Dic 26, 2019 | Sociale
Firmato un accordo di partnership tra la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura) e New Humanity, la ONG internazionale del Movimento di Focolari. Obiettivo: continuare a lavorare insieme per sconfiggere la fame nel mondo entro il 2030.

©FAO/Giulio Napolitano.
Un accordo che rafforza una collaborazione già in atto, un documento che conferma il comune impegno per far sparire la fame e la povertà dal nostro pianeta. E’ questo il senso dell’accordo di partnership firmato il 19 dicembre scorso a Roma tra la FAO, la più grande agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura, e New Humanity, la ONG internazionale del Movimento di Focolari. L’accordo è indirizzato alla promozione, in particolare con le nuove generazioni, di azioni, attività, iniziative per realizzare il progetto Fame Zero, secondo degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile. “Grazie per il lavoro che avete già svolto con noi come New Humanity collaborando per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), per Fame Zero e per il futuro del pianeta e del mondo”. Con queste parole la Dott.ssa Yasmina Bouziane, Direttrice dell’Ufficio per la Comunicazione Istituzionale della FAO, ha accolto nella sede della FAO di Roma il dott. Marco Desalvo, Presidente della ONG New Humanity insieme ad una piccola delegazione di giovani dei Focolari. “Sappiamo che abbiamo solo altri 10 anni per raggiungere gli Obiettivi. Ciò che voi fate con i giovani di ogni estrazione è estremamente importante, perché i giovani sono l’innovazione, il cambiamento, sono quelli che si aspettano le informazioni, senza di esse non possiamo arrivare alle azioni concrete che vogliamo fare”. “Quello che firmiamo oggi – ha aggiunto – è un’altra conferma che è solo in partnership che possiamo andare avanti. Già apprezziamo molto ciò che il Movimento dei Focolari e New Humanity hanno fatto con le proprie iniziative, quindi, insieme, penso che possiamo sicuramente andare avanti e sostenere veramente i Paesi e l’intero pianeta per raggiungere gli Obiettivi dell’Agenda 2030” . “Grazie. Anche per noi, questa firma significa molto – ha detto Marco Desalvo parlando dell’accordo – Penso alle migliaia di giovani che stanno già lavorando per il progetto Fame Zero. Ma questo è anche un nuovo impegno per noi. Pensavo ieri che Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari ha iniziato andando verso coloro che avevano fame, a Trento, pensando di risolvere il problema sociale della città. Ora siamo in tutto il mondo e vogliamo continuare e raggiungere l’obiettivo”. La collaborazione tra la FAO e New Humanity è già iniziata da qualche tempo. Raccogliendo l’invito della FAO ai ragazzi e giovani ad impegnarsi in particolare per Fame Zero, molte sono state le iniziative alle quali si è dato vita. Un gruppo di ragazzi di 11 Paesi ha elaborato la “Carta d’Impegno” (http://www.teens4unity.org/cosa-facciamo/famezero/) dei Ragazzi per l’Unità verso Fame Zero. Ogni anno in maggio, la “Settimana Mondo Unito” e la staffetta mondiale “Run4Unity” sono dedicate anche alla sensibilizzazione e azione sul fronte Fame Zero. La rivista bimestrale Teens ha una rubrica dedicata a queste tematiche Fame Zero (https://www.cittanuova.it/riviste/9772499790212/).- Nel giugno 2018 sono state accolte nella sede FAO di Roma 630 giovani ragazze (dai 9 ai 14 anni) del Movimento dei Focolari (https://www.focolare.org/news/2018/06/26/prime-cittadine-famezero/). A fronte del loro impegno per questo obiettivo è stato consegnato a ciascuna un passaporto e sono divenute “le prime cittadine Fame Zero”. Recentemente è stato realizzato un libro (http://new-humanity.org/it/pdf/italiano/diritto-allo-sviluppo/214-new-humanity-e-fao-libro-generazione-fame-zero-ragazzi-in-cammino-verso-un-mondo-senza-fame/file.html), frutto della collaborazione tra FAO e New Humanity per i ragazzi (12-14 anni) dal titolo “Generazione #FameZero. Ragazzi in cammino verso un mondo senza fame”. In esso si propone, partendo da testimonianza vere, un nuovo stile di vita che possa concorrere a realizzare un mondo unito e, quindi, vincere anche la fame e la povertà. Una copia è stata consegnata anche alla Dott.ssa Bouziane “Custodirò questo libro, grazie!”. Ha continuato affermando che, come giovani e ragazzi, devono valutare insieme quali sono le priorità sulle quali si vogliono impegnare. Di esse, hanno spiegato i giovani presenti, si parlerà anche nei prossimi incontri internazionali di formazione per le nuove generazioni a Trento ad inizio 2020 e nei Cantieri dei Ragazzi per l’unità in Kenya e Costa d’Avorio. “Il nostro impegno – ha concluso la Dott.ssa Bouziane – è lavorare con voi sulle vostre priorità per poter raggiungere Fame Zero, perché la nostra priorità è raggiungere Fame Zero con voi, insieme”.
Stefania Tanesini
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Dic 15, 2019 | Sociale
Il fenomeno delle migrazioni forzate verso l’Europa resta uno dei temi irrisolti del dibattito tra i paesi UE. Troppo divisi da interessi particolari per individuare una politica comune, ispirata a principi di solidarietà e sostenibilità. Ne abbiamo parlato con Pasquale Ferrara, ambasciatore italiano in Algeria. Secondo l’UNHCR*, dal 1 gennaio al 21 ottobre 2019 sono sbarcati via mare sulle coste Europee di Italia, Malta, Cipro, Spagna e Grecia 75.522 migranti. A questi si aggiungono i 16.322 arrivati via terra in Grecia e Spagna per un totale di 91.844 persone, di cui 9.270 in Italia, 2.738 a Malta, 1.183 a Cipro, 25.191 in Spagna, 53.462 in Grecia. Dati che seguono un trend in calo e archiviano la fase d’emergenza, ma non bastano all’Europa per avviare un dialogo allargato e costruttivo sul tema: la prospettiva della creazione di un sistema europeo di gestione dei flussi resta assai remota, e in generale il confronto a livello istituzionale non tiene conto della prospettiva dei paesi africani. Ad Algeri abbiamo raggiunto l’Ambasciatore italiano, Pasquale Ferrara: (2° PARTE) Si dice da tempo che è necessario strutturare una collaborazione con i paesi del Nord Africa, ma anche con quelli di transito. Buoni propositi ma pochi fatti concreti…. Per passare ai fatti concreti bisogna prendere atto della realtà, del fatto che i paesi africani, soprattutto quelli del Nord, che consideriamo paesi di transito sono essi stessi paesi di destinazione dell’emigrazione. L’Egitto ospita oltre 200 mila rifugiati sul proprio territorio, mentre in tutta Europa nel 2018 sono arrivate poco più di 120 mila persone. Le poche centinaia di migranti irregolari che arrivano dall’Algeria sono tutti algerini, non subsahariani che transitano dall’Algeria, perché spesso questi migranti restano qui. Inoltre questi paesi non accettano programmi tendenti a creare “hotspot” (centri di raccolta) per i migranti subsahariani. Qui non funziona il modello della Turchia, alla quale l’Unione Europea ha dato 6 miliardi di euro per gestire campi dove ospitare oltre 4 milioni di profughi siriani e non solo. Con la Turchia l’operazione funzionò perché c’era la guerra in Siria e per gli interessi strategici della Turchia. In Africa i fenomeni sono molto diversi bisogna trovare altri modi. Quali potrebbero essere le forme di collaborazione? Non servono collaborazioni asimmetriche ma partenariati alla pari. Dobbiamo considerare che non siamo solo noi europei ad avere il problema migratorio, e dunque è necessario rispettare questi paesi con le loro esigenze interne, anche in fatto di migrazione. Solo poi si può cercare insieme di gestire il fenomeno. Per esempio esistono già accordi di cooperazione fra l’Italia e l’Algeria che risalgono al 2000 ed al 2009 e che funzionano bene. Cosa prevedono? La gestione congiunta del fenomeno migratorio in termini di lotta allo sfruttamento e alla tratta di esseri umani, alla criminalità trans-nazionale che utilizza il fenomeno per finanziarsi, al pericolo di infiltrazioni terroristiche. Vi sono anche disposizioni per il rimpatrio concordato, ordinato e dignitoso dei migranti irregolari. Si parla del fatto che i paesi occidentali debbano sostenere quelli africani per creare condizioni di vita migliori, tali da scoraggiare le partenze. Quanto è praticabile questa strada? Nelle condizioni attuali dell’economia e della cultura politica internazionale lo vedo poco praticabile e tutto sommato poco efficace. In primo luogo, parliamo già di un miliardo di africani: nessun “piano Marshall” europeo o mondiale potrebbe affrontare tali dimensioni demografiche. Tra l’altro l’Africa è molto diversificata, ci sono paesi in condizioni di sviluppo avanzate: il Ghana ha un tasso di innovazione tecnologica superiore a vari paesi sviluppati; l’Angola è un paese ricchissimo di risorse che sta tentando di riorganizzare la sua struttura economica in modo più partecipativo. Abbiamo dei leader, come il neo premio Nobel per la pace, il Primo Ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed Ali, che ha 42 anni e guarda alle nuove generazioni. Ha già fatto piantare 350 milioni di alberi in un programma di riforestazione mondiale chiamato “Trillion Tree Campaign”. L’Uganda vive una fase di forte sviluppo. Il problema piuttosto sono le disparità economiche, drammatiche e ingiuste, e qui l’Occidente può intervenire aiutando a migliorare la governance di questi paesi, perché sia più inclusiva e partecipata. Ma ricordiamoci che sono gli stessi problemi di polarizzazione socio-economica che abbiamo in Europa: purtroppo, non possiamo dare molte lezioni in questo campo. Nelle riflessioni sul fenomeno migratorio a livello istituzionale in primo piano c’è la dimensione economica, mentre viene trascurata quella umana. Cosa significa mettere l’uomo al centro del problema migratorio? Dietro ogni migrante c’è una storia, una famiglia, un percorso accidentato, la fatica di procurarsi il denaro e forse debiti con organizzazioni criminali. Certamente non possiamo ammettere l’immigrazione irregolare perché tutto deve svolgersi nel rispetto delle leggi, ma dare valore alla dimensione umana significa tenere conto di questo passato e non vedere in queste persone dei numeri che arrivano a bordo di barconi o via terra. Mi ha profondamente colpito la storia di quel ragazzo di 14 anni, proveniente dal Mali, trovato in fondo al mare con una pagella cucita dentro il giubbotto, con ottimi voti. Quella è una storia che ci lascia senza parole. E dietro c’è una tragedia familiare, umana, un tessuto sociale lacerato. Consiglio il bel libro di Cristina Cattaneo, “Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo”. Non dimentichiamo però anche le storie della nostra Marina militare – in particolare quella della comandante Catia Pellegrino – che ha salvato migliaia di naufraghi. Persone, volti, eventi reali. * https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean (leggi la 1° parte dell’intervista)
A cura di Claudia Di Lorenzi
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Dic 1, 2019 | Sociale
Che visione si ha dal Nord Africa del fenomeno migratorio verso l’Europa? In che modo è possibile mettere l’uomo al centro, passando così da una visione puramente economica a quella umana delle migrazioni? Intervista a Pasquale Ferrara, ambasciatore italiano ad Algeri. Secondo l’UNHCR*, dal 1 gennaio al 21 ottobre 2019 sono sbarcati via mare sulle coste Europee di Italia, Malta, Cipro, Spagna e Grecia 75.522 migranti. A questi si aggiungono i 16.322 arrivati via terra in Grecia e Spagna per un totale di 91.844 persone, di cui 9.270 in Italia, 2.738 a Malta, 1.183 a Cipro, 25.191 in Spagna, 53.462 in Grecia. Dati che seguono un trend in calo e archiviano la fase d’emergenza, ma non bastano all’Europa per avviare un dialogo allargato e costruttivo sul tema: la prospettiva della creazione di un sistema europeo di gestione dei flussi resta assai remota, e in generale il confronto a livello istituzionale non tiene conto della prospettiva dei paesi africani. Ad Algeri abbiamo raggiunto l’Ambasciatore italiano, Pasquale Ferrara: Ambasciatore, che visione si ha dal Nord Africa del fenomeno delle migrazioni verso l’Europa? Visto dall’Africa si tratta di un fenomeno storico e strutturale, soprattutto infra-africano, perché la stragrande maggioranza dei movimenti di migranti e rifugiati avviene tra paesi africani: oltre 20 milioni di persone vivono in un paese diverso da quello di origine. Altra cosa è la migrazione verso l’Europa, che teme un afflusso incontrollato. Qui il quadro entro cui leggere il fenomeno è solo parzialmente quello del differenziale di sviluppo. In Europa spesso si fa la distinzione fra rifugiati politici e migranti economici. Ma spesso i migranti economici africani sono il risultato di una pessima gestione politica degli stati, perché c’è un problema di governance, di appropriazione delle risorse da parte di oligarchie, di inclusione sociale. Quindi in qualche modo anch’essi sono qualificabili come rifugiati politici. Al di là delle migrazioni irregolari, per ciò che riguarda l’Africa del nord, bisognerebbe ripristinare nel Mediterraneo quella mobilità circolare delle popolazioni che nella storia si è sempre osservata. Significa per esempio la possibilità di venire in Europa per un periodo di studio o lavoro, per poi tornare nel paese di origine. Al momento questi spostamenti sono subordinati alla concessione del visto, che però è molto difficile ottenere per via dei molti e necessari controlli. Per molti rappresenta un dramma, per cui la tentazione di chi riceve il visto, anche se si tratta di persone di buone intenzioni, è spesso quella di non tornare nel paese di origine. Il visto va mantenuto, ma, nell’ottica di favorire la mobilità circolare, è necessario pensare ad un sistema più strutturato. C’è poi un altro fattore che dà impulso alla migrazione, ed è la differenza nella qualità dei servizi che una società offre: quelli sanitari e quelli previdenziali in genere, la cui scarsa disponibilità e qualità influisce anch’essa, assieme ad altri fattori come la violenza endemica, sul senso di sicurezza, o quelli scolastici per cui anche chi non è in una situazione di miseria assoluta tenta di approdare in Europa per dare un’educazione migliore ai figli. Quindi dovremmo investire di più nella formazione delle classi dirigenti, dei professionisti, degli educatori. Ad Algeri, pur con numeri ridotti, stiamo cercando di farlo, aumentando le borse di studio per i giovani algerini che vanno in Italia a studiare musica, arte, restauro, come investimento per il loro futuro professionale. C’è una responsabilità dell’Occidente nell’impoverimento dei Paesi africani? “Sarei molto prudente. Questa è una narrazione che fa comodo a certe oligarchie afro-africane per scaricare le proprie responsabilità anche rispetto ad una governance che è dubbia nella sua legittimazione e nei suoi risultati. Il periodo coloniale ha segnato molto l’Africa e le responsabilità passate dell’Occidente sono accertate, ma dalla decolonizzazione sono trascorsi almeno 50 anni ed è difficile imputare all’Occidente le problematiche delle società africane di oggi. La qualità della governance ha un grande peso. Piuttosto oggi in Africa c’è una presenza forte della Cina con programmi legati alle risorse naturali e minerali in quasi tutti i paesi. La Cina considera l’Africa un grande mercato, ma lo scambio è asimmetrico a favore di Pechino. Tuttavia, per compensare questo squilibrio la Cina realizza a proprie spese opere infrastrutturali, stadi, teatri, centri culturali per miliardi di dollari. Nella gestione del fenomeno l’Europa fa passi incerti. Mancano politiche comunitarie e sembra che il principio di responsabilità condivisa non scaldi i cuori in Europa.. La scelta della solidarietà non può dipendere dalla buona volontà dei singoli governi e dal variare degli orientamenti degli stessi. La questione migratoria deve diventare una competenza esclusiva dell’Unione europea in quanto tale, come avviene per le politiche commerciali per le quali gli stati dell’UE hanno dato a Bruxelles la responsabilità esclusiva di negoziare accordi con paesi extraeuropei. Oggi invece da un lato, per una questione di sovranità nazionale, gli stati vogliono mantenere il controllo sulle migrazioni e sulle frontiere, ed è comprensibile. Dall’altro accusano di inerzia l’Europa a cui però non danno le competenze necessarie per operare efficacemente. Ma passare a questa dimensione decisiva mi sembra improbabile ora, considerando la resistenza che questo tema incontra rispetto alle politiche interne. * https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean Fine 1° PARTE
A cura di Claudia Di Lorenzi
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Ott 23, 2019 | Sociale
Uscire dalla dipendenza dell’azzardo è possibile, ma non solo. La storia di Christian Rigor, filippino, che nella Fazenda da Esperança ha anche ritrovato Dio e il senso più profondo della propria esistenza. Quando pensiamo all’idea di “puntare in alto” ci vengono in mente mete diverse. Obiettivi di lavoro, progetti personali, sogni per cui lottare. Quelle “sfide” spesso totalizzanti a cui votiamo buona parte della nostra vita. Ma ci sono mete e mete, dal valore soggettivo o collettivo. Mete che per raggiungerle devi fare un percorso di crescita, metterti in discussione, sviluppare un senso di responsabilità per la collettività, aprire i tuoi orizzonti a mondi lontani. E mete che portano al ripiegamento su se stessi, che chiudono la persona all’interno dei propri interessi personali, che la isolano e talvolta diventano distruttive. Gli obiettivi che ci poniamo segnano il percorso della nostra vita. Ma cambiare strada si può. Lo sa bene Christian Rigor, 30enne delle Filippine. Un’infanzia serena in una famiglia benestante che gli ha assicurato studi universitari e specializzazioni in Europa. Un vita sociale piena da ragazzo, vissuta però col desiderio di “far soldi” facilmente, senza fatica. Una leggerezza che gli è stata fatale al primo ingresso in un casinò. È iniziato lì il suo percorso di dipendenza dal gioco d’azzardo, a 20 anni. Un ragazzino inebriato dalle prime vincite, presto vittima dell’esaltazione del gioco, intrappolato nel bisogno di recuperare le inevitabili perdite. Un capitolo buio della sua vita vissuto puntando alle mete sbagliate, lungo il quale ha perso amici, lavori, fidanzata, e la fiducia dei suoi familiari. Anche il bene per se stesso, dall’alto di un cornicione al 24° piano di un palazzo che ha segnato il punto più basso della sua esistenza. La svolta è arrivata quando, incoraggiato dalla madre, decide di entrare nella Fazenda da Esperança – un progetto con strutture diffuse in diversi paesi del mondo e che porta nel proprio DNA la spiritualità dell’unità, a cui i suoi fondatori si sono ispirati – per seguire un programma di riabilitazione dedicato alle persone che soffrono di vari tipi di dipendenze. “Nel corso del programma ho imparato a guardare oltre me stesso, oltre i miei egoistici e superficiali desideri mondani, a vivere per uno scopo superiore. Ho imparato a mirare in alto e ho trovato Dio… È così che ho imparato ad amare, Dio e gli altri, in tutto ciò che faccio nel momento presente, anche quando è difficile o doloroso”. Nella Fazenda da Esperança la vita è scandita secondo tre dimensioni: quella spirituale, quella comunitaria e quella lavorativa. Ognuna è occasione di maturazione personale. “Come cattolico, ho imparato ad approfondire il mio rapporto personale con Dio, ad ascoltare e vivere la sua Parola, a cercare l’unità con Lui nella Santa Messa, e a pregare come si parla ad un amico”. La vita comunitaria gli ha insegnato che “per amare pienamente Dio ho bisogno di amare le persone intorno a me, e vedere Gesù in loro”. Lo ha allenato ad andare al di là delle differenze per servire ogni fratello. A condividere il cibo, dare ascolto ai compagni tristi, sbrigare faccende domestiche. Nel lavoro, faticoso o ordinario, Christian ha imparato a dare il meglio di sé, “non importa quanto difficile, fisicamente impegnativo, noioso, sporco o sgradevole sia”. Lungo il percorso di recupero viene chiamato a fare da coordinatore ai suoi compagni. “E’ stato difficile per me modulare gentilezza e fermezza, soprattutto durante i litigi. Una volta sono stato accusato ingiustamente di un furto, non mi sentivo amato. Volevo arrendermi ma poi ho deciso di restare perché volevo guarire dalla dipendenza ed essere una persona nuova. Mi sono immerso nell’amare ogni momento, nonostante il giudizio altrui. Ho chiesto aiuto a Dio e l’ho sentito ancora più vicino”. Oggi Christian affronta la sfida della vita al di fuori del contesto protetto della Fazenda, e di fronte alle tentazioni del gioco d’azzardo trova rifugio in Dio. In effetti ha scoperto che la felicità autentica sta nel puntare ad altre mete: “Mi sono reso conto che trovo la felicità quando amo Dio, quando lo sento presente nella preghiera, nelle persone che incontro, nelle attività che svolgo, quando amo nel momento presente. Per puntare in alto non serve fare grandi cose, basta farle con amore. Questo è oggi il mio stile di vita”.
Claudia Di Lorenzi
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Ott 17, 2019 | Sociale
Nel 2016 la provincia di Esmeraldas, già povera, ha subito gravi danni a causa di un forte terremoto. AMU e il Movimento dei Focolari si sono attivati per i primi soccorsi e ora per un progetto di ricostruzione che coinvolga la popolazione e dia nuova speranza dal punto di vita economico e produttivo, ma anche sociale e comunitario. https://www.youtube.com/watch?v=e7vF6CuwkmY (altro…)
Ago 2, 2019 | Sociale
Nel giugno scorso la Duma, il Parlamento russo, ha invitato membri dei Parlamenti ed esperti per un confronto sullo sviluppo dei sistemi parlamentari. Letizia De Torre, presidente del MPPU, ha partecipato. “È importante camminare insieme a chi nel mondo, in qualsiasi modo, cerca un cambiamento. Tutti noi, come singoli e come popoli, siamo chiamati all’unità e dobbiamo far venire alla luce ogni passo positivo”. È questa la prima impressione a caldo di Letizia De Torre, già deputato al Parlamento italiano e Presidente del Centro internazionale del Movimento politico per l’unità (MPPU) che dal 30 giugno al 3 luglio scorso ha partecipato al Forum: Development Of Parliamentarism, sullo sviluppo dei sistemi parlamentari. Ha proposto una co-governance, cioè l’idea di una corresponsabilità tra le istituzioni e la società civile nel governo delle città e nelle relazioni internazionali. Un’idea che era al centro del convegno tenutosi nel gennaio scorso a Castelgandolfo (Roma, Italia), riproposta a diversi livelli e in diversi Paesi e che e avrà un secondo confronto ad alto livello in Brasile nel 2021.
Come è arrivata a Mosca CO-Governance? Il Segretario Generale e l’Advisor della IAO (Interparliamentary Assembly on Orthodoxy), – rete di parlamentari ortodossi, anche russi, con cui collaboriamo – sono intervenuti a Roma, all’evento “CO-Governance 2019“. Hanno trovato interessante l’idea e hanno fatto in modo che il Mppu venisse invitato al Forum. Devo dire che solo quando sono arrivata a Mosca ho capito veramente il perché. Infatti ci si può sorprendere: il sistema istituzionale russo viene definito con espressioni quali: “democrazia controllata”, “centralismo”, “ ambivalenza tra modernizzazione e tradizionalismo”, mentre per la co-governancecomporta corresponsabilità, partecipazione diffusa, relazioni innovative tra politici e cittadini… Infatti, ed è sintomatico del cambiamento d’epoca che stiamo vivendo. Alla politica è richiesto un cambiamento. I cittadini non hanno più fiducia e Internet ci ha catapultati in un mondo diverso dalla rigidità dei palazzi della politica. Molti parlamentari cercano strade nuove e CO-Governance esprime l’idea di una relazione intensa tra i politici e i cittadini, di una corresponsabilità di governo a tutti i livelli, senza paura per questo tempo così complesso. Come è stata accolta la vostra proposta?
L’idea della collaborazione sta maturando in tutte le società e anche la dichiarazione finale del Forum va in questa direzione. Ma ciò che è stato accolto con sorpresa è la logica politica che sta sotto: “Agisci verso l’altro Stato, verso ogni ‘altro da te’, come vorresti che fosse fatto a te.” Questo atteggiamento rivoluziona la politica, le conferisce il nuovo ruolo necessario oggi: quello di facilitatore e catalizzatore della collaborazione tra tutti. Cosa si porta via il Mppu da questa presenza ufficiale in Russia? Ho avvertito prima di tutto un cambiamento a livello personale. Il popolo russo è meraviglioso, l’accoglienza attenta; Mosca è bellissima, ricca di storia, efficiente, non te la puoi togliere dal cuore. In questo senso è facile sentirsi popoli fratelli. Ma avvicinare il sistema politico di un altro Paese è altra cosa. Sono “atterrata” in una cultura politica diversissima e avevo paura di non capirla. Alle prime difficoltà mi sono trovata a un bivio: distinguermi oppure mettere in atto “il metodo” che un giorno mi ha affascinato: ho fatto consapevolmente la scelta di amare la Russia nella stessa misura in cui amo il mio Paese. Non ami il tuo Paese perché è perfetto: lo ami e basta; godi e soffri con lui e per lui nella buona e nella cattiva sorte. È così che ho cominciato a comprendere la Russia di oggi, a guardare il mondo dal suo punto di vista, anche a dispiacermi dei giudizi negativi che riceve, spesso strumentali nella corsa alla supremazia geopolitica. Ho apprezzato l’intento di “soft power” di questo Forum, con cui mi pare che la Russia cerchi di conquistare la fiducia di altri Stati, avvicinandoli con più dignità e rispetto. Mi sono ritrovata più aperta ad accogliere, ad esempio, la volontà di unità tra le due Coree della deputata Nordcoreana; l’impegno a cercare “partnership” e non dipendenza di un parlamentare del Ghana; la speranza della delegazione siriana; la domanda del parlamentare libanese “Ma perché ci ammazziamo?”, che concludeva con la forza che veniva dalla sua fede ortodossa: “Dio non vuole questo!”.
Stefania Tanesini
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