Movimento dei Focolari

Chiara Luce Badano, "Santità a 18 anni"

“Ho riscoperto il Vangelo sotto una nuova luce. Ho scoperto che non ero una cristiana autentica perché non lo vivevo sino in fondo. Ora voglio fare di questo magnifico libro il mio unico scopo. Non voglio e non posso rimanere analfabeta di un così straordinario messaggio. Come per me è facile imparare l’alfabeto, così deve essere anche vivere il Vangelo”. (Chiara Luce Badano)   “Chiara Luce! Quanta luce si legge sul suo volto, quanta luce nelle sue parole, nelle sue lettere, nella sua vita tutta protesa ad amare concretamente tanti! … Scelta radicale di Gesù crocefisso e abbandonato, la sua; scelta di ciò che fa male e che, se non si ama, può trascinare lo spirito in una galleria oscura. Con Lui ha vissuto, con Lui ha trasformato la sua passione in un canto nuziale”. (Chiara Lubich)       “La sua è una testimonianza significativa in particolare per i giovani. Basta considerare come ha vissuto la malattia, vedere l’eco suscitata dalla sua morte. Non si poteva lasciar cadere un esempio di questa portata. C’è bisogno di santità anche oggi. C’è bisogno di aiutare a trovare un orientamento, uno scopo alla vita, aiutare i giovani a superare le loro insicurezze, la loro solitudine, i loro enigmi di fronte agli insuccessi, al dolore, alla morte. I discorsi teorici non li conquistano, ci vuole la testimonianza”. “Nei colloqui con lei notavo una maturità di gran lunga superiore alle giovani della sua età. Aveva colto l’essenziale del cristianesimo: Dio al primo posto; Gesù, con cui aveva un rapporto spontaneo, fraterno; Maria come esempio; la centralità dell’amore; la responsabilità di annunciare il vangelo. Tutto questo, collaudato dall’esperienza della sofferenza e della morte, non temuta ma attesa, ha reso la sua vicenda veramente singolare”.   (altro…)

Quello stage al giornale

Un mese di stage presso un quotidiano, nella redazione cronaca di Firenze. Un posto vinto inaspettatamente e l’occasione di farmi le ossa sul campo dopo cinque anni di studi teorici. Fin dal primo giorno lavoro a pieno ritmo, anche se a volte come uno che annaspa per non affogare. E mi rendo conto della responsabilità etica e civile che comporta fare il giornalista. Come pure che prima della notizia, dello scoop, viene la persona. Il primo giorno mi mandano ad intervistare parenti e amici di un giovane rimasto ucciso in una rissa, fuori della discoteca. Avrei preferito rispettare un momento così doloroso e sacro. Ma davanti al “dovere di cronaca” ho cercato di farmi uno con quelle persone, entrando nella loro storia in punta di piedi. M’invitano a raccogliere le opinioni di residenti e commercianti di un quartiere, rivoluzionato dal nuovo piano di traffico; cerco di ‘calarmi’ nella loro situazione.     Nell’articolo dico la verità, anche se molto scomoda per l’assessore al traffico.  Evito però di riportare certe dichiarazioni, che potrebbero costare loro care, anche se erano uno scoop. Molti mi ringraziano per l’ascolto attento, per la sollecitudine, per l’onestà. Ho potuto poi constatare quanto in redazione domini il pregiudizio secondo cui le notizie positive non interessano ai lettori. Quindi si cerca caparbiamente il negativo, anche quando non c’è. Eppure quando ho scritto un articolo sui giudizi molto positivi dei degenti in alcuni reparti dell’ospedale, … sorpresa: sono stati pubblicati. E non è stato l’unico caso. Ho visto poi quanto la cosiddetta “obiettività” del giornalista significhi dirittura morale e onestà intellettuale, completezza e accuratezza nell’esporre i fatti. Come quando ho ‘scoperchiato’, quasi incidentalmente, gravi disservizi in un ente pubblico, che hanno scatenato un polverone (un ministro è anche intervenuto sul giornale). Lì ho sentito il dovere di interpellare tutte le voci in causa: impiegati, direttore, responsabile politico. Così quando dovevo scrivere su un incontro, ad alto livello, fra un gruppo di managers e sindacalisti cileni e i sindacati italiani: anziché il solito rimpasto della notizia di agenzia, ho voluto documentarmi bene sulla situazione di questo Paese per amarlo come fosse il mio. Le personalità cilene sono rimaste così contente che hanno incorniciato l’articolo. Anche il console del Cile mi ha ringraziata e, in rappresentanza del quotidiano, mi ha invitata alla cena con la delegazione cilena. Ma il tempo per il mio stage scade. Sono serena per il futuro: le porte aperte o chiuse saranno i segni del percorso. Intanto il quotidiano mi ha proposto di mantenere la collaborazione. I. R.   (altro…)

«Ho scoperto l’Ecumenismo»

Sono italiana e frequento il secondo anno di Psicologia all’Università di Swansea, e sono cattolica. Vivo con altre cinque studentesse, da Spagna, Italia e Grecia. Ci conosciamo molto bene ed abbiamo condiviso molte cose, ma non parlavamo mai di religione. Una domenica, mi stavo preparando per andare a messa, quando Natasha, una delle ragazze greche, mi ha chiesto dove stavo andando. Ho esitato a rispondere, dato che molti studenti disprezzano quelli che vanno in chiesa. Ero tentata di cambiare argomento o di dire una bugia. Ma mi sono resa conto che sarebbe stato dire una bugia a Gesù in lei. Così le ho detto la verità, le ho parlato della mia fede e di come Dio è la cosa più importante. Ero pronta a che lei prendesse malamente quanto dicevo, e sono stata invece sorpresa nel sentire che anche lei era cristiana! Era greco-ortodossa e – dato che non ci sono chiese greco-ortodosse in Swansea – doveva andare a Cardiff, a circa un’ora di autobus, quando voleva andare in chiesa. Ci siamo messe d’accordo che – quando lei non fosse potuta andare a Cardiff – sarebbe venuta a Messa con me. Non dimenticherò mai la gioia che avevo in cuore quella sera, quando abbiamo pregato Dio insieme, al di là delle nostre differenti denominazioni. Essendo italiana, non avevo mai avuto prima questa esperienza. In Italia sono pressoché tutti cattolici. Prima di quel giorno non avevo mai capito realmente l’ecumenismo, e quanto sia importante. La domenica successiva, dopo la Messa, il sacerdote è venuto alla porta della chiesa a salutare le persone, e ha chiesto a Natasha da dove veniva. Quando ha sentito che era greca e ortodossa, ci ha invitato a prendere una tazza di thè. E’ stato molto sorpreso che la maggior parte degli studenti dell’università non avevano in Swansea nessuna celebrazione delle rispettive liturgie. Subito le ha detto che conosceva il prete ortodosso di Cardiff e che gli avrebbe suggerito di celebrare la liturgia ortodossa nella chiesa cattolica di Swansea. Ora più di cinquecento membri della Chiesa greco-ortodossa celebrano la loro liturgia ogni due settimane nella nostra chiesa. Per me quella domenica è stata grande esperienza. Mi sono resa conto di come è importante amare Gesù in ogni persona che incontro durante la giornata e scegliere Lui in ogni momento. Non avrei mai potuto immaginare le conseguenze di averlo fatto quel giorno. L.S.   (altro…)

«Amare il nemico del mio popolo»

Noi indigeni siamo la maggioranza della popolazione guatemalteca, il 60%. E siamo sempre noi quelli che abbiamo, in sofferenza, il peso maggiore. Il mio popolo vive in piccole comunità con costumi e lingue propri, ma emarginate e in condizione d’inferiorità e dipendenza economica. Sono la maggiore di 12 figli. Fin da piccola avevo delle responsabilità nella famiglia e ho dovuto lavorare molto presto per sostenerla. Alla dura realtà della mia infanzia si aggiungevano le percosse di papà: sfogava su di me i problemi con il nonno, nella cui casa abitavamo. Era così amaro il nostro rapporto da arrivare a pensare che non fossi figlia sua. Crescendo, si sviluppava in me una totale ribellione verso di lui e verso tutto ciò che faceva. A ciò si aggiungeva la dolorosa presa di coscienza d’essere diversa: ero indigena. Avevo otto anni, cominciavo a frequentare la scuola. Un giorno una compagna dice alle altre: “A quella (ero io) non parlatele: è indigena”. Io, però, non mi sentivo diversa da loro: potevo sorridere, parlare, amare, sentire le cose che loro sentivano. Anche all’interno del nostro gruppo etnico c’era divisione e quelli che riuscivano ad emergere disprezzavano gli altri. Sognavo di studiare diritto per difendere il mio popolo dall’oppressione, vendicando le ingiustizie e il disprezzo ricevuti. Ancora alla scuola media, però, ho dovuto interrompere gli studi per sostenere la mia famiglia. Sono stata assunta in una fabbrica tessile dove lavoravo da 11 a 15 ore al giorno: un ambiente pieno di rivalità. Sfruttamento e stanchezza, comunque, li affrontavo volentieri pur di evitare ai miei fratelli la sofferenza e il disprezzo che avevo subito io. Poco alla volta ho ripreso a studiare di notte, ma più del sacrificio sentivo una gran forza di lottare per raggiungere io e la mia famiglia una posizione migliore. Ad una Mariapoli, l’incontro con l’Ideale, la scoperta di un mondo nuovissimo che mai avrei pensato esistesse. Mi colpiva soprattutto vedere che persone di differente condizione sociale, di razze differenti si amavano, pronte a dare la vita a vicenda. Vedevo comporsi una società nuova dove davvero ciascuno è uguale all’altro: tutti con la stessa dignità di figli di Dio. Ed è iniziata una piccola, ma vera, rivoluzione. Una cosa, però, non riuscivo a superare: il rancore verso papà. Capivo di dovergli chiedere scusa…”Nulla è impossibile a Dio” Nulla è impossibile a Dio”. A Lui potevo chiedere qualsiasi cosa… E’ stato un momento fortissimo di riconciliazione e ho sentito entrare in me un amore nuovo e più profondo. C’era ancora da far crollare la barriera verso quanti disprezzavano il mio popolo. Capivo che Dio mi chiedeva di andare oltre queste ferite. Attraverso un’esperienza concreta di perdono è entrata in me la libertà d’amare tutti, senza distinzione: e non solo perdonare, ma essere disposta a dar la vita per chi, da sempre, si era mostrato mio nemico, nemico del mio popolo. Aprendomi all’altro, lo sperimento, si arricchisce il mio essere guatemalteca e allo stesso tempo mi scopro parte di un popolo nuovo, quello di Dio. A. E. Guatemala   (altro…)

Settanta volte sette

La  vicenda di una giovane ivoriana, attraverso il racconto degli anni dell’adolescenza, e di come è risucita a non cedere alla via del rancore e dell’odio Sono nata a Man, una cittadina appoggiata su verdi colline, nella zona geograficamente più interessante della Costa d’Avorio. Dalla mia casa si vede chiaramente il monte Toukoui, la cima più alta del mio paese, e qui sono cresciuta serenamente, insieme a nove fratelli e con i miei genitori, fino a quando mio padre ha iniziato a frequentare una donna e a trascurare la famiglia. Da quel momento, l’atmosfera in casa è diventata insopportabile, carica di tensioni e di malumori che sfociavano a volte in liti furiose. La mamma piangeva spesso. Noi figli eravamo disorientati di fronte a questa situazione, inaspettata e per noi inaccettabile. Vivevamo tutti oppressi da un malessere che si accresceva di giorno in giorno. In questo periodo travagliato avevo circa tredici anni e iniziavo a frequentare delle ragazze come me che cercavano con semplicità, più con i fatti che con le parole, di vivere il vangelo e di guardare gli avvenimenti e le persone che incontravano ogni giorno alla luce dell’amore di Dio. Frequentandole, mi sentivo a mio agio, valorizzata, amata, e il carico di amarezze che mi pesava sul cuore mi sembrava più facile da portare. La situazione è però precipitata, perché la mamma, esasperata dal difficile rapporto con mio padre, ha deciso, ad un certo punto, di lasciare la nostra casa. Per me è stato un momento terribile: mi sono sentita sola e stavo male, mi chiedevo come fare a vedere l’amore di Dio in quello che stava accadendo, come fare ad amare ancora mio padre e come aiutare mia madre. Sapevo che Gesù mi ama e mi è vicino, ma non riuscivo più a formulare un solo pensiero che non finisse con un gigantesco punto interrogativo. Dentro di me si era rotto qualcosa e l’unica parola che mi martellava nella testa e nel cuore era: perché? La nuova moglie del papà è venuta ad abitare con noi, ma né io né i miei fratelli riuscivamo a legare con lei e ad accettarla. Soprattutto il più grande di noi la rifiutava e litigava costantemente con lei e con nostro padre. In questa situazione conflittuale, anche papà era sempre più infelice: ha iniziato a bere, a smettere progressivamente di prendersi cura di se stesso e di tutta la famiglia, a vivere solo e afflitto. Ci sembrava, a volte, di vivere in un incubo. Per risollevare un po’ la nostra famiglia e permetterci di frequentare regolarmente la scuola, alcuni zii hanno iniziato ad ospitarci a turno nelle loro case. Col passare degli anni si sono formati due clan all’interno della mia famiglia: da una parte mio padre con sua moglie e i loro bambini, dall’altra i miei fratelli. Io mi sforzavo di non parteggiare per nessuno dei due gruppi e di non farmi coinvolgere nelle loro dispute. L’unica cosa che avrei voluto era riavere una famiglia vera e un clima di affetto sincero, invece mi ritrovavo sempre da sola, impotente, a chiedermi: perché? Nei momenti bui è stato il rapporto con le mie amiche – con cui cerchiamo di vivere il vangelo – a darmi la forza per continuare ad amare tutti e due i clan. Ogni volta che ci incontriamo e ci raccontiamo i nostri reciproci passi nel vivere le parole del vangelo, si ristabilisce tra noi un clima di unità che dà nuova luce e vigore a tutte. Una sera in cui mi sentivo a terra, bloccata dentro il dolore del mio problema familiare, ho riscoperto, con il loro aiuto, Gesù vicino proprio nei momenti per lui più dolorosi, quando sulla croce ha gridato al Padre: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”  Così, acquistava un senso molto più profondo ogni “perché?” lacerante che anch’io mi sentivo dentro. Unito a quello di Gesù, il mio “perché?” si rivelava sempre di più una perla preziosa da trasformare in un amore per tutti più grande e concreto. Durante l’anno abitavo con gli zii e mi impegnavo il più possibile a scuola. Ad ogni vacanza tornavo a casa e cercavo di darmi da fare, iniziando dalle piccole faccende domestiche. Molte volte, la sera, trovavo mio padre, ubriaco, addormentato fuori della porta di casa nostra. Mi si stringeva il cuore a vederlo in quello stato. Allora, lo portavo nella sua stanza, lo mettevo a letto e facevo per lui il possibile affinché si sentisse amato anche nei momenti in cui lui per primo non si amava. Finita la scuola, ho iniziato a frequentare l’università ad Abidjan, la capitale, situata sulla costa, una città moderna a quasi cinquecento chilometri da Man. Il rapporto con mio padre diventava sempre più difficile: non riuscivo a trovare in lui una breccia che mi permettesse di parlargli e di ricostruire il colloquio e l’affetto. Imputavo a lui e a sua moglie tutte le sofferenze della mia adolescenza. Mi sentivo offesa e tradita, usurpata dell’affetto di una famiglia, costretta a crescere da sola proprio negli anni in cui maggiormente avrei avuto bisogno dell’appoggio dei miei genitori. Ho deciso, ad un certo punto, che non volevo più vedere mio padre. Ad un incontro con le mie amiche non sono riuscita più a trattenermi e ho sfogato la mia rabbia: “Voglio vendicarmi del male che lui e sua moglie mi hanno fatto. Andrò a casa loro e distruggerò tutti i beni di lei perché è lei quella che ha smantellato la mia famiglia e ha preso a forza il posto di mia madre”. Ero fuori di me dal dolore per tanto tempo sopportato in silenzio. Avevo perduto la parte più vera di me, il rapporto con Gesù, che in tante occasioni mi aveva dato la gioia e la forza di reagire con l’amore alle difficoltà e alle incomprensioni. Le altre hanno ascoltano il mio sfogo fino in fondo: partecipi, non mi hanno però giudicata per quello che dicevo. È stato un momento molto forte. Quel peso, prima insostenibile, ora lo portavamo insieme. Il fuoco dell’amore che si era spento, si è riacceso in me più forte di prima. Ho ripensato alla frase di Gesù: “Perdona settanta volte sette”. Era più difficile che vendicarsi, ma volevo con tutte le forze impegnarmi a perdonare veramente mio padre. Farlo non è stato semplice: ho avuto tanti slanci e cadute, ma tutto serve. Quando mi sono laureata non riuscivo a dirlo a mio padre: mi mancava ancora il coraggio di riavvicinarlo. Ho trovato un impiego in un’azienda. A quel punto, mia madre, con la quale ho un bel rapporto, mi ha spinta a chiamare papà per informarlo. Ho esitato, poi ho capito che era venuto il momento di fare un passo concreto verso di lui. L’ho chiamato al telefono. Lui era felice di sentirmi e orgoglioso dei risultati che avevo ottenuto. Mi ha mandato del miele e ha iniziato, da allora, a darmi regolarmente, ogni settimana, notizie di sé e della sua vita. Ero commossa nel raccogliere i frutti inaspettati del mio sofferto, piccolo gesto di perdono vero. Posato finalmente il giogo del rancore, mi sembrava che tutto, anche le minime cose fossero più luminose, più belle e più facili. Capivo che quando Gesù entra nella nostra vita la trasforma e non ci lascia più soli. Poi, mio padre è venuto a trovarmi: abbiamo parlato a lungo e lui mi ha confidato i suoi problemi e i suoi sforzi per liberarsi dalla schiavitù dell’alcool. Mi ha lasciato in consegna una somma di denaro per sostenere negli studi i miei fratelli. Quando è ripartito non saprei dire chi dei due fosse più sollevato, se lui o io, per questo rapporto tra noi che è ricominciato daccapo dando calore ad entrambi. Con la scusa dei soldi da amministrare, ho riunito i miei fratelli e tutti insieme abbiamo deciso di mettere una pietra su quello che è stato. Abbiamo progettato di fare una sorpresa a nostro padre e di andarlo a trovare a casa sua. Da quel momento abbiamo iniziato tutti a guardarlo con occhi nuovi, perché trovi in noi la forza e l’affetto che gli mancano. Ora sono veramente serena e ho ritrovato la voglia di vivere. (S. F. – Costa d’Avorio) (altro…)