Movimento dei Focolari
Corea: un ospite di eccezione alla Sung Sim Dang

Corea: un ospite di eccezione alla Sung Sim Dang

Il 24 gennaio Moon Jae-in, Presidente della Repubblica di Corea, ha fatto visita alla Panetteria Sung Sim Dang che aderisce al progetto Economia di Comunione. Per un imprenditore la visita del Presidente della Repubblica nella propria azienda è un evento a dir poco eccezionale, ma se la visita avviene proprio nel giorno del suo compleanno, ancora di più!  È quello che è successo a Daejeon ad Amata Kim e Fedes Im, imprenditori dell’Economia di Comunione (Edc) coreani della nota Panetteria Sumg Sim Dang.   Moon Jae-in, presidente della Corea del Sud dal maggio 2017 noto in occidente per esser riuscito a dare il via al processo di pace con la Corea del Nord dopo quasi 70 anni di guerra fredda, ha festeggiato il suo compleanno alla Sung Sim Dang con una magnifica torta ed ha potuto conoscerne da vicino la storia e la realtà. Il suo post su Instagram ha raccolto in poche ore oltre 76.000 like. Interessante il suo commento alla foto: “Sono stato sorpreso oggi di festeggiare il mio compleanno al panificio Sung Sim Dang di Daejeon. Durante la guerra del 1950 mio padre e il fondatore della panetteria (padre di Fedes ndr) erano sulla stessa nave di evacuazione, la Victoria, per fuggire dal Nord Corea. È per noi oggi molto caro e prezioso ricordare questo momento di storia. Il giorno del mio compleanno è un giorno come un altro ma oggi mi ricarico di nuova forza per gli auguri di molti. Grazie!” L’evento ha avuto una grossa eco sui media, anche per il grande valore – riconosciuto universalmente – che l’ azienda Edc Sung Sim Dang rappresenta per l’intera città di Daejeon. Clicca qui per vedere le immagini video dei momenti salienti della visita. Fonte:   www.edc-online.org

Antonella Ferrucci

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Migranti: oltre l’assistenzialismo

Migranti: oltre l’assistenzialismo

A Trieste (Italia) storie di accoglienza nel quotidiano. Il racconto di chi la vive in prima persona. “Insieme a Caritas e al Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) ci occupiamo soprattutto di famiglie di migranti e profughi con i loro bambini, ospiti presso una struttura di prima accoglienza nella nostra città, Trieste, e in provincia. Da tre anni, ogni settimana, con continuità, abbiamo attivato delle azioni concrete: un gruppetto di noi insegna italiano alle mamme in modo da far loro completare i corsi di studio per aiutarle ad affrontare meglio la quotidianità; altri giocano con i bambini e li seguono nei compiti. Sono passate dal centro ormai tante famiglie e con quasi tutte è rimasto un rapporto, anche dopo il loro trasferimento in altre case. In collaborazione, poi, con AFN – Associazione Famiglie Nuove, abbiamo avviato un progetto, autofinanziato da alcune persone della comunità, per aiutare in particolare una famiglia di nazionalità curda in difficoltà che, dopo due anni di sostegno, ora ha raggiunto la sua autonomia, permettendo loro di abitare in un appartamento in affitto grazie al lavoro che ha finalmente adesso il padre. Con altri piccoli progetti stiamo sostenendo le esigenze di altre famiglie, facendo in modo che le mamme possano seguire dei corsi di specializzazione per un possibile lavoro e i bambini possano integrarsi nelle varie attività con i loro compagni, per esempio nelle attività sportive. Li seguiamo nelle visite e cure mediche, nella ricerca della casa, abbiamo trovato alcuni lavoretti per le mamme, abbiamo potuto iscrivere un papà alla scuola guida e oggi lavora guidando i camion presso una ditta del porto. Con l’aiuto di alcune famiglie abbiamo potuto far partecipare ad una “vacanza famiglie” anche una mamma vedova africana con due bambini, che ne aveva necessità. Cerchiamo di vivere con loro momenti di vita quotidiana come i compleanni, le gite ai parchi la domenica, una gita in barca, il capodanno, il carnevale ma anche momenti di preghiera come in occasione del Ramadam con chi è di religione musulmana. Domenica 25 novembre 2018 abbiamo voluto rispondere concretamente all’appello di Papa Francesco che ha indetto la giornata mondiale dei poveri: “Questo povero grida e il Signore lo ascolta” e invitava così ogni cristiano e le varie comunità ad ascoltare questo grido e a cercare di offrire risposte con gesti concreti. Aggiungeva: “Affinché questo grido non cada invano”. Abbiamo pensato di organizzare così un pranzo – denominato “Festa dell’Amicizia” – all’insegna della condivisione con persone in difficoltà: rifugiati, profughi, disoccupati, poveri della nostra città. Si è riusciti a coinvolgere anche la nostra comunità dei Focolari chiedendo un aiuto concreto sia per il pranzo che per l’aiuto in sala e anche agli amici stessi che sono stati invitati è stato richiesto, per chi poteva e disponeva di una cucina, di contribuire con un pugno di cibo tipico dei loro paesi di provenienza. Eravamo un’ottantina: dal Camerun, Nigeria, Egitto, Tunisia, Russia, Pakistan, Kurdistan, Kossovo. Con nostra sorpresa, per la Caritas stiamo diventando un punto di riferimento, un “progetto” che va oltre l’assistenzialismo. Ci chiamano per condividere programmi, progetti e, in alcune occasioni anche per cercare soluzioni. Ci sembra siano rimasti coinvolti da questo nostro modo di fare accoglienza che, conclusa la fase di emergenza, punta alla reciprocità. Sentiamo che, in mezzo a questo caos, dove ciascuno magari non trova un punto di riferimento valoriale, quale quello dell’accogliere gli ultimi, non possiamo fermarci ma dobbiamo continuare a dare speranza”.

Paola Torelli Mosca, a nome del gruppo accoglienza migranti Trieste

Fonte: www.focolaritalia.it (altro…)

Japay, sveglia!

A La Colmena, in Paraguay, Alejo, della comunità dei Focolari, trasmette attraverso la musica la passione per l’ideale della fraternità. «Japay, nella lingua guaranì, significa “sveglia!”» ci spiega Alejo Rolon. La Colmena, dove abita e lavora come insegnante di musica in un prestigioso collegio, è una città del dipartimento di Paraguarí, 130 km da Asunción, capitale del Paraguay, proprio nel cuore dell’America Latina. Da alcuni anni ha dato vita ad una interessantissima esperienza con oltre un centinaio di giovani che coinvolge in una serie di concerti pop. Dal palcoscenico, il messaggio che vola sulle note è un invito a costruire una società più fraterna e solidale. Il guaranì è una lingua di antichissima origine, parlata soprattutto in Paraguay, e riconosciuta nel 2011 come lingua ufficiale, insieme allo spagnolo, al termine di un processo legislativo molto complesso, durato decenni. «Japay, “sveglia!”, è per me una parola-simbolo, che indica l’atteggiamento che dovremmo avere nei confronti della vita. Il mio obiettivo è quello di rendere più consapevoli tutti, ma in primo luogo i giovani, che dobbiamo svegliarci e prendere l’iniziativa, perché il cambiamento che vogliamo vedere nella nostra città e nella società comincia da noi. Ogni iniziativa, anche piccola, in questa direzione può essere alla base di un nuovo modo di vivere. Questa è la sfida di Japay». In un momento estremamente delicato per il Paese sudamericano, alle prese con la necessità di una svolta per combattere la corruzione dilagante, la criminalità, la povertà endemica, la disuguaglianza sociale, la crisi economica, cosa propone concretamente Alejo con le sue canzoni? Ce lo spiega lui stesso: «La nostra filosofia è questa: dobbiamo cambiare mentalità. Ad esempio, nei testi che cantiamo proponiamo di vivere onestamente, anziché rubare o praticare la corruzione, una piaga purtroppo molto diffusa; di praticare una cittadinanza attiva, anziché l’arte dell’arrangiarsi, ognuno per conto proprio; di abbandonare la mentalità rassegnata del “così è sempre stato” e andare alle origini della nostra cultura salvando la sua parte migliore: l’intraprendenza, la creatività, la generosità nei confronti di chi ci vive accanto, il coraggio di affrontare i limiti, la capacità di convivere armoniosamente tra persone diverse. Il nostro è davvero, come dice la Costituzione del Paraguay, “un Paese multiculturale e bilingue”, ricco di tradizioni e valori. Ma ci sono problemi e ferite profonde, anche recenti. Lavoriamo sul potenziale delle persone, facendo leva sui loro sentimenti più veri». Alejo trasmette con la musica quello che ha ricevuto a sua volta dal carisma dell’unità: «Japay per me – spiega – ha anche un altro significato: JA (Jesùs Abandonado) e PAY (Paraguay). Nei problemi della mia gente e della società riconosco un volto sofferente di Gesù sulla croce: è per Lui che ho dato vita a quest’esperienza. E chissà dove ci porterà».

Chiara Favotti

Vedi anche japayparaguay.org e www.youtube.com/watch?v=wqByefcq1Yc (altro…)

Rifugiati: l’accoglienza prima del pane

Rifugiati: l’accoglienza prima del pane

In dialogo con Liliane Mugombozi, giornalista congolese, del focolare di Nairobi. Lavora presso il Jesuit Refugee Service della capitale keniota: “I migranti africani? La maggior parte di loro non va in Europa, ma si sposta nel continente africano”. “Per i media internazionali l’Africa è il continente dell’esodo di massa, ma questa non è la realtà. I migranti si muovono soprattutto dentro il continente. Tra il 2015 e il 2017 in Africa si sono spostati quasi 19 milioni di persone”. Liliane Mugombozi parla con cognizione di causa di questo fenomeno poco raccontato ma che lei conosce a fondo non solo per la professione giornalistica che esercita da molti anni, ma soprattutto per esperienza diretta. Da due anni e mezzo lavora al JRS (Jesuit Refugee Service), il Servizio per i rifugiati gestito dai Padri Gesuiti a Nairobi (Kenya).    “Dal settembre 2017 più di mezzo milione di rifugiati vive in Kenya. Vengono soprattutto dalla Regione dei Grandi Laghi, dal Corno d’Africa e dall’Africa Centrale, ma anche dal Myanmar, dall’Afghanistan, ecc. . La maggior parte vive nei campi profughi di Dadaab e Kakuma; circa 64.000 rifugiati risiedono a Nairobi”. Racconta che nel dicembre scorso hanno organizzato un workshop per 48 ragazzi rifugiati, provenienti da tanti paesi africani: dal Sud Sudan alla Somalia. Lo scopo era guardare insieme alla loro situazione di rifugiati e offrire strumenti per affrontare le sfide di tutti i giorni: dai diritti umani alle difficoltà culturali. ‘Quando vi guardo – ho detto loro – non vedo dei rifugiati, vedo il futuro di questo continente, vedo il futuro del mondo. Tutti voi avete sperimentato la sofferenza, chi meglio di voi potrà costruire delle istituzioni forti e giuste?’ ”. “Dal primo momento in cui sono arrivata al JRS di Nairobi, dove mi occupo degli studenti delle scuole secondarie e degli universitari che possono studiare grazie a borse di studio, avevo intuito che il mio servizio richiedeva una grande flessibilità e di andare oltre le mansioni tecniche. Mi sono sentita chiamata a condividere il dolore che c’è dietro ogni storia, per incontrare davvero la persona. Ho capito che la chiave era costruire rapporti veri, di reciprocità con tutti. A contatto con tanta speranza e altrettanto dolore Liliane ha capito che occorreva fare attenzione a non cedere alla tentazione di confondere la persona con il suo bisogno: “Una tentazione pericolosa che mi avrebbe chiuso il cuore ad un incontro vero con i ragazzi, le loro famiglie, gli insegnanti, con chiunque”. Anche la comunità dei Focolari in Kenya, soprattutto a Nairobi, ha collaborato con i Padri Gesuiti. Ha organizzato raccolte di vestiario, viveri e generi di prima necessità, libri, giocattoli e indumenti presso amici, famigliari e nelle parrocchie. “Abbiamo capito che prima di tutto dovevamo superare i pregiudizi, conoscere le storie dei rifugiati per creare una cultura dell’incontro, dell’accoglienza. Siamo coscienti che ci sono problemi che non possiamo risolvere, ma possiamo farci fratelli e sorelle di tutti loro. Certo, siamo ancora alle prime armi, ma crediamo che con Gesù fra noi, troveremo la risposta a questo grido di Gesù sulla croce oggi, in questa nostra terra”.

Stefania Tanesini

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Confine Messico-USA/2: il lungo viaggio

Christopher Jiménez, della comunità dei Focolari del Messico, racconta il lungo esodo dei migranti partiti dall’Honduras e da settimane ai piedi del muro che li separa dagli Stati Uniti. «Il 12 ottobre, una chiamata a raccolta attraverso i social network – afferma Christopher Jiménez, che collabora con l’associazione Promozione Integrale della Persona (PIP) – è diventata in breve tempo virale. Più di mille honduregni sono partiti da San Pedro Sula», città che per anni, fino al 2014, è stata considerata tra le più violente del pianeta. Tutto il mondo, da allora, sta assistendo a quello che da molti è stato definito un esodo biblico. «Una settimana dopo, mentre la carovana oltrepassava il confine con il Messico, numerose organizzazioni della società civile e agenzie governative si erano già messe in campo per fornire assistenza umanitaria, prima in Chiapas, quindi a Oaxaca e Veracruz». A quel punto, non si trattava più di un singolo contingente di migranti, ma di diversi gruppi che procedevano a ondate, a piedi o con mezzi di fortuna, attraversando il Paese per migliaia di chilometri. «A fine ottobre – prosegue Christopher – quando era ormai imminente il loro arrivo a Città del Messico, nella capitale, a causa di un grave problema idrico, era stata programmata l’interruzione dell’acqua potabile per oltre quattro milioni di abitanti. Eppure, nonostante i disagi e il freddo intenso, molte organizzazioni civili e religiose hanno risposto all’invito della locale Commissione per i diritti umani, allestendo un campo umanitario a ovest della città. Anche i Focolari hanno aderito. Una trentina di persone, tra cui medici, infermieri, studenti, casalinghe, si sono prodigate nei punti di soccorso e di distribuzione di pasti e indumenti. Nel frattempo, un altro gruppo ha organizzato una raccolta di generi di prima necessità e una associazione civile che si ispira allo spirito del Movimento ha offerto collaborazione tecnica e logistica». La mattina del 5 novembre, circa cinquemila migranti sono arrivati ​​nella capitale. Nei giorni successivi, quasi diecimila persone hanno ricevuto accoglienza, cibo, coperte, vestiario. «Nonostante la solidarietà di molti, il loro passaggio non è stato esente da attriti e toni di violenza. Alcuni incidenti sono stati sul punto di provocare episodi gravi di xenofobia. Ora l’ondata di migranti attende con impazienza sotto il muro invalicabile che separa la città messicana di Tijuana dagli Stati Uniti. Ci aspettiamo giorni di grande incertezza. Ma nel loro passaggio, pur tra le insidie di un percorso molto complesso, hanno indicato al cuore del popolo messicano la direzione verso cui muove il loro sogno».

Chiara Favotti

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Confine Messico-USA/1 – accogliere e dare speranza

Anche se i riflettori mediatici si accendono a intermittenza sul dramma che continua a consumarsi alla frontiera tra Messico e USA, sono molte le persone e le organizzazioni, tra cui i Focolari, che non abbandonano i migranti. Nelle ultime settimane, notizie e immagini della colonna composta da migliaia di persone in marcia dall’Honduras verso il confine con gli Stati Uniti hanno fatto il giro del mondo. «In questa regione, il fenomeno migratorio è molto comune» ci ha spiegato Sandra Garcia-Farias Herrera della comunità dei Focolari del Nord-ovest del Messico. «Mexicali e Tijuana sono città di confine, cresciute proprio per l’alto numero di persone arrivate qui con il sogno di entrare negli Stati Uniti. Ma quello a cui abbiamo assistito nell’ultimo mese non ha precedenti. La popolazione stessa non comprende come il fenomeno sia arrivato a queste proporzioni e cosa abbia spinto tante famiglie a lasciare tutto, anche in avverse situazioni climatiche, e mettersi in viaggio. Qui la strada finisce, e il loro sogno sembra infrangersi. Le strade e i luoghi pubblici sono diventati accampamenti. La confusione è grande, abbiamo assistito ad azioni di violenza, alla chiusura dei varchi di ingresso agli USA, al posizionamento di filo spinato sopra il muro, al dispiegamento ingente di forze di polizia a presidio dei confini, anche con elicotteri e veicoli speciali che prima non avevamo mai visto. Sembra che stia per scoppiare una guerra. La mancanza di informazioni sulle ragioni che li hanno spinti a partire, ma anche le notizie diffuse dai media e dai social network hanno suscitato tra gli abitanti del Messico sentimenti contrastanti, anche di ostilità e sdegno, fino a episodi di xenofobia». Mentre alcuni giovani dei Focolari stanno cercando il modo di poter entrare nei campi destinati ai migranti, in quest’ultima tappa del loro percorso messicano, altri li hanno avvicinati per strada, cercando di capire le loro motivazioni, ma soprattutto le loro necessità. Una famiglia ha accompagnato in macchina fino a Tijuana due donne con bambini piccoli, per evitare loro un percorso molto difficoltoso. Altri ancora, che lavorano in un centro educativo, hanno proposto agli studenti un cambio di atteggiamento culturale, per manifestare ai migranti la solidarietà e il senso di fraternità dovuti ad ogni uomo. «La priorità è ora anche quella di contrastare la confusione dilagante e gli atti di intolleranza che ne sono derivati, anche tra i giovani. Occorre diffondere la cultura dell’accoglienza».

Chiara Favotti

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