Set 24, 2003 | Focolari nel Mondo
Solingen si trova nel nord ovest della Germania ed è sempre stata una piccola e tranquilla città, conosciuta nel mondo per l’industria metallurgica, per le sue forbici e i suoi coltelli. Unico neo: il grave problema della disoccupazione, aggravato dall’alta percentuale di stranieri arrivati in cerca di lavoro. Ormai da parecchi anni, però, pensavamo di esserci abituati a convivere bene tra persone di molte nazionalità. Finché di colpo, nel maggio 1993, non è esploso in maniera drammatica il problema dell’inserimento degli stranieri. Sono stati giorni tragici, seguiti con interesse e apprensione sulle televisioni della nostra e di altre nazioni: alcuni giovani di destra hanno appiccato il fuoco ad una casa abitata da famiglie turche. Nell’incendio sono morte cinque persone: donne e bambini. In quei giorni era Pentecoste e io mi trovavo fuori città. Ho ricevuto la drammatica notizia da una telefonata e, in un primo momento, non riuscivo ad accettare la notizia terribile e scioccante che mi veniva data. Sembrava impossibile. Vi erano stati attentati in altri luoghi, ma mai a Solingen! Nella nostra città così pacifica, e nel quartiere proprio dietro casa mia! Eppure era vero. Al rientro ho trovato la città in stato di guerra: vetrate demolite, negozi saccheggiati, migliaia di poliziotti, e, per le strade, battaglie tra gruppi estremisti tedeschi e turchi che erano confluiti lì da tutto il paese. Quella notte non ho potuto dormire. I rumori, gli elicotteri, le sirene sembravano un unico grido al quale occorreva dare una risposta. L’indomani ci siamo incontrati con la nostra comunità. Tanti, provenienti direttamente dal lavoro o dall’università, avevano potuto attraversare a fatica la città. In tutti emozione e tormento, l’esigenza di fare, di dire qualcosa. È nata lì l’idea di un concerto per la pace nella piazza centrale di Solingen. Data la situazione, era un’idea ardita, umanamente una pazzia. Eppure, nessuno di noi aveva il minimo dubbio. In serata, siamo riusciti a prendere contatto con il sindaco della città e con gli organi di sicurezza. Tutti ci hanno appoggiato, anzi, ci chiedevano di realizzare l’idea quanto prima. È avvenuto una specie di miracolo: dopo solo settantadue ore di preparazione ha inizio il concerto, con un programma fatto dal nostro complesso insieme ad un gruppo musicale turco. L’iniziativa è subito stata messa in rilievo dalle reti televisive come l’unica manifestazione pacifica in una settimana di violenza. Tra i mille partecipanti c’erano persone di molte nazioni, tanti turchi, e anche i parenti delle vittime. Ogni parola veniva tradotta in turco e si è ben presto creata una grande attenzione e distensione in tutta la piazza. Alla fine, abbiamo lanciato l’azione “uno per uno”: la proposta che ognuno, tedesco, turco, italiano o coreano, cercasse di costruire dei legami di amicizia con almeno una persona di un’altra nazionalità. Già lì, in piazza, durante lo spettacolo, tanti hanno trovato l’occasione e il coraggio per i primi contatti. È stata una serata di una bellezza indescrivibile. Chiara Lubich ci ha scritto, incoraggiandoci, convinta che il nostro contributo, “per la testimonianza di unità, lascerà un segno”. E questo è avvenuto! Certamente il concerto non ha cambiato di colpo la situazione nella città, ma è stato un segno accolto dalla popolazione. E ora sappiamo di essere in compagnia di tanti gruppi, a Solingen e in Germania, che si impegnano con passione per far fronte ai nuovi e crescenti fenomeni di intolleranza razziale. In seguito, abbiamo dato origine ai Cafè international. Si tratta di un incontro mensile durante il quale, a turno, gli immigrati di vari paesi si fanno conoscere, con la propria cultura, i costumi, la musica, i cibi tipici, ma anche condividendo dolori e speranze. E, conoscendoci, scopriamo quanto ogni popolo, proprio per la diversità, è per gli altri un dono e un arricchimento. L’iniziativa ha trovato una forte risonanza. Ogni volta si aggiungono altre persone di altre nazioni. E l’esperienza si sta moltiplicando in altre città: a Colonia, Amburgo, Münster e Hannover. L’ultima volta mi sono trovata a tavola con persone dell’Afghanistan, della Serbia, Bosnia e Croazia che vivono in un vicino campo profughi. Durante la cena, le signore dell’Afghanistan mi hanno offerto una loro specialità. Alla mia domanda se fosse tipica del loro paese, mi hanno risposto: “No, è tipica della Bosnia. Abbiamo imparato a prepararla da una nostra amica”. E la indicano. “Abitiamo sullo stesso corridoio e abbiamo la cucina in comune. Trovarci lì, in un ambiente così stretto, fra etnie in contrasto tra loro, è stato durissimo. Il Cafè international ci ha fatto diventare sorelle”. Con queste persone, segnate dal dolore e da una nuova speranza, ho toccato il cielo. Ormai, passato qualche anno dalle prime iniziative per la pace, tanti di questi Cafè incominciano a guardare fuori dei confini nazionali. Insieme, si impegnano per le necessità di altri paesi. È una testimonianza di unità che coinvolge e che attira sempre più gente.
Set 16, 2003 | Focolari nel Mondo
Il nuovo posto di lavoro come odontotecnico era cominciato nel migliore dei modi: buono lo stipendio e prospettive interessanti. Ma dopo qualche mese l’idillio s’incrina perché il datore di lavoro, prima qualche volta, poi quasi ogni giorno mi ripete: “Lei lavora troppo lentamente e i colori dei denti non sono come dovrebbero”. Non capisco. Ogni mattina, alla distribuzione del lavoro, vedo che non si fida di me e che mi licenzierebbe volentieri. Alla consegna dei lavori, la sera, dopo una giornata di intenso lavoro, devo quasi sempre rifare tutto daccapo. Ho vissuto mesi di intima tensione, di lotta interiore: sono tentato di ribellarmi, si addensano giudizi nei confronti del datore di lavoro, ma cerco di “tagliare” per “ricominciare” ogni giorno.
Un mattino d’inverno, andando al lavoro, comincia a piovere forte: quel temporale sembra l’immagine esterna di ciò che vivo dentro. Mi ricordo dell’immagine di Gesù crocifisso che da anni tengo nella mia stanza e che tante volte in quei giorni avevo guardato senza trovare una risposta, come Lui, d’altronde, quando gridò al Padre il suo abbandono, ma si riabbandonò a Lui, credendo al Suo amore. Così pian piano dentro di me si fa largo un’idea: “Continua ad amare e, nonostante tutto, non fermarti!”. Arrivato al lavoro, cerco di far miei tutti i consigli del mio capo, senza quella sottile sfiducia che da mesi mi accompagna. Ritrovo una libertà interiore che da tempo avevo perso. Qualche tempo dopo mi chiama per dirmi che aveva fatto una visita oculistica e che il medico gli aveva scoperto un difetto visivo: era quello che gli procurava tensione e alterava i colori. Quindi era questa la causa principale delle nostre discussioni e delle tante serate di lavoro in più. Qualche giorno dopo, in un momento di intimo colloquio, tra l’altro, mi dice: “Io sto raggiungendo l’età per andare in pensione e ho pensato di proporre a lei di rilevare la mia azienda, perché ho visto che davanti alle difficoltà lei non si arrende”. F. L. (altro…)
Giu 17, 2003 | Focolari nel Mondo
Un giorno viene a trovarmi un amico che mi confida un grosso dolore: i suoi genitori sono sull’orlo del divorzio, in seguito a una sbandata del papà durante un viaggio di lavoro all’estero. Oltre al dolore di vedere venir meno l’amore tra i suoi genitori, gli risulta insopportabile il pensiero che qualcun altro deciderà con quale genitore dovrà andare a vivere, separandosi così dall’unico fratello al quale è oltremodo affezionato.
Sono coinvolto in quella situazione e provo una profonda tristezza che non riesco ad allontanare. Per di più il mio amico non è credente e temo di peggiorare la situazione parlandogli di Dio. Rischierei di non essere capito. Ma come cristiano sento di dover trasmettere a tutti l’amore di Dio, spingendomi oltre ogni confine. Finalmente, con questa luce che rischiara le tenebre, riesco a riconoscere in C. il volto di Gesù crocifisso e abbandonato, e trovo la forza di dirgli: “Io, da cristiano, donerei a Dio il mio dolore; rimetterei il problema nelle sue mani, perché la sua volontà possa compiersi bene, con la fiducia che qualsiasi cosa mi riserverà il futuro, sarà il meglio per me“. La sua risposta è stata: “Io sarò ateo, ma tu devi essere proprio matto! “. Non mi perdo d’animo e insisto: “Coraggio, vale la pena provare; di’ semplicemente a Gesù: ‘Questo dolore lo metto nelle tue mani’; e poi sta sereno in attesa che gli eventi maturino“. Prima di tornare a casa, gli dico che può telefonarmi in ogni momento, se ha bisogno d’aiuto. Quando se ne va, la tempesta del suo cuore non è certamente placata. Il giorno successivo, con mia grande gioia, mi telefona dicendo di essersi trovato, costretto dalla disperazione, a donare a Dio il suo dolore. Lo sento più sollevato. Dopo altri due giorni, ricevo una seconda telefonata nella quale mi dice che non ci sarà né la separazione dal fratello, né il divorzio. La mamma ha trovato al forza di perdonare il papà e si sono riconciliati. S.D. – Italia – da I fioretti di Chiara e dei Focolari Ed. San Paolo (altro…)
Mag 28, 2003 | Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo
“Ha dato la vita per suo fratello”. Così i giornali intitolavano il tragico episodio della morte di don Nelson. E così è stato. Era parroco, direttore spirituale del seminario e cappellano dell’ospedale di Armenia, in Colombia. Una nipote che lavorava come sua segretaria racconta: “E’ morto vivendo la Parola del Vangelo: dare la vita per i fratelli. Lui sempre ci diceva che dovevamo vivere per gli altri, non per noi stessi”. I ladri, entrati nella canonica, avevano rinchiuso Nelson in un bagno per non essere disturbati. Suo fratello, sposato con figli, abita a meno di 200 metri dalla canonica. Qualcuno lo avvisa che in parrocchia sta succedendo qualcosa di strano, ed entra di nascosto da una porta secondaria: subito si è visto la pistola puntata. Nelson, sentendo suo fratello, approfitta della confusione, forza la porta del bagno e mettendosi in mezzo tra essi e il fratello dice ai ladri: “Non fategli male!”. I ladri sparano e lo prendono in pieno petto. Era il mattino del 22 marzo. Il giorno dopo, malgrado una bufera tropicale violentissima, la cattedrale era strapiena di gente che piangeva Nelson per l’amore da lui ricevuto. Un amore frutto di una maturità profonda e di una volontà costante, provata fin dai primi anni di vita. Ripercorriamo a grandi tratti la sua storia, attraverso gli stessi ricordi di don Nelson, raccolti qualche anno fa da un’intervista di Città Nuova durante un suo soggiorno in Italia per studiare pastorale sanitaria: «In famiglia eravamo in sette e vivevamo del lavoro di papà, un contadino. Eravamo molto poveri, ma ci affidavamo a Dio e quel po’ che avevamo eravamo lieti di condividerlo con chi aveva più bisogno di noi. Ricorderò sempre un certo melo del nostro orto i cui frutti, saporosissimi, ci erano vietati, essendo riservati esclusivamente agli ammalati della parrocchia». Per Nelson la povertà così vissuta, evangelicamente, si è tramutata in una scuola di vera umanità. Più difficile invece il suo rapporto con la malattia, con cui pure ha dovuto precocemente prendere confidenza: «Avevo sei anni quando, a causa di un virus che attacca il sistema nervoso centrale, sono rimasto paralizzato agli arti per diversi mesi. E’ un male sempre in agguato, che costringe a stare sotto cura continua. Con gli anni si sono aggiunte altre malattie e ho avuto ben quattro interventi agli occhi. Ne so qualcosa quindi di medicine, di terapie, di degenze ospedaliere. Ma allora, essendo così giovane, non capivo gran che il senso di questa sofferenza, che mi impediva di vivere come gli altri miei coetanei, e ne ero piuttosto spaventato». Fidanzato e con la prospettiva di formarsi una famiglia, si sente invece chiamato ad una donazione più universale. Capisce che forse la sua strada è un’altra. Così a 21 anni decide di farsi prete. Nei primi anni di seminario, a Manizales, la salute non sembra creargli problemi. Senonché, finiti gli studi di filosofia e all’inizio dell’anno di esperienza pastorale, un nuovo attacco del suo vecchio male lo costringe in ospedale, paralizzato: «Anche se i medici mi assicuravano che mi sarei ripreso e avrei potuto condurre una vita normale, sono piombato nella crisi più nera: vedevo tutto il mio futuro compromesso». Proprio in questo frangente, grazie ad un sacerdote amico che vive la spiritualità dei Focolari, approfondisce un aspetto della passione di Cristo: il suo abbandono in croce. Identificandosi in lui, riconoscendolo in ogni dolore personale ed altrui e accogliendolo, per amore, nella propria vita, sperimenta una vera rinascita interiore: “Ogni sofferenza fisica e morale ha preso senso per me: di qui una forza interiore insolita, un senso di pace e addirittura di gioia. Avevo scoperto il tesoro più prezioso, e anche se non fossi arrivato ad essere prete, non mi sarebbe mancato nulla per realizzarmi come cristiano». Dal 1983 al 1993 si donerà senza risparmio per la diocesi: viceparroco in una grande parrocchia di 10 mila anime, cappellano ospedaliero, formatore nel seminario maggiore di Armenia, alla cui fondazione ha contribuito. Una tappa fondamentale è quando, non senza aver molto esitato, Nelson decide di attuare un vecchio progetto: quello di frequentare presso il Camillianum di Roma un corso di pastorale sanitaria. E’ una scelta ’preparata’ dall’esperienza fatta finora sulla propria pelle, e inoltre va incontro ad una domanda per lui fondamentale: come vivere in modo “sano”, dal punto di vista spirituale, la malattia, e così pure la morte come passaggio da questa vita all’altra? «Da noi non erano molti i sacerdoti preparati in questo campo, e solo il desiderio di poter servire meglio i miei fratelli ammalati mi ha convinto ad affrontare per due anni, nelle mie condizioni, le incognite di una permanenza oltreoceano». Nell’agosto del ’93, ripresosi alquanto, Nelson inizia i suoi studi romani. Ma non è tutto: vivendo assieme ad un prete argentino e ad uno olandese, ha modo di approfondire anche nella pratica quella spiritualità dell’unità che già l’aveva attratto in Colombia. E’ una esperienza che lo affina, abilitandolo ad un apostolato particolare: quello fra gli ammalati di Aids. Non è facile avere a che fare con loro: sono persone di una sensibilità esasperata, che vivono il loro dramma nella piena consapevolezza di cosa le aspetta, e con cui non si può fingere. Ne conoscerà tanti in questo periodo, e con ognuno una parola, un silenzio, la condivisione profonda del dolore, l’aiuto per riconciliarsi con Dio. Tornando in Colombia Nelson, per desiderio del suo Vescovo, si occuperà di pastorale sanitaria a livello diocesano, ma la sua continua donazione non si è fermata lì. Il dare la vita non si improvvisa, e, come in tanti anni di esperienze con persone le più varie, Nelson ci ha salutato con un ultimo eroico atto d’amore.
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Mag 25, 2003 | Focolari nel Mondo
Negli ultimi tempi mi sono ammalata, e anche in questo, come in tanti altri momenti della mia vita ho trovato l’amore abbondante e generoso di Dio. Per la chemioterapia mi sono caduti i capelli. E’ vero che Gesù ha detto “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…”, ma in questi giorni ho sperimentato pure: “Ero senza capelli e mi avete dato i vostri”. Infatti tre giovani hanno tagliato i loro capelli per farmi una parrucca proprio dello stesso colore dei miei.
Alla malattia si aggiunge anche una difficoltà economica, non solo per l’elevato costo delle cure, ma anche perché non posso più svolgere un lavoro che mi era stato offerto, dare alcune lezioni private extra. Il cuore è in preda alla preoccupazione. Cerco di affidare tutto alla Madonna, e dentro Gesù mi chiede di avere fiducia. Sì, la fiducia che anche questa dolorosa prova fisica, i dubbi, le tentazioni, non sono altro che manifestazioni dell’amore di Dio che purifica il mio agire. La risposta è arrivata dopo pochi giorni: il pagamento della licenza di malattia era più alto del mio normale stipendio, e inoltre mi hanno dato una quota in più per quelle lezioni che non ho potuto dare! Era la prova che rimanendo nel suo amore, vivendo le sue parole, potremo chiedere quello che vogliamo e ci sarà dato, era sentirmi un tralcio innestato nella vera vite. Dentro di me un canto si è innalzato a Lui: “E’ impossibile non credere a te, è impossibile non fare di te l’ideale della mia vita”. G. – Brasile da I Fioretti di Chiara e dei Focolari – San Paolo Editrice – p. 27 (altro…)