Movimento dei Focolari
Amazzonia, terra della cura e del futuro 

Amazzonia, terra della cura e del futuro 

Si arriva a Juruti, nello Stato del Parà, da Santarém, dopo sette ore di motonave, il mezzo più veloce. Con fierezza, i suoi abitanti dicono che questa zona è il cuore della bassa Amazzonia brasiliana, dove l’unica “strada” di collegamento è il Rio delle Amazzoni, il “fiume-mare”, come lo chiamano i nativi. È infatti il primo fiume al mondo per portata d’acqua e il secondo per lunghezza. È lui a scandire il tempo, la vita sociale, il commercio e le relazioni tra i circa 23 milioni di abitanti di questa vastissima regione, dove vive il 55,9% della popolazione indigena brasiliana. Oltre ad essere uno degli ecosistemi più preziosi del pianeta, gli interessi politici ed economici sono causa di conflitti e violenze che continuano a moltiplicarsi quotidianamente. Qui la dirompente bellezza della natura è direttamente proporzionale ai problemi di qualità della vita e sopravvivenza.

“Osservare e ascoltare è la prima cosa che possiamo imparare in Amazzonia” spiega Mons. Bernardo Bahlmann O.F.M., Vescovo di Óbidos, a Margaret Karram e Jesús Morán, Presidente e Copresidente dei Focolari, arrivati per conoscere e vivere alcuni giorni con le comunità dei Focolari della regione. Li accompagnano Marvia Vieira e Aurélio Martins de Oliveira Júnior, co-responsabili nazionali del Movimento, insieme a Bernadette Ngabo e Ángel Bartol del Centro Internazionale del Movimento. 

Il Vescovo parla della cultura differenziata di questa terra, dove caratteristiche native convivono con aspetti del mondo occidentale. La convivenza sociale presenta molte sfide: povertà, mancanza di rispetto dei diritti umani, sfruttamento della donna, distruzione del patrimonio forestale. “Tutto questo domanda di ripensare cosa significhi prendersi cura delle ricchezze di questa terra, delle sue tradizioni originarie, del creato, dell’unicità di ogni persona, per trovare, insieme, una strada nuova verso una cultura più integrata”. 

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Un compito impossibile senza il coinvolgimento dei laici, spiega Mons. Ireneu Roman, Vescovo dell’Arcidiocesi di Santarém: “sono loro la vera forza della Chiesa amazzonica”. Nelle sue comunità parrocchiali i catechisti sono circa un migliaio e supportano la formazione cristiana, la liturgia della Parola e i progetti sociali. Mons. Roman domanda alla comunità dei Focolari in Amazzonia di portare il suo contributo specifico: “l’unità nelle strutture ecclesiali e nella società, perché ciò che serve di più a questa terra è ri-imparare la comunione”. 

La prima comunità maschile del Focolare è arrivata stabilmente a Óbidos nel 2020 su richiesta di Mons. Bahlmann e sei mesi fa si è aperta quella femminile a Juruti. Oggi in Amazzonia ci sono sette focolarini, tra cui un medico, due sacerdoti, una psicologa e un economista.

“Siamo in Amazzonia per supportare il grande lavoro missionario che la Chiesa svolge con i popoli indigeni”, spiegano Marvia Vieira e Aurélio Martins de Oliveira Júnior. “Nel 2003, una delle linee guida della Conferenza Episcopale Brasiliana era incrementare la presenza della Chiesa in questa regione amazzonica, perché la vastità del territorio e la mancanza di sacerdoti rendevano difficile un’adeguata assistenza spirituale e umana”.

Nasce così, 20 anni fa, il “Progetto Amazzonia” dove membri del Movimento dei Focolari provenienti da tutto il Brasile si recano per un periodo in luoghi scelti di comune accordo con le Diocesi, per realizzare azioni di evangelizzazione, corsi di formazione per famiglie, giovani, adolescenti e bambini, visite mediche e psicologiche, cure odontoiatriche e altro. 

“Forse non riusciremo a risolvere i tanti problemi di questa gente – dice Edson Gallego, focolarino sacerdote del focolare di Óbidos e parroco – ma possiamo essere loro vicini, condividere gioie e dolori. È quello che cerchiamo di fare da quando siamo arrivati, in comunione con le diverse realtà ecclesiali della città.”  

Le focolarine spiegano che non è sempre facile perdere le proprie categorie mentali: “Spesso ci illudiamo di dare risposte, ma siamo noi che usciamo arricchite da ogni incontro, dalla forte presenza di Dio che emerge ovunque: nella natura, ma soprattutto nelle persone”.

A Juruti le focolarine collaborano con le realtà della Chiesa che svolgono azioni di promozione umana e sociale. Il “casulo” “Bom Pastor” è una delle 24 scuole materne della città, con una specifica linea pedagogica che forma i bambini alla consapevolezza della propria cultura e tradizioni, al senso comunitario, alla coscienza di sé e dell’altro. Una scelta importante per una formazione integrale e integrata. Mentre l’Ospedale “9 de Abril na Providência de Deus” è gestito dalla Fraternità “São Francisco de Assis na Província de Deus”. Serve la popolazione della città (51.000 abitanti circa), le località vicine e le comunità fluviali, con una particolare attenzione a chi non può permettersi di pagare le cure. Le Apostole del Sacro Cuore di Gesù, invece, animano il Centro di convivenza “Madre Clelia” dove accolgono un centinaio di giovani l’anno, creando alternative di formazione professionale e contribuendo allo sviluppo personale, in particolare dei giovani a rischio.

Anche la comunità del Focolare da anni opera in sinergia con le parrocchie e le organizzazioni ecclesiali. Incontrandola, insieme ad altre comunità venute da lontano, Margaret Karram ringrazia per la generosità, concretezza evangelica e accoglienza: “Avete rinforzato in tutti noi il senso di essere un’unica famiglia mondiale e anche se viviamo distanti, siamo uniti dallo stesso dono e missione: portare la fraternità dove viviamo e in tutto il mondo”. 

Attraverso un reticolo di canali che si snodano dentro la foresta amazzonica, a un’ora di barca da Óbidos, si arriva al Mocambo Quilombo Pauxi, una comunità indigena di un migliaio di persone afro-discendenti. È seguita dalla parrocchia di Edson, che cerca di andare almeno una volta al mese per celebrare la Messa e, insieme ai focolarini, condividere, ascoltare, giocare con i bambini. La comunità è composta da circa un migliaio di persone che, pur immerse in una natura paradisiaca, vivono in condizioni particolarmente svantaggiate. Isolamento, lotta per la sopravvivenza, violenza, mancanza di pari diritti, di accesso all’istruzione e alle cure mediche di base, sono le sfide quotidiane che queste comunità fluviali affrontano. Anche qui, da due anni, la diocesi di Óbidos ha attivato il progetto “Força para as mulheres e crianças da Amazônia”. È indirizzato alle donne e all’infanzia e promuove una formazione integrale della persona in ambito spirituale, sanitario, educativo, psicologico, di sostentamento economico. Una giovane madre racconta con fierezza i suoi progressi nel corso di economia domestica: “Ho imparato molto e ho scoperto di avere capacità e idee”. 

Certamente si tratta di una goccia nel grande mare delle necessità di questi popoli, “ed è vero – riflette Jesús Morán – che, da soli, noi non risolveremo mai i tanti problemi sociali. La nostra missione, anche qui in Amazzonia, è cambiare i cuori e portare l’unità nella Chiesa e nella società. Ha senso quel che facciamo se le persone orientano la loro vita al bene. È questo il cambiamento”. 

Accogliere, condividere, imparare: è questa la “dinamica evangelica” che emerge, ascoltando i focolarini in Amazzonia, dove ciascuna e ciascuno si sente chiamato personalmente da Dio ad essere suo strumento per “ascoltare il grido dell’Amazzonia” (47-52) – come scrive Papa Francesco nella straordinaria esortazione post-sinodale Querida Amazonia – e per contribuire a far crescere una “cultura dell’incontro verso una ‘pluriforme armonia’” (61).

Stefania Tanesini

Centro per anziani Chiara Lubich in Amazzonia

Centro per anziani Chiara Lubich in Amazzonia

Dall’impegno di una piccola comunità dei Focolari verso i più vulnerabili, nasce, in un paese della selva peruviana, un Centro per gli anziani intitolato alla fondatrice del Movimento. Quattro anni fa, io Jenny con mio marito Javier e le nostre 3 figlie, arrivammo dall’Argentina con l’intenzione di abitare nel profondo Perù. Portavamo dentro di noi l’Ideale dell’Unità. Appena arrivati a Lámud, paese immerso nell’Amazzonia, sapendo che il Vescovo della Diocesi vi si trovava di passaggio, corremmo a salutarlo e ci presentammo come membri del Movimento dei Focolari. “Che bello che i focolari sono arrivati in Amazzonia!”, ci disse e ci diede la sua benedizione, con l’augurio di andare avanti. Allora ci mettemmo d’accordo con il parroco, il quale ci chiese di farci carico della Pastorale Sociale e della Catechesi Familiare dei paesi che fanno parte della parrocchia. Quindi, andammo in periferia per prendere contatto con la realtà sociale del posto, alcune volte accompagnati anche dalle nostre figlie. Scoprimmo una Lámud nascosta, piena di tanta sofferenza. Decidemmo di cominciare dagli ultimi e ci accorgemmo che erano gli anziani, della terza età. Alcuni di loro non avevano nemmeno un letto degno, dove morire. Avevamo presente la meditazione di Chiara Lubich: “Una città non basta”. Facemmo il giro delle periferie del paese cercando quelli che erano soli, abbandonati, per portare loro una carezza, una parola di speranza, alimenti, vestiti e chiedevamo loro di pregare per noi, poiché iniziavamo la nostra avventura in questi luoghi, del tutto nuovi, per noi. Trascorso un po’ di tempo, abbiamo cominciato a sognare di poter dare agli anziani una casa degna, un pasto caldo e, la cosa più importante, che si sentissero accompagnati e non più da soli. Un sogno che, se da una parte sembrava lontano, dall’altra ci sembrava quasi a portata di mano, tanto che ci dicevamo: “Sì, noi possiamo! Dobbiamo fare qualcosa di più concreto che una semplice visita”. Insieme elaborammo un progetto: poche linee, ma ogni frase ci incoraggiava di più ad andare avanti. Pensammo anche al nome da dare alla casa. Ci guardammo negli occhi e decidemmo che si sarebbe chiamata: “Hogar y Centro de Día para Adultos Mayores, Chiara Lubich” (“Casa e Centro diurno per anziani, Chiara Lubich”). Intanto, il nostro sogno prendeva forma. Ci sono stati tanti fatti e contatti con alcune persone che erano entusiaste del progetto. Jenny, intanto, aveva fatto diverse esperienze di volontariato in Argentina. Per lei si offrì l’opportunità di essere assunta dal Comune del Distretto di Lámud, per lavorare proprio per gli anziani della terza età! Infine, ci sentimmo animati dalle parole del Papa che invitava noi laici a lavorare in favore dei più vulnerabili, ancor di più in questo tempo di pandemia. Ci furono, insomma, tante belle coincidenze che ci fecero pensare che Gesù sarebbe stato contento di vedere nascere un’Opera per gli ultimi, nella Selva Peruviana. Cioè una casa degna, per gli anziani della terza età di questa provincia amazzonica. Nel frattempo, vedemmo che tutto avveniva in modo vertiginoso. Così, confidando pienamente nella Provvidenza di Dio e nella forza della preghiera, fummo sempre più consapevoli che Gesù non ci avrebbe lasciato da soli e fummo certi che, insieme alla nostra piccola comunità, non saremmo stati mai soli. In quei giorni, firmammo il contratto di affitto per la casa e portammo avanti le pratiche legali per costituirci in un’Associazione senza fini di lucro. Un gruppo di persone della comunità volontariamente si era già unita al progetto. Avevano risposto con un “Sì” fortissimo, all’impegno di lavorare per il bene delle persone più vulnerabili del paese di Lámud e della Provincia di Luya (Dipartimento di Amazonas). Preparammo subito il luogo per poter cominciare ad offrire agli anziani un pasto caldo al giorno, fornito dal Comune. E così ora, pian piano, valutiamo ogni passo da fare per raggiungere la meta, e cioè offrire agli anziani, a rischio di solitudine e abbandono, non solo gli alimenti ma anche la possibilità di risiedere stabilmente, nel Centro. Ma più che titoli, nomi e statuti, il nostro desiderio è che nella casa regni quel clima di unità, di armonia e di famiglia che Chiara Lubich ci ha lasciato come eredità, ed è per questo motivo che il Centro porta il suo nome. https://youtu.be/bqRSzfxmLS8 Jenny e Javier, con la comunità di Lámud (Dipartimento Amazonas, Perù)

Esperienza raccolta e tradotta da Gustavo E. Clariá

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Brasile: In Amazzonia la mia bussola è l’amore

Brasile: In Amazzonia la mia bussola è l’amore

Intervista a fra Gino Alberati, missionario dal 1970 tra la gente del sub-continente amazzonico. Ora che i riflettori mediatici sul polmone verde della terra si sono spenti, perché gli incendi sono stati domati e il Sinodo per l’Amazzonia della Chiesa cattolica ha varato il documento finale, ci sembra importante continuare a dar voce a chi l’Amazzonia la abita e contribuisce al suo sviluppo ogni giorno. Il rischio di guardare a questo pezzo di terra come a una cartolina esotica, distante dalla vita delle nostre metropoli è molto forte. Si tratta di uno dei più estesi laboratori multi-culturali del pianeta, un aspetto che fa sicuramente meno scalpore della questione ambientale, ma il cui rispetto e salvaguardia sono altrettanto centrali per la sopravvivenza della sua popolazione. Per questo raccogliere la sfida culturale in Amazzonia e sostenere educazione e formazione umana è d’importanza vitale.

© ACN Kirche in Not

Della sua popolazione fanno parte anche diverse comunità dei Focolari, famiglie, ragazzi e religiosi, come frei Gino, come tutti lo chiamano. Fra Gino Alberati è un missionario cappuccino italiano che vive e lavora in Amazzonia dal 1970, servendo decine di comunità sul fiume Solimões, al confine brasiliano con Colombia e Perù. Viaggia su di una barca ricevuta in beneficenza, di cui lui stesso cura la manutenzione. Gli permette di celebrare messa e portare la parola di Dio alle comunità dislocate su di un territorio vastissimo e gli consente anche di salvare vite umane perché il medico più vicino spesso dista giorni di viaggio. Lo raggiungiamo a fatica e riusciamo a intervistarlo solo via Whatsapp. Della sua preparazione alla missione, fra Gino racconta di giornate intere trascorse all’ospedale S. Giovanni, a Roma. “Per nove mesi entravo nei laboratori analisi e nelle sale operatorie; lo facevo per imparare qualcosa di medicina, perché sapevo che nella missione a cui ero destinato non ci sarebbe stata alcuna struttura sanitaria e mi sarei dovuto improvvisare medico. Avevo 29 anni quando sono arrivato in Amazzonia e non mi importavano le distanze o i mezzi di trasporto precari che utilizzavo – spiega frei Gino – la mia bussola era l’amore. In questi anni ho fatto davvero di tutto e ora seguo una parrocchia che copre un territorio lungo 400 Km, sul Rio delle Amazzoni e il Rio Içà”. Quando gli chiediamo di cosa viva la gente, risponde che il fiume è la loro vita. “Sul fiume viaggiano e pescano; l’acqua fertilizza le terre più basse. Attualmente seguo 40 comunità, oltre alla parrocchia della città di Santo Antonio do Içà. Sono anche consigliere municipale per la salute pubblica e porto all’amministrazione comunale le necessità sanitarie delle comunità che visito. Non abbiamo vissuto da vicino il dramma degli incendi perché in questa zona siamo lontani dai grandi interessi; ciò nonostante la diminuzione del territorio ricoperto dalla foresta è sotto gli occhi di tutti. Della popolazione fanno parte anche indios di etnia Ticunas; sono circa 45.000 e vivono di agricoltura, caccia e pesca. Lavoriamo molto per dare loro una formazione umana, culturale e spirituale di base. Da poco abbiamo consegnato a 200 leader di 24 comunità la Bibbia dei piccoli, tradotta proprio in lingua Ticuna”. Fra Gino insiste sul ruolo fondamentale degli indios per la conservazione del pianeta: “Sicuramente sono stati fatti molti sforzi per combattere il rischio inquinamento, come ad esempio l’uso dei motori a idrogeno nei mezzi di trasporto, ma, nonostante ciò, i grandi del mondo vedono solo il ‘dio quattrino’ e vogliono prendere le terre dei nativi per estrarre minerali e petrolio. Lo stile di vita degli indios segue il ritmo della natura; prendono dalla terra solo l’essenziale, lavorano piccoli appezzamenti di terra e per questo non sono necessari grandi disboscamenti.” Quando gli chiediamo quale sia la cosa più preziosa di cui gli uomini e le donne dell’Amazzonia abbiano bisogno, dopo le necessità materiali, risponde che è senz’altro l’amore, “l’amore reciproco che porta alla fraternità”, capace di trasformare persone e territori ad ogni latitudine.

Stefania Tanesini

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La scelta di Jenny e Javier

La scelta di Jenny e Javier

Con il Sinodo Amazzonico alle porte, raccontiamo una storia che si sviluppa in un villaggio peruviano situato nel “polmone del mondo”. Non parla di incendi, né di deforestazione, di petrolio o cercatori di metalli preziosi. È la storia di Jenny e Javier, che hanno scelto come famiglia di vivere nell’Amazzonia col desiderio di portare la luce del Vangelo agli “ultimi”. 5d017b9e 86be 4760 b5b0 397f70e927a2“Vivevamo in Argentina, ma a un certo punto abbiamo deciso di trasferirci a Lámud, il paesino dove è nata Jenny, nella zona chiamata “Ceja de Selva” (“sopracciglia della selva”, metà montagna e metà foresta), nei pressi delle sorgenti dei grandi fiumi Marañón e Rio delle Amazzoni. Volevamo stare vicino ai suoi genitori, già anziani e dalla salute delicata”. Javier è argentino ed ha conosciuto Jenny quando lei studiava a Rosario. Hanno due figlie piccole (2 e 4 anni) e Angie (di 17). Passare da una grande città come Rosario a un paesino di 2.500 abitanti, sperduto e a 2.300 metri di altitudine, è stato indubbiamente un gran salto. Raccontano che hanno venduto le poche cose che avevano e sono partiti per la regione più povera del Perù, a 1.600 km da Lima e a 14 ore dal focolare più vicino.“Sapevamo che il nostro non sarebbe stato un viaggio di andata e ritorno”. Era, soprattutto per Javier, una vera sfida. Sin da giovanissimi avevano incontrato la spiritualità dell’unità dei Focolari, e anche adesso, come famiglia, avevano deciso di mettere in pratica il Vangelo. Per questo, la loro “maggiore preoccupazione” – raccontano – era quella di abitare in un luogo dove sarebbero stati “soli”, senza altre persone che condividessero i loro stessi ideali. Decisero allora di fare di tutto per testimoniare ed annunciare il Vangelo con la loro vita, affinché anche in quel piccolo villaggio amazzonico nascesse un seme della spiritualità dell’unità. Si proposero di vivere il comandamento dell’amore reciproco per “procurarsi” la presenza spirituale di Gesù nella loro famiglia, secondo la promessa di Lui: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lí sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Con questa convinzione, e credendo all’affermazione di Chiara Lubich quando disse che “uno dei frutti dell’avere Gesù in mezzo è che si fa nascere la comunità”, partirono decisi per il Perù. Pochi giorni dopo il loro arrivo, il vescovo locale visitò Lámud. Jenny e Javier si presentarono come una “famiglia focolare”. Il Vescovo li benedisse e li stimolò a continuare l’impegno preso. Cominciarono con il percorrere la periferia del paese visitando “i più poveri, gli ultimi”. Andavano a trovarli nelle loro case (se così si possono chiamare), dove trovarono anziani che “non avevano neppure un letto degno dove morire” raccontano. Conobbero tante famiglie la cui unica aspettativa (o speranza) era avere un piatto caldo ogni giorno per i loro figli e per se stessi. “Cercavamo di far sentire loro il nostro affetto, di guardarli negli occhi, di regalare una parola di incoraggiamento, e anche qualcosa da mangiare. A volte, quando potevamo, rimanevamo con loro due o tre giorni, condividendo i loro dolori, la loro povertà, le loro brevi gioie e speranze”. fcbe210d 829f 476c b96b c281cb1ca22aCon l’anelito di generare una piccola comunità di vita del Vangelo, cominciarono ad organizzare incontri della “Parola di vita”, ma senza successo. Cambiarono tattica varie volte. “Non ci siamo mai scoraggiati, perché sapevamo che Gesù ha i suoi tempi e che l’importante era stare al suo gioco”. Insistettero nell’invitare i vicini ad incontrarsi attorno alla Parola di Dio e, poco a poco, cominciarono ad aderire alcune persone, tra le quali le mamme di alcuni bambini dell’asilo con le loro figlie. Jenny e Javier prepararono allora anche momenti adatti ai più piccoli. Fu l’inizio di una piccola fiammella. Nel frattempo, il parroco chiese loro di assumersi la catechesi familiare del paese e di altri dieci villaggi “vicini”, alcuni dei quali a due ore di strada. Recentemente, hanno avuto la prima visita di un gruppo dei Focolari della città di Talara, a 650 km da Lámud (12 ore di viaggio in automobile). Una visita che “ha segnato un prima e un dopo nella vita della nostra comunità”, afferma la coppia. Jenny e Javier spiegano, con la gioia di chi ha trovato il proprio posto nel mondo: “Siamo pochi… ma qualcosa è nato! Non vogliamo crearci false aspettative, ma crediamo che Gesù ha un debole per l’Amazzonia e per i più poveri. Forse perché anche lui nacque tra i poveri… e rimase tra di loro”. “Non sappiamo per quali strade lui voglia portarci”, ammettono, ma sono le uniche che vogliamo percorrere!”, concludono. “Vogliamo, come lui, dare la vita per la nostra gente”.

Gustavo E. Clariá

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Al Villaggio per la Terra, protagonista l’Amazzonia

Al Villaggio per la Terra, protagonista l’Amazzonia

Si è affrontato il tema della salvaguardia dell’Amazzonia, ecosistema fra i più ricchi del pianeta e insieme “foresta di culture”. Guardare l’Amazzonia con gli occhi di chi ci vive, “farsi uno” coi popoli indigeni che la abitano in un rapporto di scambio ed equilibrio perfetto: la terra è madre che dà vita e l’uomo ne ha cura e protegge la ricchezza delle sue creature, essendo esso stesso creatura nel Creato. E’ questo lo sguardo con cui i promotori e i partecipanti alla quarta edizione del Villaggio delle Terra, promosso a Roma dal Movimento dei Focolari con Earth Day Italia, dal 25 al 29 aprile, hanno affrontato il tema della salvaguardia dell’Amazzonia, ecosistema fra i più ricchi del pianeta e insieme “foresta di culture”. Dal parco di Villa Borghese, è stato rinnovato l’appello per la tutela della biodiversità ambientale ed etnico-culturale del “polmone” del pianeta, da troppo tempo sfruttato e depredato da multinazionali e governi che guardano a questa terra come fonte di guadagno. L’attività estrattiva di petrolio, gas e preziosi, e il disboscamento crescente di aree destinate all’agricoltura intensiva o alla costruzione di dighe e infrastrutture – denuncia Francesca Casella, Direttrice di Survivor International Italia – è un “attacco deliberato” che mette a rischio la sopravvivenza dell’ecosistema e delle tribù che lo popolano, sfrattate illegalmente dalle loro terre, private del sostentamento o addirittura sterminate. “Abbiamo fame e sete di giustizia per tutti coloro che sono morti lottando per il nostro popolo e per la nostra vita” ha detto commossa dal palco Hamangaì, studentessa indigena rappresentante del popolo Patax – nello stato brasiliano di Bcq5dam.thumbnail.cropped.750.422ahia – chiedendo che “l’umanità si fermi e ascolti i popoli originari”, portatori di una saggezza millenaria. A questo grido hanno risposto le centinaia di organizzazioni, istituzioni e realtà – civili ed ecclesiali – che hanno preso parte all’evento, facendo fronte comune per la tutela della terra amazzonica. Una terra che costituisce un patrimonio ecologico inestimabile, ma che si offre anche come modello per la coesistenza di centinaia di popolazioni con culture, etnie e religioni­­ diverse. Un modello da tutelare, dunque, secondo lo spirito indicato dal Signore a Mosè nella Bibbia: “Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai, è suolo santo” (Es 3,5). Un brano biblico che Papa Francesco ha citato nel corso del suo viaggio apostolico in Amazzonia, nel 2016, e che il Card. Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, ha riproposto ai partecipanti al Villaggio, quale modello di relazione nell’incontro con gli indios e la loro terra. Proprio i vescovi del mondo si riuniranno in ottobre per discutere del tema amazzonico, ricercando “Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”, come recita il titolo del Sinodo voluto dal Papa. La presenza della Chiesa in Amazzonia, ha ricordato il porporato, è in effetti significativa, con “7 Conferenze Episcopali, 106 vescovi e migliaia di sacerdoti e operatori pastorali”. Un’attenzione speciale che nasce dalla consapevolezza che tutto è connesso, come sottolinea il Santo Padre nella Laudato si’, dove invita ad una “conversione ecologica”, ovvero ad assumere l’interdipendenza di tutto il Creato, della natura con l’uomo e fra gli uomini, e dunque a modificare gli stili di vita per superare l’individualismo e adottare come criterio dell’agire la solidarietà globale. In questo senso si legge anche l’opera dei Frati Cappuccini in Terra Santa, presenti in 72 villaggi accanto ai popoli indigeni, impegnati anche nella lotta contro il pregiudizio verso gli indios, visti come popoli arretrati, e che invece molto hanno da insegnare. “Noi siamo schiavi del tempo, mentre stando con loro tu capisci quanto è sacro stare insieme, ascoltarsi” dice Padre Paolo Maria Braghini, missionario cappuccino da 20 anni in Amazzonia, che afferma “San Francesco sarebbe felice di vivere oggi in quella parte del mondo”. Un modello, quello amazzonico, che nella sua biodiversità può e deve essere replicato altrove, adattato però alle singole realtà, come evidenzia Rafael Padilha, docente dell’Università di Vale do Itajaì, in Brasile, che sottolinea anche l’importanza di promuovere un’economia che metta al centro la persona, per esempio attraverso progetti come quelli ispirati all’Economia di Comunione nata dal carisma del Movimento dei Focolari. La sfida, anche nei Paesi cosiddetti sviluppati – aggiunge Padre Laurent Mazas, Direttore esecutivo del Cortile dei Gentili – è passare dalla multiculturalità alla interculturalità, “dal duello al duetto, nel rispetto dei tesori di ogni cultura”. Al termine del talk, nel Viale delle Magnolie di Villa Borghese, come testimonianza dell’impegno comune per la salvaguardia della foresta e dei popoli che la abitano, è stato piantato un leccio utilizzando terra proveniente dall’Amazzonia.

Claudia Di Lorenzi

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