Giu 8, 2000 | Focolari nel Mondo
È profondamente radicata in me la convinzione che il mondo tende all’unità. Il mondo unito, ha detto il Papa Giovanni Paolo II, è una di quelle idee che fanno la storia. Qualche anno fa questa convinzione in me è entrata in crisi con lo scoppio della guerra in Serbia. Ho cercato in qualche modo di reagire. Nella nostra emittente in quei giorni abbiamo innanzitutto raccontato quello che si faceva per i profughi kosovari, sottolineando le storie e a volte l’eroismo dei volontari. Poi sono andato a cercare quello che veniva considerato il “nemico”, il popolo serbo. Al di là delle ragioni delle parti in conflitto, sentivo che era giusto far vedere ai telespettatori come vittime innocenti subiscono il dramma della guerra. Il mio TG ogni sera ha mandato in onda, con la traduzione italiana, i servizi sulla guerra realizzati dal TG serbo. Un’iniziativa che è stata subito ripresa dalla principale agenzia di stampa nazionale italiana. La ragazza interprete aveva la sua famiglia a Nis, per cui ogni sera tutta la redazione viveva con lei l’angoscia di sapere dove fossero cadute le bombe. Ad aprile, durante il conflitto, mi trovavo in una sala per un congresso, e ho ascoltato la storia degli inizi del Movimento dei Focolari, durante l’ultima guerra mondiale, e di come, in ogni situazione, anche se la guerra ci angoscia, dobbiamo vivere quell’amore evangelico che porta all’unità. Ci voglio credere, mi sono detto. All’improvviso una telefonata da Milano mi fa partire immediatamente con un aereo privato per un reportage in Albania e Macedonia. Così nel giro di poche ore mi sono trovato da Castelgandolfo ai campi profughi di Tirana e al confine di Blace, tra Macedonia e Kosovo, catapultato tra quelle tende polverose, pronto a scorgere con la telecamera la paura, il dolore, la sconfitta dei profughi, prime vittime del conflitto. Ma appena ho messo piede nel primo campo ho avuto quasi uno choc: ho visto soprattutto persone che si volevano bene. Bambini che giocano, sorrisi accoglienti di chi ti invita nella propria tenda, la dignità e la bellezza del popolo kosovaro. Ho sentito una profonda serenità, che mi ha commosso. Dietro la telecamera mi sono detto: pensavo di trovare l’inferno e ho trovato un pezzo di umanità che, pur soffrendo, sa ancora amare. Ed è l’immagine di questa umanità che ho mostrato al TG. (D.M. – Italia) (altro…)
Giu 7, 2000 | Focolari nel Mondo
Nel cuore del Sudamerica si trova la Bolivia, paese ricco di tradizioni ed espressioni culturali diverse. Il suo territorio presenta diverse regioni, varie per clima e paesaggio. Dalle foreste amazzoniche all’altipiano, a più di 3.000 metri sul livello del mare. In ogni zona si sono sviluppate e permangono diverse culture ed etnie che contribuiscono alla ricchezza di questa nazione. In questa diversità si colloca il popolo Aymara, una cultura millenaria che conserva i suoi costumi, riti, tradizioni e lingua. La sua visione del cosmo è molto diversa da quella del mondo occidentale. Hanno un rapporto molto speciale con la natura, e la loro organizzazione sociale e lavorativa ha un forte senso comunitario. Le popolazioni aymara sono molto distanti l’una dall’altra, sparse nell’altipiano boliviano. In una di queste comunità è nata, 45 anni fa, Radio San Gabriel, come mezzo di espressione di questo popolo. Nel 1977 padre José Canut si trasferì dalla Spagna alla Bolivia per assumersi la responsabilità della radio. A contatto con il popolo Aymara ha dovuto perdere la propria cultura per poter entrare in quella cultura millenaria. Nel vederli lavorare ai loro rustici telai ha scoperto l’intelligenza di questo popolo e ha pensato: se possono maneggiare più di 100 fili per volta con tanta agilità, non sarebbe difficile per loro “giocare” con un po’ di bottoni. Questo ragionamento gli ha dato la certezza che gli aymara stessi avrebbero potuto farsi carico della radio. Radio San Gabriel è ora una radio degli indigeni e per gli indigeni e compie una funzione sociale importante di servizio ed educazione. La programmazione, produzione, operazione e speakeraggio sono realizzate da loro nella propria lingua. Sono fieri perché il 90% del personale è aymara. (P.A.) (altro…)
Mag 14, 2000 | Focolari nel Mondo
Quando Patrick ha cominciato a frequentare l’asilo a Freetown, un giorno in cui si facevano gare sportive, è stato scelto come rappresentante della sua classe per la corsa. Durante la competizione Patrick era in testa, quando improvvisamente il bambino che era dietro di lui ha traballato ed è caduto. Patrick se ne è accorto, si è fermato, è tornato indietro per aiutarlo. L’insegnante gli ha gridato di non fermarsi, di continuare a correre per arrivare primo, ma Patrick ha continuato ad aiutare l’altro bambino ad alzarsi. Tutti i bambini che correvano li hanno superati e quando quello caduto si è rialzato, ha continuato a correre lasciando Patrick indietro. Alla fine della corsa, invece di arrivare primo Patrick è stato l’ultimo. Ma, sul campo della gara, la persona più felice ero io, il suo papà, perché ho visto cosa possono fare i bambini quando cercano di mettere in pratica il Vangelo. Patrick si era reso conto che quel bambino aveva bisogno di aiuto e questo è stato per lui molto più importante che vincere la corsa. In seguito il maestro di Patrick, sorpreso per il comportamento del bambino, è venuto a trovarmi per chiedere come mai il piccolo avesse agito così. Questa pur piccola esperienza ci pare molto significativa. Vi si può cogliere un seme di speranza per una “nuova” Sierra Leone. (altro…)
Apr 14, 2000 | Focolari nel Mondo
A casa c’era un’aria di festa. Per una coincidenza un po’ eccezionale ci ritroviamo: noi due, i bambini, i miei genitori, mia sorella e anche i miei fratelli che, da molti anni ormai sono lontani da casa e non solo fisicamente. Improvvisamente papà si sente male. Non parla più. In pochi minuti quella che doveva essere la festa di famiglia, si avvia ad essere una tragedia. Comincia la corsa agli ospedali: non si trova posto per un malato così grave, anziano. Finalmente lo accettano a un reparto di rianimazione. I miei fratelli, essendo medici si prodigano dapprima con l’impegno di veri professionisti come sono, poi, dopo anni di contestazione di rifiuto, ritrovano per lui quell’amore puro dell’infanzia. Papà esce fuori dal coma. Con parole rotte dalla commozione gli chiedono perdono, gli dicono tutto il bene che gli vogliono. Ma il pericolo di morte non è scongiurato. Sembra arrivata l’ultima ora. Sono proprio loro, agnostici e di fede materialistica, che per ben due volte gli fanno avere l’unzione degli infermi. Uno dei miei fratelli gli sussurra: “Vai, vai sicuro papà. Sono certo che ci rivediamo nell’altra vita”. E’ un’arrivederci. La morte il lunedì verso sera. Tutto è compiuto. E’ un dolore lacerante, ma , davanti a quel corpo che mi ha dato la vita, sento che mio padre non è lì. Sento che è in tutto l’amore umile, concreto che ha sempre dato a ciascuno di noi. Ora tocco con mano, con stupore la verità di quelle Parole di Gesù: “Quando sarò innalzato in croce trarrò tutti a me”. Ora, entrato nella vita senza fine papà continua a operare fra noi, finalmente riuniti. Ai funerali un’aria di serenità e di pace. Accanto a noi i miei fratelli. Da anni non avevano più voluto partecipare a manifestazioni religiose, ora li sento rispondere alla messa, cantare, con una fermezza che è qualche cosa di più di una testimonianza, è una certezza che hanno ritrovato. (altro…)
Mar 15, 2000 | Focolari nel Mondo
In questi mesi, malgrado i disordini in città, ho continuato a vivere nella speranza che un giorno non lontano nel nostro dilaniato Paese regni la pace tra tutti. Nel mio quartiere vivono mescolati gli appartenenti ad etnie diverse. Questo significa ogni giorno morti sulle strade, minacce, violenza, persone che approfittano della situazione incontrollabile per il proprio tornaconto. Pur in tanta desolazione, capisco che, se faccio spazio dentro di me a Dio Amore e lo manifesto agli altri, l’ideale di unità sarà come un seme che alla fine germoglierà in tutti i cuori. Posso coltivare ogni giorno questo seme dovunque mi trovi, al lavoro o con i vicini di casa, senza mai far caso all’etnia di appartenenza. Così, ho stabilito legami veri con tante persone e, anche quando siamo stati costretti a disperderci in altri quartieri per metterci al riparo dalla violenza, abbiamo continuato a cercarci e a vederci di nascosto. L’amore tra noi è stato più forte delle divisioni e della paura dei rischi che correvamo incontrandoci. Purtroppo, però, non è così per tutti e molti mettono a repentaglio anche la vita pur di non avere a che fare con gente di altre etnie ed incorrere in ritorsioni. Sulla strada che percorro ogni giorno per andare al lavoro incontro sempre un uomo con una piaga infetta alla mano. Gli ho domandato perché non va a farsi curare e mi ha risposto che non ha i soldi necessari. Gli ho proposto di venire da me a medicarsi, mi pagherà quando potrà. È venuto un paio di volte, poi non l’ho più visto. L’ho incontrato di nuovo e gli ho chiesto perché non era più venuto a curarsi. Mi ha detto che ha paura: di me che non appartengo alla sua etnia, di chi incontra lungo la strada e dei suoi fratelli che potrebbero punirlo perché si è fatto curare da persone di etnie diverse. Mi sono resa conto di come ormai in molti abbiano perso ogni fiducia negli altri. Ho sentito che dovevo amarlo fino alla fine e interrompere questa catena di odio e di pregiudizi: ho deciso allora di portare con me il materiale sanitario necessario per rifargli la fasciatura ogni giorno, al ritorno dal lavoro. Un posto tranquillo in cui medicarlo mi è sembrato, in mancanza di meglio, il piccolo rifugio di legno dove sostano a volte i soldati addetti alla vigilanza nel nostro quartiere. Ho chiesto loro il permesso e me l’hanno accordato, un po’ sorpresi e curiosi nel vedere che curavo una persona di un’altra etnia. Sistemata la fasciatura, mi sono accorta di aver dimenticato a casa le forbici. Mi son guardata intorno in cerca di qualcosa che fosse adatto a tagliare la benda e, subito, il soldato che mi guardava mi ha offerto, con molta gentilezza, la sua baionetta. Il ferito era sbalordito e contento, sia per la premura dei soldati sia per la mia determinazione a curarlo. Mi ha detto che non pensava esistessero persone che non fanno dell’appartenenza etnica una barriera. È stata per me una conferma in più che l’amore è l’unica soluzione ai nostri problemi. Spes (Burundi) (altro…)