«Dopo cinque mesi di preparazione teorica presso l’Istituto Universitario Sophia (IUS) – racconta Cristina Viano vincitrice insieme a Jena Debbaneh della borsa di studio AIEC per una ricerca sull’impatto sulla povertà delle iniziative EdC–, la “Missione Edc in Serbia.” è stata un’ottima opportunità. Per intraprendere questo studio, infatti, è indispensabile entrare nella logica dell’Economia di Comunione: capire come queste imprese vivono la cultura del dare nel quotidiano e a quali bisogni concreti rispondono gli aiuti. «Tre figure possono rappresentare idealmente – prosegue Cristina Viano – la varietà degli incontri con le aziende EdC che abbiamo incontrato in questo viaggio. Alcune famiglie di allevatori ci hanno ricordato le basi della comunione in economia e la semplicità dell’ambiente famigliare e comunitario in cui può svilupparsi, a partire dalla cooperazione tra piccoli produttori e dal dono non di utili, ma di parte degli animali allevati. Una realtà molto diversa: una grande azienda operante in campo agricolo, alimentare e commerciale, ha messo in luce i dilemmi e le sfide che comporta conciliare valori di comunione e crescita dimensionale, condivisione e investimenti, rapporti con la comunità locale e con le banche. Infine, la figura dell’imprenditore EdC, determinato nel garantire la qualità dei propri prodotti e del lavoro dei propri dipendenti, e nell’ampliare gradualmente la propria attività senza indebitarsi, anzi offrendo ai propri clienti dei crediti senza interessi in una solida fiducia reciproca. È evidente come ancora l’economia serba risenta delle conseguenze della guerra. In alcuni paesi la povertà è diffusa e la disoccupazione elevata. Per questo motivo la spontaneità, la coerenza, la passione che abbiamo incontrato nei tre esempi appena descritti, e in tanti altri nella regione della Vojvodina, sono testimonianze importanti. Ci è apparso ancora più evidente che fare economia di comunione non vuol dire limitarsi ad una donazione impersonale di denaro, o all’applicazione di un particolare sistema manageriale. Ma significa, innanzitutto, vivere appieno la propria realtà locale, avere l’energia per inventare un nuovo lavoro a partire da una piccola produzione familiare, farsi animatori di comunità in grado di offrire servizi e vicinanza a chi è in difficoltà».
«Vedere di persona la realtà – aggiunge Jena Debbaneh – è sempre molto diverso dal “leggerla” dai soli numeri. Abbiamo incontrato tante persone. Tutti erano pronti a condividere la loro storia: come e perché ricevono aiuti, per quanto tempo, e come li utilizzano. Era importante per noi capire le loro storie, per farci un’idea precisa di cos’è veramente un “aiuto”, ma anche i loro desideri per il futuro; le risposte denotavano sempre una certa fiducia nel futuro, il che ci fa pensare che queste persone non siano prigioniere di una “trappola della povertà”. Ricordo una famiglia residente nella campagna vicina a Belgrado. Le domande che avevamo in mente prima di far loro visita venivano meno davanti alla realtà della loro casa. Era evidente l’estrema povertà materiale, ma anche la gioia nell’ospitare e nel condividere cibo e bevande. Abbiamo ricevuto in abbondanza cibo, ma anche felicità e amore, comprendendo che questa famiglia donava e condivideva – come la vedova povera del Vangelo– , essendo in realtà ricchi perché sanno cosa vuol dire la “cultura del dare”. In questo viaggio – conclude Jena –, ho compreso cosa voleva dire e fare Chiara Lubich quando ha lanciato in Brasile nel 1991 l’Economia di Comunione: eliminare povertà e diseguaglianza, e per questo creare imprese con una cultura nuova. I poveri sono il fine dell’EdC e la loro inclusione nelle imprese è il mezzo per valutarne l’efficacia». Fonte: Edc online Leggi anche: Economia di Comunione: missione in Serbia
Coinvolgersi per fare la differenza
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