Qui di seguito riportiamo la testimonianza di Gaetano Bellorio, cosa ha significato per la sua vita l’incontro con la professoressa Lidia, esigentissima ma di una dolcezza impagabile: “due virtù che solo raramente una persona riunisce in sé”, come anche in Chiara Lubich, quando era la maestra Silvia Lubich.

“La 2^ F della scuola media “Pacinotti” era composta tutta da alunni ripetenti, che venivano dalla periferia di Verona, e avevano certi ceffi che avrebbero scoraggiato anche gli insegnanti più scafati. Era la feccia di tutta la scuola, già pregiudicata nel rendimento e nel comportamento. Alcuni erano pluriripetenti, bocciati più volte sia nella medesima scuola sia alle elementari: vite già perse e segnate dalla medesima vita e dalle famiglie di provenienza che, per ignoranza o inettitudine, consideravano lo studio una perdita di tempo. (…)

Giunta da Trieste (al seguito del marito ingegnere, sempre soggetto a spostamenti) e ultima arrivata, a Lidia Almerigogna venne imposto il compito di istruire in italiano, storia, geografia, ecc., i trenta famigerati alunni. (…)

Aveva trent’anni ed era bellissima: esattamente l’opposto di tanti altri visi arcigni cui eravamo abituati. Ed ella, di questa folgorazione, approfittò subito: «Sono appena giunta in questa scuola e ne ho già sentite parecchie di cose relative alla vostra classe… ma ricordate che, per me, non siete diversi dagli altri; anzi, sono sicura che siete seri e intelligenti e il mio compito non sarà che quello di farvi scoprire le doti che possedete nella egual misura di tutti gli altri…».

Ci catturò nel profondo, anche se nello sgomitolarsi dell’anno scolastico scoprimmo che Lidia era una docente esigentissima, ma, nel contempo, d’una dolcezza impagabile: due virtù che solo raramente una persona riunisce in sé.

«Io lavorerò molto con voi e voi dovrete lavorare molto con me, fino a morire: è la mia sfida con voi e voglio vincerla per voi».

E mantenne tutte le promesse questo “angelo” caduto dal cielo nell’inferno della classe che ci seguì anche in terza: ripresa dell’analisi grammaticale, coniugazione dei verbi, analisi logica, analisi del periodo, latino, lettura in classe di un libro al mese, e, soprattutto, un tema settimanale da svolgere a casa, sui più svariati argomenti, assegnato il sabato e da riconsegnare al lunedì.

Era l’impegno che pesava più di tutti gli altri. Tutti noi, la domenica, ogni domenica, per due anni, a sacrificare il nostro tempo di svago davanti ad un foglio protocollo inesorabilmente bianco e sul quale bisognava pur scrivere qualcosa. Sulle prime io risolvevo il problema scrivendo una ventina di righe, quasi a casaccio, sul foglio piegato in due, e sulla medesima onda viaggiavano i miei compagni. Ma Lidia, il lunedì, con dolcezza furente, ci tratteneva tre ore a correggere ed integrare i nostri smilzi scarabocchi, completando l’argomento di ogni tema secondo le direttrici che il titolo imponeva: partiva dall’incipit di ciascuno e da quello sviluppava l’argomento che noi avevamo evitato di approfondire.

Alla fine, la delusione che le leggevamo in viso era insopportabile, almeno per me; e incominciai ad applicarmi con maggior volontà alla gogna domenicale.

Germinò così la scoperta del mio mondo interiore ricchissimo di pensieri e relazioni tra pensieri che non supponevo di possedere o che mi vergognavo di rivelare; e la domenica pomeriggio, davanti al foglio bianco da riempire di parole, divenne, a poco a poco, una gioia preziosa, che trasformò le mie venti righe raffazzonate dell’inizio, in cento, duecento, mille righe pensate e scritte con uno “stile” che a mano a mano si stava costruendo in me e si raffinava nella scelta delle parole e degli aggettivi adeguati alla narrazione. (…)

A seconda dell’argomento, scrivevo un foglio protocollo intero o venti fogli. Non mi importava più di “riempire” un foglio tanto per dimostrare che, in qualche modo, mi ero “impegnato”. Alle volte, la tematica, a mio avviso, andava sviluppata in trenta righe che dicevano già tutto, altre volte, sempre a mio parere, il tema esigeva uno sviluppo ampio.

Mi ero liberato dai condizionamenti infantili del tema corto e del tema lungo e, in questa libertà ho scoperto che, in nuce, ero già un narratore “fatto”, anche se in erba, capace di dosare l’aggettivazione, costruire i periodi consequenzialmente, preannunciare quello che verrà dopo, ma senza dirlo esplicitamente, in modo da invogliare il “lettore Lidia” ad andare avanti con soddisfazione.

Ogni lunedì leggeva a voce alta la mia scrittura a tutta la classe e mi incoraggiava a proseguire, a sviluppare sempre più la mia “vocazione”.

D’incanto, anche nelle altre materie scolastiche riuscii bene: ora mi piacevano tutte, compresa la matematica e la geometria che per me erano state le bestie nere.

Miracolo della scrittura? Forse. Ma senz’altro miracolo di un’insegnante che aveva recuperato la fiducia in me stesso persa nel tempo delle mie vicissitudini esistenziali.

Alla fine della terza media, dopo gli esami, mi fermò e mi disse:

«Bellorio, alla fine mi hai fatto morire tu, a leggere per due anni i tuoi interminabili temi; ma sono contenta di questa faticaccia». Mi accarezzò e mi abbracciò sussurrandomi un sacco di belle parole per la mia vita.

Io sono nato qui.”

Il racconto rielaborato di Lidia è inserito nel romanzo “Il silenzio dei profeti”, Gabrielli Editore, Negarine di San Pietro in Cariano,VR, 1995.