Feb 22, 2002 | Chiesa
La notizia dell’Udienza privata con il Papa, giovedì 28 marzo, è giunta come gradita sorpresa, proprio nella giornata in cui si ricordavano a Castel Gandolfo i 25 anni da quando, nel febbraio del 1977, si era svolto il primo Convegno di Vescovi amici del Movimento dei Focolari. Sarà presente all’udienza anche Chiara Lubich.
L’incontro è stato aperto sabato 23 febbraio, dal card. Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga e moderatore dell’annuale convegno spirituale di Vescovi amici del Movimento dei Focolari. Aveva messo in luce come nuova evangelizzazione e rinnovamento della cultura sarebbero state approfondite sulla base delle linee spirituali tracciate dalla Novo millennio ineunte ed aveva affermato: “Dobbiamo ricordarci che non si tratta solo di mettere in atto una buona collaborazione fra gli agenti pastorali, ma di vivere a tutti gli effetti quella spiritualità di comunione che rende presente Cristo e che è l’indispensabile presupposto per poter affrontare le sfide del terzo Millennio”.
E in quei giorni, infatti, gli oltre 80 Vescovi di 43 Paesi dei cinque continenti hanno vissuto un’esperienza profonda di comunione fraterna, nutrita da conversazioni di spiritualità, approfondimenti teologici e momenti di dialogo, nei quali si realizza un toccante scambio di testimonianze personali e pastorali, vissute spesso in regioni di grande sofferenza come il travagliato Medio Oriente, la Repubblica Democratica del Congo, il Burundi; zone fortemente secolarizzate come i Paesi Bassi o alcuni Paesi post-comunisti, e le lontane Isole di Wallis et Futuna nell’Oceano Pacifico.
Chiara Lubich, nel suo intervento al Convegno, domenica 24, ha enucleato dieci capisaldi della nuova evangelizzazione come emergono dall’insegnamento di Giovanni Paolo II ed ha illustrato come il Movimento dei Focolari con la sua spiritualità di comunione può offrire un particolare contributo ad attuarli. “La nuova evangelizzazione proposta dal Papa a tutta la Chiesa – ha affermato – ha dato a noi le ali”. Ed faceva notare: “L’evangelizzazione sarà ‘nuova nel suo ardore’ se, man mano procede, cresce, in chi la promuove, l’unione con Dio”. Con grande interesse i partecipanti hanno quindi seguito la presentazione di due progetti di evangelizzazione, uno in contesto metropolitano (Roma) e l’altro in terra di missione (Fontem / Cameroun).
Ogni giorno il Convegno si è aperto con una meditazione su quello che Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte ha definito il “mistero nel mistero”: Gesù crocifisso ed abbandonato, come via all’unione con Dio e come sorgente di comunione. Molto apprezzate le testimonianze di alcuni dei primi focolarini e delle prime focolarine su questo che è anche uno dei cardini della spiritualità dei Focolari.
Chiara Lubich è intervenuta nuovamente al Convegno, mercoledì 27, per un dialogo aperto con i Vescovi.
Set 6, 2001 | Chiesa
(P. Sidney Fones) – Dal 1
Giu 27, 2001 | Chiesa
Dibattito al 10° convegno teologico-pastorale promosso dai Focolari, alla presenza di 1.300 sacerdoti di 44 Paesi I movimenti, un dono per l’annuncio Un ruolo profetico di fronte alle sfide dell’unità dei cristiani e della globalizzazione Chiara Lubich: siamo al servizio della nuova evangelizzazione. Piero Coda: con i movimenti la Chiesa del futuro. Andrea Riccardi: così la diversità è ricchezza – Lorenzo Rosoli – I movimenti ecclesiali? “Rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l’attività missionaria”. Chiara Lubich, fondatrice e guida del Movimento dei Focolari, attinge alla Redemptoris missio e ad altri capisaldi del magistero di Giovanni Paolo II per tracciare l’identikit dei movimenti e delle comunità ecclesiali di fronte alle sfide dell’unità dei cristiani e della globalizzazione. Sfide storiche, rilanciate dalla cronaca di queste settimane, fra la visita del Papa in Ucraina – col suo forte appello ecumenico – e l’imminente G8 di Genova. Si inserisce in questo orizzonte il 10° Convegno teologico-pastorale internazionale promosso dal Movimento dei Focolari sul tema Unità dei cristiani e globalizzazione. Sfide dell’oggi e risposte suscitate dallo Spirito, che ha chiamato a Castelgandolfo oltre 1.300 sacerdoti – cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani – di 44 Paesi, assieme ai cardinali Dario Castrillon Hoyos e James Francis Stafford (destinatario di un messaggio del Papa del quale abbiamo parlato ieri). Un orizzonte che Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha identificato secondo le coordinate di una “svolta antropologica e storica” che pone la nuova evangelizzazione “tra un mondo globale e tante identità che si chiudono”. L’evangelizzazione sarà possibile – ha rilanciato il simposio – solo con l’apertura e la comunione, innanzitutto all’interno della Chiesa, tra la dimensione istituzionale e la carismatica e tra movimenti e nuove comunità. Nel suo intervento al Centro internazionale dei Focolari, Chiara Lubich ha riletto l’esperienza del suo movimento alla luce delle istanze della nuova evangelizzazione. “Nuova nel suo ardore se, man mano che procede, cresce in chi la promuove l’unione con Dio. Nuova nei metodi se attuata dall’intero popolo di Dio. Nuova nelle sue espressioni, se sarà conforme a ciò che lo Spirito suggerisce”. Annunciare l’amore di Dio per tutti gli uomini; formare comunità ecclesiali mature; rievangelizzare se stessi nella Parola e nella pratica dell’amore; donare la Parola annunciata e quella vissuta… “Non esiste più una società cristiana, esiste la globalizzazione con un intreccio di popoli e culture”, prosegue la Lubich citando ancora Wojtyla. In questo quadro l’evangelizzazione percorre le vie dei “dialoghi” additati dal Vaticano II: dentro la Chiesa cattolica, fra i cristiani, con le altre religioni, con gli uomini di buona volontà. “Il Movimento dei Focolari ha da 40 anni aperto tutti e quattro i dialoghi”. Presente in 182 Paesi, esso “abbraccia tutti gli stati di vita, dai bambini ai vescovi”. Ma “è soprattutto di nostri laici che il Signore si serve, come di strumenti per la nuova evangelizzazione”. I nuovi movimenti ecclesiali “costituiscono una preparazione e una recezione carismatica e dinamica, in qualche caso anche eccedente e profetica, del progetto di ecclesiologia proposto nelle sue grandi linee dal Concilio, ma in realtà ancora in via di definizione teologica e pastorale”. Una ecclesiologia di comunione che le nuove realtà ecclesiali attuano “in forma vitale”. È uno dei passi cruciali dell’intervento del teologo Piero Coda dal titolo Doni gerarchici e doni carismatici in comunione per l’edificazione e la missione della Chiesa. Una comunione – rivelata in modo sorprendente dal Giubileo – “con cui lo Spirito ringiovanisce la Chiesa e la guida nella missione”. Siamo di fronte a “un’icona appena abbozzata del futuro della Chiesa” che ha nel volto laicale uno dei tratti peculiari e decisivi: dentro la Chiesa ma anche rispetto al mondo, alla società e alla cultura d’oggi. È dunque duplice – ha spiegato Andrea Riccardi – la responsabilità dei movimenti nell’evangelizzazione, tra comunione nella Chiesa e comunicazione del Vangelo nel mondo contemporaneo. “Questi ultimi anni hanno fatto crescere la coscienza che la diversità vissuta nell’amore è una ricchezza per la Chiesa e per ogni carisma”, ha detto Riccardi. “I movimenti non sono piccole chiese ambiziose di estendersi a una vasta Chiesa. Ma sono doni che, lungo la storia del ‘900, il Signore ha fatto alla sua Chiesa. Ogni movimento ha interpretato un aspetto della vocazione della Chiesa stessa in maniera originale: ma esso rinvia per sua natura alla Chiesa. Le tante vocazioni sacerdotali che nascono nei movimenti sono un dono alla Chiesa. La testimonianza della carità verso tutti, ma soprattutto verso i più poveri, è un dono alla Chiesa per il mondo intero. La comunicazione del Vangelo che è alla base della strutturazione missionaria del carisma dei movimenti, è un dono alla Chiesa”. Lorenzo Rosoli (altro…)
Giu 27, 2001 | Chiesa
“Sviluppo della comunione tra i Movimenti ecclesiali, fra loro e con i Pastori della Chiesa, dal 1998 ad oggi”
Cari amici, sono molto contento di partecipare alla prima giornata di questo convegno promosso dal Movimento dei Focolari. Sono contento di incontrare tanti sacerdoti di tutte le parti del mondo, che sono legati al carisma del Movimento dei Focolari o ad altri Movimenti. Questi sacerdoti hanno in comune l’esperienza che rappresenta il titolo di questo convegno: i movimenti ecclesiali e la nuova evangelizzazione. Infatti coloro che sono riuniti qui -voi, cari amici- avete un contributo importante da dare proprio sulla frontiera più decisiva della vita della Chiesa nel 2000: la comunicazione del Vangelo. Sono contento di essere qui per vedervi negli occhi e per conoscere la vostra esperienza. Infatti i Movimenti e la nuove Comunità sentono sempre di più, non solo il bisogno di collaborare, ma di vedersi e essere insieme. Una settimana fa, Chiara era a Roma, a Trastevere, nella basilica di Santa Maria, dove si riunisce ogni sera la Comunità di Sant’Egidio per pregare. La preghiera è la prima opera per la Comunità in tutto il mondo, da Maputo in Mozambico a San Salvador in Centro America. E’ la prima opera in una Comunità che lavora in tanti luoghi del mondo con i più poveri, quelli che il mondo mette ai margini. La visita di Chiara rientra in una consuetudine di fraternità per cui ci si sente uniti nella diversità dei carismi, ci si sostiene, ci si accompagna. E’ lo stesso spirito con cui sono qui con voi. Perché quello che un Movimento vive è anche dell’altro Movimento. Questo avviene non per un vincolo esteriore, ma per quella comunione profonda che sta divenendo la realtà del nostro vivere. Così scopriamo che stiamo camminando nella stessa direzione, con lo stesso orientamento, anche se le vie sembrano o sono diverse. La direzione del nostro camminare viene dal fondo del nostro carisma stesso: comunicare il Vangelo. L’evangelizzazione, come si dice. I Movimenti normalmente nascono da questo: dalla condivisione di quella compassione di Gesù per le folle, stanche e malate, –come si legge nel Vangelo- per cui inviò i suoi apostoli a predicare ovunque il Vangelo del regno. I Movimenti nascono, in tempi diversi della storia, dal dono di quella passione del Signore per la gente che si fa evangelizzazione. Infatti comunicare il Vangelo è il primo gesto che compie la Comunità, che compiono gli apostoli, dopo l’effusione dello Spirito Santo in quella Pentecoste di Gerusalemme. Nel secolo trascorso, il Novecento, l’evangelizzazione è tornata ad essere la dimensione principale della vita della Chiesa non solo nei paesi mai raggiunti dal Vangelo, ma anche nelle terre di antica cristianità. Infatti si sono smarrite quelle istituzioni e quei quadri sociali attraverso cui si comunicava la fede, mentre ogni generazione che sale rappresenta una grande occasione per trovare insieme le parole del Vangelo e per aprire la propria vita alla presenza del Signore. Per questo, cari amici, oggi è giusto parlare di nuova evangelizzazione, proprio dopo questa prima Pentecoste del 2000. Ci troviamo in un mondo tanto nuovo, globalizzato, senza frontiere, ma dove riemergono –purtroppo- tanti muri. Tra il Novecento e il nuovo secolo è avvenuta una svolta antropologica e storica, per cui oggi l’evangelizzazione si pone in un modo nuovo: tra un mondo globale e tante identità che si chiudono. Ma non siamo qui solo ad affrontare un discorso sull’evangelizzazione, ma anche a chiederci quale responsabilità hanno i movimenti nell’evangelizzazione? Nel nostro programma sono poste in testa le parole di Giovanni Paolo II in quella indimenticabile Pentecoste del 1998. Le ripeto: “Più volte ho avuto modo di sottolineare come nella Chiesa non ci sia contrasto o contrapposizione tra la dimensione istituzionale e la dimensione carismatica, di cui i movimenti sono un’espressione significativa. Ambedue sono coessenziali alla costituzione divina della Chiesa…”. Non si tratta di un discorso teorico, ma di una realtà della nostra vita. Si tratta di una realtà che riguarda da vicino il modo di essere della Chiesa, che tocca da vicino l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Del resto questa è anche la realtà a cui sono particolarmente sensibili i sacerdoti che, per il loro ministero, sono a contatto –vorrei dire- con la dimensione istituzionale ma anche –come voi- sentono molto da vicino quella carismatica. I sacerdoti partecipi dei carismi dei movimenti – mi sembra- quasi vivono in una zona di frontiera che può essere, allo stesso tempo, un terreno di ricchi innesti e scambi, ma forse di qualche difficoltà. Non sempre nella lunga storia della Chiesa è stato tutto così luminoso e chiaro come in quella giornata di Pentecoste del 1998 in piazza San Pietro. Quella giornata rappresenta un punto di arrivo e di grande chiarezza teologica ed ecclesiale. Infatti credo che dobbiamo far conoscere ancora di più quel discorso del papa e riflettere su di esso. Del resto il problema del rapporto tra la dimensione istituzionale e quella carismatica è antico come la lunga storia della Chiesa. Sono tentato di percorrere –e la mia visione di storico mi spinge in questo senso- la lunga storia della Chiesa per cogliere la dinamica di questo rapporto: quasi la vicenda della coessenzialità. Ma non è il mio tema oggi. Tuttavia vorrei citarvi un episodio lontano della storia della Chiesa occidentale. Nella vita di San Benedetto, all’origine di quel grande movimento carismatico di uomini e di donne, che è stato il monachesimo occidentale (cuore dell’evangelizzazione di tanta parte dell’Europa medievale), si trova un episodio narrato da Gregorio Magno. Si tratta di una storia, dietro a cui si trova nascosta una grave difficoltà di Benedetto con un prete dal nome Fiorenzo. Un grande carismatico e un prete… Questo prete Fiorenzo prese a invidiare la buona reputazione di Benedetto e il fatto che molti venivano attratti da lui. L’invidia giunse a un punto tale che il prete gli inviò un pane avvelenato; ma l’uomo di Dio si salvò. Allora il prete prese a diffamarlo e tentarlo. Ma Dio protesse il padre dei monaci. E’ un episodio di tensione tra un ministro ordinato che non tollera il carisma sino a volerlo sopprimere e un grande carismatico. Tale tensione può avvenire anche in senso diverso, quando un’esperienza carismatica si sente, in modo prepotente e poco filiale, come se fosse tutta la Chiesa, quasi in maniera messianica… quando un’esperienza carismatica non sente con amore e venerazione non solo la dimensione ministeriale, ma anche il fatto che nella casa di Dio ci sono molte dimore (e quindi tanti modi diversi di vivere la stessa fede). Infatti vivere la coessenzialità tra la dimensione istituzionale e quella carismatica vuol dire comprendere che tutti siamo figli nella Chiesa. Dice un antico adagio armeno del quinto secolo: “Riconosciamo come nostro Padre il sacro Vangelo e come Madre la Chiesa apostolica universale”. Un grande carismatico del 1200, Francesco d’Assisi, ha espressioni molto significative a questo proposito. Sono espressioni rivelatrici della genuinità evangelica del suo carisma. Tommaso da Celano racconta, nella sua Vita del santo, che il Papa di quei tempi difficili aveva fatto un sogno prima di incontrare Francesco: “Aveva sognato infatti che la basilica del Laterano stava per crollare e che un religioso, piccolo e spregevole, la puntellava con le sue spalle perché non cadesse: ‘Ecco, pensò: questi è colui che con l’azione e la parola sosterrà la Chiesa di Cristo”. E’ un’immagine stupenda della coessenzialità del carisma con l’istituzione: quel piccolo uomo reggeva l’immensa basilica che rischiava di crollare, senza uscire dalla sua piccolezza. E’ un’immagine evocativa di una coessenzialità che diviene originale corresponsabilità. Non posso dilungarmi su questo aspetto di Francesco grande carismatico e grande figlio della Chiesa, come si vede dal suo rapporto con il papa, dalla scelta di non predicare mai contro la volontà del vescovo del luogo. Ma vorrei farvi risentire –almeno questo- alcune parole del suo testamento, scritto nello stesso anno della sua morte, il 1226: “Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri.” Il carisma francescano coinvolse talmente il mondo cristiano del Duecento spingendosi anche al di là delle frontiere della cristianità, come nell’incontro con l’islam al di fuori di una logica di contrapposizione violenta. Allora –come sappiamo- il rapporto tra islam e cristianesimo era rappresentato dal binomio guerra santa-crociata: ma Francesco percorse un’altra strada. C’è una forza comunicativa del Vangelo che si manifesta nel carisma francescano. Questa forza comunicativa del carisma vive l’unità con le istituzioni e i ministeri della Chiesa di quel tempo. Dove c’è questa unità, dove c’è questa comunione, si moltiplica la forza attrattiva e comunicativa del Vangelo del Signore. Non si tratta di un piano o di un progetto pastorale, ma di qualcosa che viene dal profondo di una Chiesa viva che respira a pieni polmoni nella larghezza di tutte le due dimensioni, senza mortificarne alcuna. La coessenzialità veramente vissuta tra carisma e istituzione riveste l’intera Chiesa di una sua forza particolare. E’ un punto su cui vorrei concludere fra un poco (non troppo) la mia riflessione. Il carisma di un laico, Francesco (che poi fu ordinato diacono), coinvolse non pochi sacerdoti, come si vede dai primi compagni di Francesco e poi nello sviluppo del movimento francescano stesso. Fin dall’inizio ci sono preti attorno all’umile Francesco e nel suo movimento. Ma soprattutto quel carisma portò il Vangelo al di là dei quadri stanchi e feudali della vita ecclesiastica nel cuore della società; e lo portò pure al di là della cristianità. E’ un’immagine che dobbiamo avere ben presente, mentre entriamo nel nuovo secolo. E’ un’immagine che era esplicita nel discorso di Giovanni Paolo II alla veglia di Pentecoste del 1998: quando carisma e istituzione vivono l’unità, la libertà nel servizio del Vangelo, l’amore nella differenza, si manifesta pienamente una forza di salvezza nella vita della Chiesa, delle comunità, dei singoli. E’ quello che mi dicono tanti sacerdoti, che sono partecipi del carisma di un movimento: si sentono più preti, più capaci di comunicare il Vangelo, più forti nella fede e più al servizio del popolo di Dio. Ma è quanto dicono vescovi e sacerdoti, che pure sono esterni al carisma di un movimento, quando lo vedono vivere bene nella Chiesa: il Vangelo parla in maniera eloquente. Ogni carisma ha la sua storia. Ognuno ha il suo valore. Sono come figli della Chiesa: tutti hanno un valore –proprio come i figli- nonostante siano più o meno sviluppati. E’ la storia degli ultimi tre/quattro anni in cui ci siamo incontrati tra tante nuove comunità e tanti nuovi movimenti: quello di scoprire il valore, anche se diverso, di ciascuna realtà suscitata dallo Spirito. Ogni movimento ha la sua storia e il suo modo di vivere la coessenzialità, la presenza dei sacerdoti nel movimento carismatico e altro. Ognuno rappresenta una ricchezza per noi tutti. Per questo la dinamica del futuro di ogni movimento non è la clericalizzazione: non si è più ecclesiali, se si è più clericalizzati. Un carisma non è un’ondata che, bene o male, deve essere assorbita. C’è un fluttuare del carisma nella vita, libero e unito, in comunione forte con la dimensione istituzionale e con altri carismi, che rappresenta una grande ricchezza. Il problema dei movimenti non è la loro clericalizzazione e il loro assorbimento. Un esempio antico di questo problema si trova nella Regola di San Benedetto (che è l’espressione del grande carisma monastico in Occidente, che ebbe una profonda forza di evangelizzazione e di umanizzazione sino dal primo Medio Evo). La Regola di san Benedetto insiste in due capitoli sui sacerdoti che volessero entrare in monastero e condividere il carisma monastico e sull’ordinazione presbiterale dei monaci. Nel primo caso, quello dei preti che entrano in monastero, Benedetto stabilisce: “Se qualcuno appartenente all’ordine sacerdotale chiedesse di essere accolto in monastero, non gli si acconsenta troppo presto. Se tuttavia insistesse assolutamente in simile richiesta, sappia che egli dovrà osservare tutta quanta la disciplina della Regola…”. Il problema è che il sacerdote, che entra a far parte della comunità, sappia che dovrà vivere approfonditamente il carisma, rappresentato dalla Regola. Vengono prima la Regola e l’abate: si vuole evitare che, perché prete, l’ordinato si consideri al di là del carisma stesso. Ma all’interno del movimento benedettino ci sono giovani che possono venire ordinati. Allora la Regola stabilisce: Se un abate volesse che gli venga ordinato un monaco o un diacono, scelga fra i suoi chi sia degno di esercitare l’ufficio sacerdotale. L’ordinato però eviti la vanità e la superbia, né ardisca fare se non ciò che gli viene comandato dall’abate, conscio di dover sottostare più degli altri alla disciplina della Regola… Quel posto che gli spetta secondo l’ingresso in monastero, lo conservi sempre, eccetto che l’ufficio dell’altare…” L’ordinato resta partecipe del carisma (conservi il suo posto di sempre!), e anzi –proprio perché prete- sappia di dover vivere il carisma ancora di più (“dover sottostare più degli altri alla disciplina della Regola”). Un sacerdote –questo è lo spirito della Regola- non deve essere meno sacerdote e, anzi perché sacerdote, deve quasi vivere di più il carisma. Il monastero non si clericalizza, ma vive, per i monaci laici e per i monaci chierici, attorno al carisma, rappresentato dalla Regola e dall’abate. Sentiamo come questa storia, quella del rapporto tra le due dimensioni della vita della Chiesa, quella dei sacerdoti nei movimenti carismatici, non sia solo la nostra, ma affondi le sue radici addirittura nel primo millennio. Risolvere in maniera unilaterale –cioè fuori dalla comunione- questa storia può significare la clericalizzazione dei movimenti oppure, d’altra parte, la loro assolutizzazione nella Chiesa, quasi in un senso di superiorità su altre esperienze o sulla stesso ministero ordinato. A questo proposito non posso non richiamare le parole del Testamento di Francesco d’Assisi: “E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri”. Dopo il Concilio Vaticano II e con Giovanni Paolo II, questa storia è giunta a un particolare punto di maturazione nella coscienza ecclesiale. Ma questa coscienza, come è stata espressa dal papa per la Pentecoste del 1998, rappresenta anche una grande responsabilità per noi tutti in questo mondo contemporaneo. In che senso si può parlare di una responsabilità? Almeno, io credo sotto due aspetti, quello della comunione nella Chiesa e quello della comunicazione del Vangelo nel mondo contemporaneo. Una lettura politica e esterna alla vita della Chiesa ha parlato talvolta quasi di una rivalità tra i movimenti, proprio a partire dalla diversità. L’esperienza che noi facciamo di dialogo, di unità, di mutuo sostegno tra i movimenti, ci porta a dire il contrario. Non vedo tutto questo, se non in qualche angolo di immaturità, talvolta iniziale di qualche esperienza. Infatti la diversità non motiva la rivalità, ma anzi aiuta ciascuno a vedere –proprio nel confronto da fratelli- la specificità del proprio carisma. Il carisma, per restare tale, non può pretendere di volere informare a sé tutta la Chiesa in maniera messianica: è quell’assolutizzazione del carisma che fa torto al dono stesso che si è ricevuto. Del resto l’ultima stagione della vita della Chiesa, proprio a partire dalla Pentecoste del 1998, è stata profondamente segnata da una crescita di collaborazione e di simpatia tra i movimenti. Lo dico perché ho partecipato a questa stagione, assieme a Chiara Lubich, che si è sviluppata in tanti incontri tra i responsabili dei movimenti stessi. Ma questa stagione ha significato anche una crescita di amicizia nelle situazioni concrete tra la gente dei diversi movimenti. Questa amicizia era viva già da anni. Mi diceva un’amica di Sant’Egidio, che lavora in un ospedale, come in una situazione di grande tensione e disumanità, si fosse ritrovata spontaneamente con altri colleghi che erano legati a vari movimenti. Gli appuntamenti della vita, la testimonianza del Vangelo e della carità, avvicinano quelli che partecipano a spiritualità differenti. La stessa esperienza si verifica nell’incontro con vescovi, parroci, sacerdoti che fanno parte di un movimento o che si riferiscono alla spiritualità di una nuova comunità. Una spiritualità vissuta educa al gusto per i diversi carismi nella vita della Chiesa, proprio nel senso di una accoglienza e di uno stimolo di carisma anche che non appartengono alla propria spiritualità. Ho tante esperienze concrete a questo proposito, che mi confermano in questa consapevolezza. Ho visto sacerdoti del Movimento dei Focolari impegnati a far sì che nascesse una Comunità di Sant’Egidio lì dov’erano e a desiderarlo in maniera molto fattiva, come se si trattasse dell’esperienza a cui loro stessi erano legati. Perché ? Mi sembra che questi ultimi anni abbiano fatto crescere la coscienza che la diversità vissuta nell’amore è una ricchezza per la Chiesa e per ogni carisma. E’ una coscienza diffusa tra i Movimenti, ma anche tra quelli che non partecipano direttamente alla spiritualità e alla vita dei movimenti. Si sono visti tanti incontri, tante giornate, animate dai movimenti ecclesiali e imperniate sull’unità tra di loro, che hanno fatto la gioia di numerosi vescovi. In alcune situazioni sono stati i vescovi stessi a promuoverle. Non si tratta di un coordinamento o di un consiglio dei movimenti. Ma è qualcosa di più profondo. Infatti a che giova il coordinamento, se non c’è una coscienza profonda di unità, se non c’è un amore alla base che rende consapevoli come l’uno sia indispensabile all’altro? I coordinamenti, le consulte, i consigli non sono una novità nell’organizzazione della Chiesa. Ma qui c’è qualcosa di più: è la vera recezione del Concilio, come Giovanni Paolo II l’ha proposta: quella di una Chiesa, ricca di carismi, orgogliosa dei doni dello Spirito Santo, ma unita e coesa nell’amore. I movimenti non sono piccole Chiese, ambiziose di estendersi a una vasta Chiesa. Ma sono doni che, lungo la storia del Novecento, il Signore ha fatto alla sua Chiesa. Ogni movimento ha interpretato un aspetto della vocazione della Chiesa stessa in una maniera originale: ma esso rinvia per sua natura alla Chiesa. Le tante vocazioni sacerdotali, che nascono nei movimenti, sono un dono alla Chiesa. La testimonianza della carità verso tutti, ma soprattutto verso i più poveri, è un dono alla Chiesa per il mondo intero. La comunicazione del Vangelo che è alla base della strutturazione missionaria del carisma dei movimenti, è un dono alla Chiesa. Infatti i movimenti sono –per utilizzare il termine di Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte-, scuole di comunione. La stessa vita comune, la partecipazione alla missione, tra sacerdoti e laici nello spirito di un carisma, è una scuola di comunione. Se i movimenti nascono da un carisma e da un fondatore, si muovono –almeno per quelli del Novecento- nella dinamica stessa della comunione. E’ quella comunione che fonda metodi originali, semplici, diretti, di comunicare il Vangelo o di viverlo in maniera attrattiva per tante donne e uomini, nostri contemporanei. Si manifesta una pienezza di vita che abbraccia i movimenti grandi e i meno grandi, le istituzioni della Chiesa, i ministri ordinati, le Chiese locali, le parrocchie, sino alle comunità religiose. Questa pienezza di vita è eloquente comunicativa di per sé: parla della bellezza della vita cristiana, comunica il suo fondamento evangelico, coinvolge gli altri. L’unità tra i movimenti non è la costruzione di un fronte tra le forze più attive della Chiesa. Non è così. Sarebbe riduttivo. Essere uniti non vuol dire parlare la stessa lingua e fare le stesse cose. E’ un’idea riduttiva di unità. C’è una comunione profonda, che diventa solidarietà nella diversità e che rappresenta una ricchezza nella missione. Dopo la Pentecoste, quella prima Pentecoste di Gerusalemme, gli apostoli non si misero a parlare la stessa lingua, ma li udivano parlare in lingue diverse. Eppure la loro unità era profonda, come si manifestò poi con il discorso di Pietro. Dopo la Pentecoste del 1998, dopo il discorso di Giovanni Paolo II, non siamo chiamati a fare un fronte unico: sarebbe troppo poco. Ma siamo chiamati a amarci in profondità, a sentirci una cosa sola, a cogliere che abbiamo una missione in comune nel mondo, a sostenerci, ma anche a essere noi stessi, per fare della nostra libertà un’occasione per vivere secondo lo Spirito, per servire il Vangelo, per edificare la Chiesa. Dico a ogni nostra comunità, specie a quelle più isolate e in luoghi difficili del mondo: non sarete mai sole! Sono stato nel marzo di quest’anno in Mozambico, dove ho visitato una buona parte delle 50 e più comunità che sono sorte in quel paese, dopo la pace, firmata a Sant’Egidio e mediata da noi, tra il governo e la guerriglia che ha posto fine ad una guerra durata 15 anni e che ha prodotto un milione di morti. A tutti ho detto: non sarete mai soli! Ma mi sono reso conto che anche un movimento non è mai solo: è bello scoprire che qualcuno cammina accanto a sé. Gesù mandò i suoi discepoli due a due nel primo viaggio missionario dei Vangeli. Gregorio Magno si chiede perché Gesù non avesse mandato i discepoli da soli. La sua risposta è che, camminando l’uno a fianco dell’altro, comunicando insieme il Vangelo, guarendo gli ammalati, potessero testimoniare allo stesso tempo l’amore scambievole tra di loro. Da quell’amore li avrebbero riconosciuti. In quell’amore tra i due, c’era Gesù con loro. La loro missione fu efficace, tanto che Gesù vedeva Satana cadere dal cielo e li accolse, al loro ritorno, pieno di gioia. Quei due discepoli sono il segno di un cammino che stiamo facendo insieme tra diversi movimenti: la missione che compiamo, lungo strade differenti, in modi differenti, sarà più attrattiva e convincente, perché si fonda sull’unità. E’ quell’unità che avrà anche la capacità di abbattere tante barriere, di allargare le frontiere, di costruire ponti invece che muri, nella vita della Chiesa e nel mondo. Penso all’ecumenismo, in cui molti movimenti hanno un compito particolare. Penso al dialogo della vita, con gli altri mondi religiosi. Penso alla guerra o alle situazioni di tensioni. L’esperienza che noi possiamo fare, dopo la Pentecoste del 1998, è quella di vivere in maniera profonda l’unità. Scriveva un grande vescovo del II secolo, Ignazio di Antiochia, morto martire: “…quando infatti vi riunite, crollano le forze di Satana e i suoi flagelli si dissolvono nella concordia che vi insegna la fede”. C’è una forza di amore che nasce dall’unità vissuta nel profondo. Sono convinto che sta nascendo una nuova forza capace di far cadere tanti muri e divisioni: perché uno spostamento anche di pochi centimetri in profondità provoca sulla superficie un terremoto. E’ quella scossa profonda di amore e di Vangelo di cui il nostro mondo contemporaneo ha bisogno. ANDREA RICCARDI (altro…)
Giu 27, 2001 | Chiesa, Cultura
1. Nella Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II dà parola, con gioia e gratitudine, alla sorpresa venuta dal Giubileo (cf. n. 12): la bellezza di un “volto pluriforme della Chiesa”, “un inizio, un’icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara” (n. 40). Aspetto rilevante e peculiare di quest’icona è stata senz’altro l’epifania della comunione tra i “doni gerarchici” e i “doni carismatici”, con cui lo Spirito ringiovanisce la Chiesa e la guida nella missione. Mio compito è dire qualcosa su questa comunione, sul suo significato teologico, sulla sua attualità storica, sulla sua portata pratica: questi, i tre momenti in cui articolo la presente conversazione, soffermandomi soprattutto sul primo. Il significato teologico 2. Che nella vita della Chiesa, sin dall’origine, i carismi abbiano giocato un ruolo singolare e insostituibile, è un dato di fatto più che una deduzione teologica. Il nuovo è che col Concilio Vaticano II la Chiesa, “sotto la guida dello Spirito, ha riscoperto come costitutiva di sé la dimensione carismatica”. Giungendo a dire, con Giovanni Paolo II, che la dimensione sacramentale-gerarchica e quella carismatica “sono co-essenziali alla costituzione divina della Chiesa fondata da Gesù”. Si tratta di un evento di autocoscienza ecclesiale, di un contributo fondamentale alla formulazione concreta della risposta che il Concilio ha inteso dare alla domanda: Chiesa, che cosa dici di te stessa ? Ma come va inteso, teologicamente, il significato della co-essenzialità e complementarietà di doni gerarchici e doni carismatici ? Si noti, per iniziare, che la dizione scelta – doni gerarchici e doni carismatici – riprende il testo di Lumen gentium 4, che attribuisce all’azione dell’unico Spirito di Cristo tanto gli uni quanto gli altri. Con ciò si vuole escludere in partenza ogni riduttiva e fuorviante contrapposizione tra istituzione e carisma. Non solo i carismi ma anche il ministero ordinato, infatti, sono doni dello Spirito, con natura e finalità diverse, è vero, ma sgorganti da un unico principio e indirizzati a un unico fine: rendere attuale la presenza di Cristo nella storia, facendo crescere l’umanità sino alla sua piena maturità, nell’attesa fervente della sua parusia alla fine dei tempi. Come, dunque, in questa prospettiva, doni gerarchici e doni carismatici sono entrambi costitutivi della Chiesa? E quale il loro rapporto? L’ecclesiologia trinitaria del Vaticano II, da un lato, e la fioritura dei nuovi movimenti e comunità ecclesiali (o di esperienze ad essi assimilabili), dall’altro, hanno offerto alla teologia, negli ultimi anni, un quadro nuovo per impostare con pertinenza, in fedeltà alla Parola della rivelazione e nel solco della tradizione, la questione. Mi limito a richiamare tre contributi di peso, che aprono la strada a ulteriori, promettenti approfondimenti. Il primo è quello offerto dal Card. J. Ratzinger al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali del ’98. In esso, attraverso un’analisi storico-teologica attenta, soprattutto, alla missione della Chiesa nel suo effettivo realizzarsi, Ratzinger individua nell’apostolicità la collocazione teologica dei doni carismatici e dei movimenti di rinnovamento ecclesiale cui essi danno origine lungo il corso della storia. La tesi centrale è che la traditio dell’evento Cristo, realizzata nella sua forma originaria dagli apostoli, si rinnova e si continua non solo attraverso la struttura gerarchica e sacramentale della Chiesa – che assicura: 1) il legame con la sua origine e norma cristologica, 2) la guida autorevole della comunità locale, 3) l’interpretazione autentica della rivelazione -, ma anche attraverso l’imprevedibile irruzione dello Spirito che suscita sempre nuove forme di adesione, esperienza ed espansione del vangelo, caratterizzate dalla radicalità e dall’universalità. Questa interpretazione – sottolinea Ratzinger – implica un ampliamento e un approfondimento del concetto di apostolicità, e una comprensione specifica del ministero petrino non solo come centro e principio visibile della comunione tra le Chiese locali, ma anche come garante del raggio universale di azione dei grandi carismi. Un secondo e complementare contributo di carattere sistematico, attento alla forma trinitaria della Chiesa e alla sua vocazione alla santità, è quello offerto da H. Urs von Balthasar, e, sulla sua scia, sviluppato da altri Autori. Semplificando al massimo, secondo von Balthasar si può dire che attraverso i doni gerarchici lo Spirito Santo garantisce oggettivamente la presenza di Gesù che si dona, attraverso la Parola e i Sacramenti, alla Chiesa generandola e nutrendola come sua sposa (cf. Ef 5,25ss). Si pensi, per un esempio che rappresenta al contempo il culmine di tale donarsi di Gesù alla Chiesa in tutta la sua realtà oggettiva, all’Eucaristia. Attraverso i doni carismatici, d’altro canto, lo stesso Spirito dischiude e plasma la soggettività dei credenti – e cioè le loro menti e i loro cuori, la loro intera esistenza – perché si facciano capaci di accogliere, penetrare e portare a piena efficacia di vita e di santità il dono oggettivo di Cristo che ricevono dalla Parola e dai Sacramenti. Essi vengono donati, normalmente, a una singola persona, ma in modo tale da “essere condivisi da altri e così vengono conservati nel tempo come una preziosa e viva eredità, che genera una particolare affinità spirituale tra le persone”, a vantaggio della Chiesa intera (ChL 24). Proprio per questo il carisma oggettivo e quello soggettivo – così li definisce von Balthasar – sono co-essenziali nell’identità e nella missione della Chiesa: in quanto esprimono e realizzano il rapporto sponsale che sussiste tra Cristo e la sua Chiesa. Cristo continua a donarsi nello Spirito alla Chiesa sua Sposa attraverso la Parola e i Sacramenti custoditi e amministrati dai pastori; e la Chiesa Sposa, plasmata dai doni carismatici che riceve dallo stesso Spirito, accoglie, genera e fa crescere in sé il Cristo che le è donato dalla Parola e dai Sacramenti, vivendo il comandamento nuovo dell’amore, vincolo della perfezione (cf. Col 3,14; Rm 13,10). Nel primo caso, il dono è garantito oggettivamente dalla fedeltà di Cristo alla Chiesa (per cui, ad esempio, Gesù Eucaristia si fa presente indipendentemente dalla santità soggettiva del ministro); nel secondo, lo Spirito Santo è ricevuto e accolto solo quando chi è chiamato liberamente e gratuitamente a ricevere il carisma soggettivo, a viverlo e a trasmetterlo, si dispone a lasciarsi configurare esistenzialmente a Cristo crocifisso, unico mediatore dell’effusione dello Spirito Santo alla Chiesa. Il carisma oggettivo e quello soggettivo, perciò, sono costitutivamente indirizzati l’uno verso l’altro. I membri della gerarchia, configurati sacramentalmente a Cristo, sono chiamati a essere nel ministero segni e strumenti di Lui – agiscono in persona Christi Capitis Ecclesiae (cf PO 2; LG 10) -, perché Egli possa donare Sé alla Chiesa sua sposa. In quanto pastori, hanno anche la grazia e il dovere di accogliere con gratitudine e di discernere la genuinità dei doni carismatici, nonché di regolarne l’ordinato uso a seconda del loro specifico ambito di competenza: quello della Chiesa universale per il Papa, e quello della Chiesa particolare per i Vescovi uniti in comunione collegiale con Lui (cf. LG 12). Inoltre, in quanto membri della Chiesa sposa, i ministri ordinati sono chiamati a vivere con quella soggettività aperta e accogliente che riceve in sé il dono di Cristo, e possono quindi essere aiutati dai doni carismatici a vivere il loro essere cristiani, e anche ad esercitare il loro ministero, secondo il cuore e la mente di Cristo. Come ha detto Giovanni Paolo II, “i carismi dello Spirito sempre creano delle affinità, destinate a essere per ciascuno il sostegno per il suo compito oggettivo nella Chiesa”. Da parte loro, “i veri carismi – sono sempre parole del Papa – non possono che tendere all’incontro con Cristo nei Sacramenti”, e a vivere una “fiduciosa obbedienza ai Vescovi, successori degli Apostoli, in comunione con il Successore di Pietro”, secondo la parola di Gesù: “chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10,16). Non bisogna infine dimenticare quella tipicità dei doni carismatici che K. Rahner ha brillantemente identificato come l’elemento “dinamico” della Chiesa: “Il fattore carismatico – egli scrive, illustrando la dialettica positiva di crescita e di apertura alla novità dello Spirito che così s’instaura nella vita ecclesiale – è essenzialmente nuovo e sempre sorprendente. Naturalmente si trova anche in una misteriosa continuità interiore con quanto nella Chiesa precede, si inserisce nel suo Spirito e nel quadro dell’elemento istituzionale. È tuttavia nuovo e inderivabile, e al primo sguardo non si vede subito che tutto rimane nell’insieme della Chiesa. Spesso, infatti, è attraverso il nuovo che ci si accorge come il quadro della Chiesa fin dall’inizio sia più ampio di quanto non si fosse supposto fino a quel determinato momento”. Von Balthasar, dal canto suo, sottolinea che un autentico carisma è come un lampo dal cielo, destinato a illuminare un punto unico e originale della volontà di Dio per la Chiesa in un dato tempo, manifestando un nuovo tipo di conformità a Cristo ispirato dallo Spirito Santo, e pertanto una nuova illustrazione della Rivelazione. Dinamicità e novità sono dunque caratteristiche peculiari dei doni carismatici “sia come espressione dell’assoluta libertà dello Spirito che li elargisce, sia come risposta alle esigenze molteplici della storia della Chiesa” (così la Christifideles laici, 24), contribuendo in modo determinante – come insegna la Dei Verbum – al tendere incessante della Chiesa verso la pienezza della verità divina, “finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (n. 8). L’attualità storica della riscoperta dei doni carismatici 3. Quest’ultima annotazione circa la dinamicità, la novità e la tensione escatologica che i doni carismatici imprimono alla vita della Chiesa introduce nel secondo momento della nostra riflessione: l’attualità della riscoperta dei doni carismatici nell’ecclesiologia e nella vita della Chiesa, in quest’alba del terzo millennio. Alla luce dei precedenti pensieri e soprattutto della stagione ecclesiale che stiamo vivendo, viene spontaneo domandarsi: perché proprio oggi questa riscoperta? Perché oggi proprio questi carismi? In altre parole: che cosa lo Spirito vuol dire alla Chiesa (cf. Ap 2,7), non solo attraverso i singoli carismi, ma anche grazie a questa nuova e imprevedibile stagione carismatica con le peculiari caratteristiche che, pur nella pluriformità dei doni, sembrano contraddistinguerla ? Evidentemente, non è facile rispondere a queste domande, e potrebbe addirittura sembrare pretenzioso, o per lo meno ozioso, il volersele porre. Penso invece che non solo sia possibile, ma anche importante tentare almeno un inizio di risposta. Mi sembra si possa dire che c’è qualcosa di provvidenziale nel fatto che proprio oggi la Chiesa riscopra la sua costitutiva dimensione carismatica e che proprio questi carismi lo Spirito Santo oggi le abbia dispensato. Forse, tutto questo accade perché la Chiesa possa diventare più pienamente, in questo decisivo trapasso epocale della storia umana, ciò che è per grazia e per vocazione: “sacramento in Cristo, e cioè segno e strumento, dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” (LG 1). In una parola: segno testimoniale credibile e strumento efficace e concreto dell’amore di Dio e della comunione universale. Se ciò che lo Spirito ha voluto dire alla Chiesa, attraverso il Concilio Vaticano II, è l’idea-forza della comunione, allora si comprende perché – come ha scritto Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte – sia indispensabile una spiritualità della comunione che faccia sì che la Chiesa diventi esistenzialmente ciò che già è sacramentalmente. In forme diverse eppure convergenti, mi pare si possa dire che le nuove realtà ecclesiali sono sorte per attuare in forma vitale l’ecclesiologia di comunione proposta dal magistero del Vaticano II. Ognuna di queste realtà guardi dentro di sé, alla sua scaturigine e alle forme storico-pratiche in cui si è realizzata, e riconoscerà questa ispirazione. I nuovi movimenti ecclesiali e le esperienze affini costituiscono una preparazione e una recezione carismatica e dinamica, in qualche caso anche eccedente e profetica, del progetto di ecclesiologia proposto nelle sue grandi linee dal Concilio, ma in realtà ancora in via di definizione teologica e pastorale. Una simile interpretazione – è opportuno sottolinearlo – rompe decisamente con il pregiudizio, purtroppo ancora diffuso, secondo cui le nuove realtà ecclesiali sono espressioni di un “conservatorismo” o “neo-classicismo” cattolico in controtendenza rispetto alla spinta innovatrice e riformatrice del Vaticano II. Non nego che qualche intemperanza, ingenuità e immaturità abbiano potuto offrire il destro a questo pregiudizio. Ma complessivamente, esaminando da vicino e senza preconcetti le ispirazioni, i frutti e le intenzionalità dei singoli carismi si può arguire che ci troviamo di fronte a provvidenziali e robuste premesse spirituali per un balzo in avanti, nell’attuazione della figura e della missione della Chiesa, conforme alla linea di marcia disegnata dal Vaticano II. Anche se si tratta soltanto di abbozzo e promessa, affidati alla nostra fedele e creativa responsabilità. Mi limito a richiamare tre tratti (certamente altri se ne potrebbero menzionare) di quest’icona appena abbozzata del futuro della Chiesa che lo Spirito sembra preparare. Il primo concerne la forma della comunione come realizzativa e manifestativa dell’essere Chiesa. Il Card. Ratzinger ha sottolineato che la tripartizione, nel popolo di Dio, tra sacerdoti, religiosi e laici è fondamentale: e come tale il Concilio la ripropone. Ma – e questo è decisivo! – in un quadro ecclesiologico nuovo: quello, appunto, della fondamentale eguale dignità cristiana e della comunione e reciproca comunicazione. Ora, mi domando: abbiamo sperimentato e riflettuto a sufficienza su che cosa può significare spostare il punto di vista dall’identità dei singoli stati di vita e vocazioni al punto di vista della relazione tra essi? Quando Sant’Agostino scoprì, nel De Trinitate, che la grammatica della relazione è almeno altrettanto essenziale quanto la grammatica della sostanza per dire il Dio di Gesù Cristo, la teologia e la filosofia hanno conosciuto una decisiva svolta. Non sarà che qualcosa di analogo, a livello ecclesiologico, può e deve venire dall’esperienza della comunione ? Non è un caso che le nuove realtà ecclesiali abbiano risposto ante litteram a quella che Giovanni Paolo II ha definito “la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo”: “fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione” (n. 43). In questa prospettiva, il Card. Ratzinger ha sottolineato che il vescovo (e io aggiungerei anche, per la sua parte, il presbitero) “pur rimanendo rappresentante del sacramento e quindi responsabile della presenza della fede, sarà meno monarca, più fratello in una scuola dove vi è un solo Maestro e un solo Padre. Penso che l’espressione ‘episcopato monarchico’ per molto tempo sia stata intesa in un modo scorretto”. Un secondo, decisivo tratto della Chiesa del futuro concerne il suo volto laicale. Il che non significa mettere in ombra la sua struttura sacramentale e gerarchica, anzi: significa piuttosto metterne in rilievo l’autentico significato e servizio. Quello di offrire i mezzi di grazia necessari perché Cristo, principio e forma dell’umanità nuova, faccia dei cristiani il sale e il lievito del mondo. E’ in questa essenziale finalità che si gioca il rapporto tra doni gerarchici e doni carismatici a favore del popolo di Dio, per il bene e la salvezza di tutti gli uomini. L’immagine di Chiesa conosciuta dal secondo millennio – in una forma che nella sua sostanza è certo stata provvidenziale per quei tempi – è stata caratterizzata, soprattutto in Occidente, come hanno mostrato gli studi di Y. Congar e H. De Lubac, dalla dimensione gerarchica, istituzionale, normativa e razionale. L’ecclesiologia del Vaticano II e la recezione carismatica dei movimenti ecclesiali, senza negare la precedente, richiama alla dimensione comunionale, misterica, pneumatica e agapica. Questo fatto è decisivo non solo per la vita ad intra della comunità ecclesiale – chiamata a convertirsi all’esperienza trinitaria dei rapporti tra i suoi membri -, ma anche per il suo proporsi ad extra nella società e nella cultura. Si tratta di realizzare una specie di rivoluzione copernicana, in cui un laicato impegnato seriamente nel cammino della vocazione universale alla santità, grazie alla matura comunione con i pastori della Chiesa nell’esperienza adulta e gioiosa della Parola e dei divini Misteri, possa testimoniare Cristo, salvezza e pienezza dell’umano, nella molteplicità complessa degli aeropaghi del nostro tempo. E ciò esige – ecco un terzo tratto – che emerga nella Chiesa il principio della sua identità mariana. Non può non colpire e far riflettere il fatto che il profilarsi della Chiesa comunione e del compito della nuova evangelizzazione, e insieme l’originale stagione carismatica che ha incorniciato il Vaticano II, sia stata preparata e seguita dal costante rendersi presente di Maria: attraverso la proclamazione dei dogmi dell’Immacolata e dell’Assunta, le molteplici sue apparizioni, i grandi carismi a forte impronta mariana. Tutto ciò, penso, racchiude una precisa indicazione ecclesiologica, che l’esperienza dei movimenti ecclesiali può aiutare a decifrare e a incarnare. Guardare a Maria, anzi far rivivere Maria in noi – direbbe il Montfort – affinché in noi e fra noi viva il Cristo Risorto, non significa forse primato dell’essere sul fare, dell’affidamento al disegno divino sul progetto umano, della vita sull’idea, del servizio sulle tante forme palesi o occulte di potere, della Parola di Dio e della contemplazione sull’azione che solo da esse può promanare, della misericordia sul giudizio, dell’attesa paziente sulla fretta dell’imposizione, dello sguardo universale sulla cura asfittica del particolare, dell’amore reciproco come premessa di ogni altra premessa per essere ed essere riconosciuti discepoli di Cristo su ogni altra cosa ? Non è forse la Chiesa del fiat e del magnificat, dello stabat ai piedi del Crocifisso e del fuoco di Pentecoste quella che il mondo, e noi stessi, attendiamo ? Conseguenze pratiche nella vita e nella missione della Chiesa 4. Mi avvio alla conclusione, accennando soltanto al terzo momento preannunciato: quali conseguenze pratiche dalla riscoperta della co-essenzialità di doni gerarchici e carismatici nella vita e nella missione della Chiesa ? La risposta la dobbiamo lasciare allo Spirito Santo, ma al tempo stesso la dobbiamo accogliere attraverso un rigoroso e profetico discernimento comunitario, che veda attori tutti i membri della Chiesa in ascolto dei segni dei tempi. La Pentecoste ’98, l’evento giubilare, le indicazioni sapienti, lungimiranti e incisive di Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte indicano la strada. Mi contento di esplicitare quelle che mi sembrano tre direzioni in cui va esercitata oggi, da parte della Chiesa, una disarmata apertura nei confronti dell’azione dello Spirito Santo: perché la grazia grande che ci è stata posta tra le mani – con ciò intendo non solo i carismi dei singoli movimenti, ma anche l’icona di Chiesa proposta dal Vaticano II e stagliata, pur coi suoi limiti, dal Giubileo -, possa attuarsi secondo i modi, i tempi e i fini pensati dall’amore di Dio. La prima apertura è quella cui sono chiamati i pastori nei confronti dei nuovi carismi. Apertura reale e sincera a ciò che lo Spirito vuol dire alla Chiesa, al suo modo profondo e insieme concreto di essere e di agire oggi: per evitare di strumentalizzare le nuove energie, secondo schemi di comprensione ecclesiale e di azione pastorale preconfezionati, e perciò irrimediabilmente non all’altezza dell’oggi di Dio. La seconda apertura è quella cui sono chiamate le nuove realtà ecclesiali le une verso le altre e, prima di tutto, verso la Chiesa di cui sono figlie. Se il novum dello Spirito è oggi la comunione come principio e fine della nuova evangelizzazione, sarebbe peccato imperdonabile se esse per prime non la vivessero in quella forma cui ciascuna è originalmente chiamata. Ritrovare sé fuori di sé: questa è la legge della comunione e della missione. La terza apertura è quella all’azione dello Spirito che spinge – se ve ne fosse bisogno, e ce n’è bisogno – a distogliere tutti lo sguardo da noi stessi, dalle nostre belle esperienze e dai nostri acuti problemi, così come dai nostri ideali e dalle nostre frustrazioni di Chiesa, per “prendere il largo” (Lc 5,4), per “uscire anche noi dall’accampamento e andare verso di Lui”, che “per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città” (cf. Eb 13,12-13). Solo se attraverseremo, come Chiesa e come singoli, la porta della città in cui abitiamo comodi e protetti, scopriremo con stupore la realtà della promessa: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. (…) Il popolo che Io stesso ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43,19.21). PIERO CODA (altro…)
Giu 27, 2001 | Chiesa
Con Maria e con i baraccati ROMA. Padre Michaell Marmann, successore del fondatore, presenta l’Opera di Schoenstatt nata in Germania nel 1914. Emerge un’opera di impronta mariana, missionaria sin dalle origini. Come in Maria, “il movimento non può esistere e portare frutti, se non abbandonati a Dio e alla sua guida amorosa”. Un’ascesi che si concretizza nei punti attorno ai quali gravita il movimento: “i “santuari”, cioè i centri tipici di Schoenstatt, luoghi, dove “ci sentiamo bene” come gli apostoli sul Tabor, e da dove sempre di nuovo veniamo inviati come gli apostoli del cenacolo”. “Uno dei doni del santuario – continua – è la grazia della trasformazione interiore in cristiani autentici e maturi. Altro dono: la grazia della fecondità apostolica, un dono che, nel quadro difficile della testimonianza della fede in Europa, si rivela particolarmente promettente. “Dio agisce. Ma ci vuole la risposta dell’uomo: “niente senza di Te (Dio), niente senza di noi””. Schoenstatt è oggi attivo in 40 Paesi, specie in Germania e in America Latina. Abbraccia famiglie, giovani, sacerdoti, religiosi e religiose. Un’altra storia “Ero un cristiano in crisi ai tempi della contestazione del ’68 con una frustrazione profonda alla ricerca dello sbocco di una vita cristiana più autentica. Così Stefano Gennarini, laico, di professione fisico, catechista itinerante da trent’anni, inizia la sua testimonianza. Poi l’impatto con la catechesi del Cammino neo-catecumenale, in una parrocchia di Roma: “Mi ha svelato la mia incapacità di darmi a Dio completamente, bloccato dalla paura di perdere la mia vita”. Poi il “sì” senza riserve. “Dio ha cominciato ad agire nella mia vita”. Stefano traccia le origini del Cammino iniziato da Kiko Arguello e da Carmen Hernandez tra baraccati, ladri e sbandati. “Non si potevano fare discorsi. Si poteva solo condividere la loro condizione e annunciare perdono e amore: “Dio ti ama così come sei””. Di qui la scoperta del Vangelo che va dritto al cuore della gente e cambia la vita. Un’esperienza presto trapiantata nelle parrocchie per desiderio dell’allora arcivescovo di Madrid, Casimiro Morcello. Nascono nuove comunità capaci di attirare anche i lontani. “Il segreto? Il segno dell’unità: che tutti siano uno perché il mondo creda”. Un dato che fa riflettere: oggi il Cammino è diffuso in 90 Paesi. (altro…)