Mar 29, 2016 | Parola di Vita
Come mai queste parole di Gesù ci sono così care e tornano spesso nelle Parole di vita che scegliamo per ogni mese? Forse perché sono il cuore del Vangelo. Sono quelle che il Signore ci rivolgerà quando alla fine ci troveremo davanti a Lui. Su di esse verterà l’esame più importante della vita, al quale possiamo prepararci giorno per giorno. Chiederà se abbiamo dato da mangiare e da bere a chi era affamato e assetato, se abbiamo accolto il forestiero, se abbiamo vestito il nudo, visitato l’ammalato e il carcerato… Si tratta di gesti piccoli, eppure hanno il valore dell’eternità. Niente è piccolo di ciò che è fatto per amore, di ciò che è fatto a Lui. Gesù infatti non soltanto si è reso vicino ai poveri e agli emarginati, ha guarito i malati e confortato i sofferenti, ma li ha amati di un amore di predilezione, al punto da chiamarli fratelli, da identificarsi con essi in una misteriosa solidarietà. Anche oggi Gesù continua ad essere presente in chi subisce ingiustizie e violenze, in chi è in cerca di lavoro o vive in situazione precaria, in chi è costretto a lasciare la propria patria a causa delle guerre. Quante le persone che soffrono attorno a noi per molte altre cause e implorano, anche senza parole, il nostro aiuto. Sono Gesù che ci domanda un amore concreto, capace di inventare nuove “opere di misericordia”, rispondenti ai nuovi bisogni. Nessuno è escluso. Se una persona anziana e ammalata è Gesù come non procurarle il necessario sollievo? Se insegno la lingua a un bambino immigrato, la insegno a Gesù. Se aiuto la mamma nelle pulizie di casa, aiuto Gesù. Se porto speranza a un carcerato o consolo chi è nell’afflizione o perdono chi mi ha ferito, mi rapporto con Gesù. Ed ogni volta il frutto sarà non soltanto dare gioia all’altro, ma provare noi stessi una gioia ancora grande. Donando si riceve, si avverte una pienezza interiore, ci si sente felici perché, anche se non lo sappiamo, abbiamo incontrato Gesù: l’altro, come ha scritto Chiara Lubich, è l’arco sotto il quale passare per giungere a Dio. Ella rievocava così l’impatto di questa Parola di vita fin dall’inizio della sua esperienza: «Tutto il nostro vecchio modo di concepire il prossimo e di amarlo è crollato. Se Cristo era in qualche modo in tutti, non si potevano fare discriminazioni, non si potevano avere preferenze. Sono saltati in aria i concetti umani che classificano gli uomini: connazionale o straniero, vecchio o giovane, bello o brutto, antipatico o simpatico, ricco o povero, Cristo era dietro ciascuno, Cristo era in ciascuno. E un “altro Cristo” era realmente ogni fratello (…). «Vivendo così ci siamo accorti che il prossimo era per noi la strada per arrivare a Dio. Anzi, il fratello ci è parso come un arco sotto il quale era necessario passare per incontrare Dio. «Lo si è sperimentato fin dai primi giorni. Quale unione con Dio la sera, alla preghiera, o nel raccoglimento, dopo averlo amato tutto il giorno nei fratelli! Chi ci dava quella consolazione, quell’unione interiore così nuova, così celeste, se non Cristo che viveva il “date e vi sarà dato” (Lc 6,38) del suo Vangelo? Lo avevamo amato tutto il giorno nei fratelli ed ecco che ora Lui amava noi» (1) Fabio Ciardi (1) Chiara Lubich, Scritti spirituali/4, Città Nuova, Roma 19952, p. 204-205. (altro…)
Mar 29, 2016 | Cultura, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Nuove Generazioni, Senza categoria
«A 19 anni ho lasciato la mia regione – l’Abruzzo – per studiare ingegneria aerospaziale a Pisa. È stato un percorso faticoso ma pieno di soddisfazioni: in 5 anni sono riuscito a portare a termine la specializzazione con il massimo dei voti, compreso uno stage in Germania che ha ancor più arricchito le mie competenze. Tutto ciò con il sostegno e i sacrifici della mia famiglia. Una volta laureato aspettavo con ansia di poter trovare il mio posto nel mondo del lavoro. Ma ho dovuto fare i conti con la disoccupazione giovanile, che nel nostro Paese è del 40%, e con aziende che quando va bene offrono soltanto contratti a tempo determinato o consulenze con pagamenti a scadenza trimestrale se non addirittura semestrale. Dopo qualche mese speso a inviare invano il mio curriculum, ho iniziato a pensare che forse dovevo propormi in altre applicazioni industriali. Oppure emigrare. Inaspettata, però, ricevo una proposta da un’azienda che rappresenta in Italia il principale Consorzio Europeo costruttore di missili e tecnologie per la difesa. L’idea di un vero colloquio di lavoro, in un’azienda importante come questa, era molto allettante. Dopo un positivo approccio telefonico sono stato invitato al colloquio in sede col personale tecnico. L’ambiente era giovanile e stimolante; l’azienda seria e di elevata professionalità. La progettazione di missili non rispecchiava affatto i principi in cui credo ma dentro di me cullavo la speranza che mi venisse offerto un impiego che non mi coinvolgesse nella fabbricazione di armi. Il colloquio è andato bene: dopo appena una settimana, fra i tanti candidati, sono stato richiamato per formalizzare l’assunzione. Con la precisazione che si trattava di un incarico direttamente legato alla produzione di missili. Mi sentivo con le spalle al muro. Da una parte c’era un posto fisso, con un contratto a tempo indeterminato, un buonissimo stipendio ed una sicura possibilità di carriera. Dall’altra c’era il mio credo di cittadino, ma prima di tutto di uomo, impegnato nella costruzione di una società non-violenta, basata sul rispetto dei diritti umani, sulla giustizia sociale, sul giusto equilibrio tra bisogni umani, ambiente e utilizzo delle risorse. Ho sempre creduto infatti in una società nella quale l’ambizione di alcuni non vada a calpestare la dignità dell’altro e il successo economico non sia la scusa per dimenticarsi dell’essere umano. A complicare la valutazione si aggiungevano i colleghi di studi che mi spingevano ad accettare senza badare a questi miei moralismi, ribadendomi l’incontestabile tesi che un ragazzo di 25 anni neolaureato non può permettersi, di questi tempi, di rifiutare un lavoro così vantaggioso. E con mille argomentazioni cercavano di pormi di fronte alla realtà sottolineandomi quanto fossi fortunato e… incosciente! Non ultimo, con questo lavoro avrei potuto sgravare la mia famiglia dall’impegno a continuare a mantenermi. A giocare un ruolo decisivo, oltre alla mia coscienza, sono state le persone a me più vicine: la famiglia, la mia ragazza e i Giovani per un mondo unito con i quali mi sono formato. E che hanno fatto maturare dentro di me l’idea – che diventava sempre più chiara – che per costruire una società solidale e non-violenta occorre operare concretamente, testimoniando e pagando di persona. Era il mio momento per poterlo fare. Ho risposto all’azienda che non potevo proseguire la trattativa, precisando con trasparenza i motivi. Indubbiamente non è stata una scelta facile, specie perché non avevo altre offerte tra le mani. Ma non mi sono fatto fermare da ciò. Ho continuato la mia ricerca e dopo alcune settimane, sono giunte altre proposte che mi hanno portato dove sono oggi, felicemente soddisfatto del lavoro che svolgo a Torino come ingegnere aeronautico nel settore civile». Fonte: Città Nuova Leggi anche: “Armi, no grazie” (altro…)