Movimento dei Focolari

Inviati, anche da un letto d’ospedale

Per un peggioramento della malattia, ho dovuto farmi ricoverare di nuovo in ospedale. Essendo piuttosto debole, tutto mi costava fatica e mi appariva quasi insopportabile. Anche la diagnosi e la terapia non erano che un continuo tentativo, per cui c’era sempre da fare tanti salti e fidarsi di Dio, seguendo i medici in ogni loro nuova idea. Durante un fine settimana, mi trovo sola nella camera d’ospedale: che meraviglia poter riposare un po’ e tirare il fiato! Ma il martedì successivo la stanza si sarebbe di nuovo riempita. Mi preparo promettendo a Gesù che avrei visto e amato solo Lui nelle nuove pazienti, chiunque esse fossero. Volevo immedesimarmi nella Parola di Dio e, per poter annunciare il Vangelo, dovevo evangelizzare prima me stessa. Lui mi ha presa in parola…! All’inizio mi sono sentita mancare l’aria, era peggio di quanto avessi potuto immaginare. Non c’era un attimo di silenzio, e le notti erano insonni. Ho scoperto la preziosità dell’attimo presente, altrimenti sarebbe stato impossibile farcela. Mi sentivo un po’ come un’ “inviata”: anche dal letto di ospedale in cui mi trovavo potevo far arrivare a medici e pazienti l’amore di Dio. Pian piano ho cominciato a scoprire il positivo delle persone, i valori presenti in loro, nonostante quella scorza per me così difficile da accettare. Improvvisamente una di loro, la più difficile, mi disse quanto fosse importante per lei avere un buon rapporto con la compagna di camera, aggiungendo: “Ma noi andiamo ben d’accordo!”. Non si era resa conto di niente e si trovava bene. Ho constatato quanto sia prezioso non fermarsi ai propri limiti, ma buttarsi sempre ad amare, credendo che poi Dio fa il resto. Ho avvertito quanto si cresca interiormente, quanto si diventi forti. E’ andata avanti così per tre settimane. Ne ho visto gli effetti! La fisioterapista era meravigliata che fossi così gioiosa, i medici mi guardavano con simpatia e si sentivano liberi di fare le terapie che vedevano utili per aiutarmi, l’ex-compagna di camera è venuta a portarmi un regalino, dicendo di aver pregato per me in chiesa, perché non fossi sottoposta ad una chemioterapia come si temeva. Ora sono a casa e ho dentro una pace e una serenità nuove. (M. – Germania) Tratto da “Quando Dio interviene. Esperienze da tutto il mondo” – Città Nuova 2004

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Vite vissute all’insegna di un mondo più unito

L’artista di strada che cambia rotta: a volte basta un piccolo gesto Sono A. M. dell’Australia. Suono il flauto praticamente da sempre. Posso dire che questo strumento significa tantissimo per me: per anni è stato il mio migliore amico, forse l’unico, quello che mi ha aiutato ad andare avanti nei momenti più duri. Infatti, alcuni anni fa, a causa di un periodo particolarmente difficile in famiglia e specialmente con mia mamma, me ne sono andata di casa con uno zaino, poche cose e l’inseparabile flauto. Dormivo per strada e guadagnavo qualche cent per vivere suonando il mio flauto… Vivevo letteralmente alla giornata, senza nessun punto di riferimento. Il dolore che avevo dentro era forte. Un giorno, mentre suonavo all’angolo di una strada, una donna si è fermata un po’ più a lungo: “Vorresti dare lezioni di musica ai miei figli? Guadagneresti qualcosa…”. Ho accettato subito quella proposta che, non sapevo ancora, avrebbe cambiato la mia vita. Frequentando così questa famiglia, ho conosciuto i Giovani per un Mondo Unito e quello che mi ha davvero colpito in quei ragazzi era che volevano amare tutti, senza distinzione. Il loro amore mi ha dato la forza di cambiare rotta. E per me amare – l’ho capito subito – significava riallacciare i rapporti con la mia famiglia e in particolare con mia madre. C’è voluto un po’ di tempo, ma poco a poco ci siamo riavvicinati ed ora va molto meglio. (E. S. – Australia) L’amore, la terapia più efficace Siamo una giovane coppia con 3 figli, ai quali vogliamo un bene immenso. Davide e Irene, quando sono nati, come tutti i bambini, ci hanno richiesto tante energie per trovare un nuovo equilibrio in famiglia, ma con Alessia, la terza, è un’avventura speciale. E’ nata apparentemente sana e bella, ma dopo qualche giorno, dai primi risultati della mappa cromosomica abbiamo saputo che aveva la sindrome di Down. Sono stati momenti difficili e inconsciamente speravamo in un errore della diagnosi. E’ stato come un terremoto improvviso, come se ci mancasse la terra sotto i piedi… Ma volevamo credere che ogni figlio è un dono di Dio e – pur nel dolore – sentivamo che questa situazione faceva parte di un suo disegno d’amore. Dopo qualche giorno, una dottoressa genetista ci ha confermato la diagnosi ma non ci parlò tanto della gravità dell’handicap. Piuttosto ci disse che l’amore che potevamo dare ad Alessia sarebbe stata la terapia più efficace. Era quello che in fondo avvertivamo: eravamo noi i protagonisti di questa storia, noi genitori, con gli altri due figli, le nostre famiglie e i nostri amici… Insieme avremmo aiutato Alessia a crescere sotto tutti i punti di vista. Oggi possiamo dire senza esitazione che Alessia è un dono per noi e per chi ci sta accanto. E’ una portatrice di gioia, di serenità. Ha fatto crescere l’amore tra noi due prima di tutto, e poi con i bambini si è instaurato un rapporto più maturo, un amore più grande. Loro stessi fanno a gara per riabbracciarla quando tornano da scuola e ci dicono che siamo stati fortunati ad avere una bambina speciale come Alessia! (M. e D. – Italia)

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Un e-mail per risalire la china

Qualche mese fa mi è arrivato un sms che diceva: “Ciao! Come va?”. A mandarlo era stata una ragazza vista ad un meeting di alcuni giorni, organizzato dal Movimento dei Focolari, con la quale però non avevo avuto occasione di parlare. Iniziamo a scriverci via email parlando del più e del meno.

Un giorno mi racconta la storia drammatica della sua famiglia. Il padre, dopo aver perso tutti i soldi al casinò e aver scoperto che la moglie aveva un’altra relazione, era andato via di casa, mentre la madre, dopo essersi data all’alcool, si era tolta la vita. Non avrei mai immaginato che certe cose potessero succedere così vicino a me. Potevo considerarmi davvero fortunato io che una famiglia ce l’ho. Questi erano i pensieri che mi passavano per la testa mentre cercavo le parole per risponderle. Tutto quello che volevo dirle mi sembrava inadeguato, ma le scrissi qualcosa. In seguito ha continuato a confidarsi, ponendomi domande su come comportarsi, come pregare, come riuscire a perdonare il padre. Ogni volta le ho risposto cercando di comunicarle la certezza che Dio ci ama personalmente, la scoperta che aveva dato un senso alla mia vita. Era anche questo un modo di vivere il Vangelo: di amare, rispondendo a chi si trova nel bisogno, sapendo dare, nel mio caso, amicizia a chi si trova solo o disperato. Un giorno la situazione precipita: trovo una sua e-mail in cui diceva di essere disperata, aveva l’impressione che il mondo le crollasse addosso ed era tentata di assumere la droga per dimenticare ogni cosa. Sapeva che stava sbagliando e chiedeva il mio aiuto. Le rispondo e, dopo un silenzio di un paio di mesi, finalmente ricevo un nuovo messaggio: “Ce l’ho fatta! Non mi sono drogata! E’ stato soprattutto per merito tuo, grazie di tutto!”. (L. – Italia – 16 anni) Tratto dal mensile Gen3 (altro…)

Le nuove barche dei pescatori

Un viaggio fra le realizzazioni e gli aiuti del Movimento dei focolari nei paesi colpiti dal maremoto dello scorso dicembre.

INDONESIA.

Sono i primi di aprile. Aceh li aspetta. Jorge, focolarino centroamericano da alcuni anni a Singapore, e tre giovani, John Paul della Malesia, Ponty e Lambok indonesiani, stanno partendo per visitare alcuni villaggi della zona indonesiana più colpita dal maremoto. È la seconda volta. In febbraio avevano portato alcuni primi aiuti di emergenza, ma soprattutto avevano incontrato da vicino la realtà vista in televisione, e la gente, provata ma dignitosa, con cui avevano creato i primi rapporti di amicizia. Con loro erano stati individuati alcuni progetti che ora si può cominciare a realizzare: una falegnameria per costruire le barche dei pescatori e l’acquisto di reti per sostituire quelle distrutte. Si tratta insomma di ridare loro i mezzi che avevano, per ricominciare a lavorare e a riprendere la vita. Intanto a Medan e nell’isola di Nias prosegue il sostegno scolastico e l’assistenza a quattrocento bambini e alle loro famiglie. La generosità di tanti da tutto il mondo ha reso possibile queste azioni. Sono stati raccolti oltre 600 mila euro, alcuni preziosissimi come i venticinque euro dei bambini di Duala in Camerun o i sacrifici fatti in Kenya, paesi dove la povertà non manca. Ancora una volta non è stata solo la solidarietà e generosità di chi sta meglio, è stata la comunione dei beni fra tutti a caratterizzare la risposta all’appello lanciato dal Movimento dei focolari subito dopo la catastrofe. Il coordinamento delle iniziative è stato affidato all’Amu, la Ong dei Focolari. I nostri interventi – ci dice il presidente dell’Amu Franco Pizzorno – arrivano direttamente alle popolazioni colpite perché possiamo contare sulla presenza di persone del movimento. Dove non abbiamo una presenza diretta si sono avviate collaborazioni con la chiesa cattolica e in India anche con organizzazioni indù che conosciamo da tempo. Ma torniamo in Indonesia. Partiti da Medan, si attraversa il confine con la regione di Aceh: Abbiamo viaggiato più di quattro ore per raggiungere il primo campo profughi visitato in febbraio. Tanti sono però già rientrati nei villaggi e così andiamo a cercarli. Non se l’aspettavano, sono commossi e sorpresi, non pensavano che avremmo mantenuto la promessa. Raggiungiamo un altro villaggio dove incontriamo altri trenta pescatori e consegniamo anche a loro le reti. Condividiamo difficoltà e conquiste. Prima di ripartire ci dicono: ci avete ridato la speranza. Nei giorni seguenti il viaggio procede con la visita ad altri quattro campi profughi a Padang Kasab, Belang Lancang, Lancang e Ulee Kareung. Ciò che ci colpisce di più è il loro senso di fraternità. Quando spieghiamo che non possiamo dare tutto quello di cui ci sarebbe bisogno, perché dobbiamo darne anche ad altri rifugiati, ci capiscono, e colgono – ci sembra – il motivo profondo per cui siamo lì insieme a loro: dare espressione concreta alla fratellanza universale. La tappa successiva è Lampuuk, il luogo individuato per installare la falegnameria per costruire le barche e fissare una base d’appoggio nei prossimi mesi di attività. La chiesa locale offre la sua collaborazione e ospitalità, ma non è possibile restare a lungo presso la parrocchia. Lambok va a parlare con una persona che ha una casa libera e quando torna comunica a tutti la sua sorpresa: Non vuole niente per l’affitto. E pensare che dopo lo tsunami gli affitti nella zona sono aumentati anche di cinque volte! Ci sono delle difficoltà per procurarsi il legno in loco e così si decide di rientrare a Medan insieme con il leader dei pescatori di cinque villaggi. I suoi amici intanto cominceranno a riparare cinque barche solo semidistrutte… Visitiamo le zone vicine. Si aprono nuovi scenari. Il nostro amico ci racconta che dove stiamo passando c’era un villaggio di settemila persone, ora ce ne sono solo sette. Continuano nel frattempo i contatti con la popolazione e si viene a conoscere la situazione di un gruppo di vedove, che non hanno più nessuna fonte di sostentamento. Con loro si decide di avviare un nuovo business: preparare cibo locale e venderlo. Le aiutiamo ad avviare l’attività comprando le attrezzature adatte. A Lampuuk la scuola elementare è stata distrutta e i bambini devono fare a piedi tre chilometri di strada per rag- giungere la più vicina. Oltre alle reti sono state così consegnate 39 biciclette, insieme a scarpe e materiale scolastico.

THAILANDIA.

Ogni giorno il parroco di Phuket, un religioso stimmatino, va a visitare le vittime dello tsunami con la sua équipe di quattro laici. Vanno casa per casa chiedendo come va, cosa possono fare per loro… In questi mesi ha potuto aiutare oltre settecento situazioni: bisogni piccoli e grandi come dare da mangiare, offrire una borsa di studio, fino a cercare le barche per i pescatori. Si occupa anche dei morgan (gli zingari del mare) e li aiuta a trovare un posto per costruire la casa. Ci sono infatti persone che vogliono comprare i terreni vicino al mare e fanno di tutto per cacciare via i morgan. Il parroco li ha accompagnati passo per passo come un amico e un fratello. Lo stiamo aiutando – ci scrivono – ad acquistare barche di seconda mano per i pescatori, a ripararne altre o a sistemarne i motori. Nella provincia di Phanga invece la collaborazione è stata avviata con le suore salesiane. I due campi di fortuna gestiti dalla chiesa sono ancora affollati di profughi senza nessuna sistemazione definitiva in vista. Un primo aiuto va al sostentamento di quelli alloggiati provvisoriamente in questi due campi. Tra il personale che vi lavora ci sono da tre mesi due seminaristi del movimento, e uno di loro si è messo d’accordo con i suoi superiori per sospendere il suo studio presso il seminario e fare un anno intero di servizio con le vittime dello tsunami. Anche una ragazza del movimento, assieme ai suoi compagni di università, ha lavorato lì per qualche settimana. Le suore hanno individuato una cinquantina di famiglie in necessità per rifare o riparare la loro casa, costruire pozzi per l’acqua. Si tratta di famiglie che non ricevono aiuto da nessuna par- sette costa circa tremila euro, ma giacché tutti nel villaggio si aiutano concretamente, il costo effettivo si aggira introno a duemila euro. Finora sono state aiutate una decina di famiglie. Anche qui, come a Phuket, è prezioso l’aiuto che viene dato per costruire o riparare le barche.

INDIA.

Andrea è una giovane indiana, che insieme ad altri dei Focolari, si era data da fare a Madras nei primi giorni dopo lo tsunami. Era stata anche l’occasione per individuare alcune necessità per i pescatori conosciuti e per i loro bambini. Kovalam è una località della periferia di Madras – ci racconta – formata da un insieme di molti piccoli villaggi, dove seicento famiglie sono state seriamente colpite dal maremoto. È conosciuta per una vecchia moschea, i musulmani infatti ritengono che vi abbia abitato uno dei primi discepoli di Mohammed. Vi è anche una chiesa di duecento anni fa, dedicata a Nostra Signora del Monte Carmelo e costruita da un mercante portoghese, un uomo di profonda fede cristiana che ha condiviso il suo benessere con i poveri del villaggio. Andrea aveva affidato alla gente del posto la realizzazione di alcune centinaia di reti da pesca e di quasi quattrocento divise per i bambini. In prima fila negli aiuti ci sono i giovani stessi del villaggio che si sono costituiti in associazione e stanno coordinando le varie attività. Col loro aiuto Andrea può spiegare che questa azione è il frutto della collaborazione di famiglie, giovani, bambini, anziani che vogliono costruire in questo modo la fraternità con tutti loro. Alcuni pescatori si avvicinano e la invitano a pregare insieme a loro e a ringraziare Dio per quello che è avvenuto. Ci inginocchiamo in chiesa e desiderano mettere davanti all’altare uno dei pacchi con le reti come offerta simbolica. Mi colpisce la loro fede semplice e profonda allo stesso tempo . Si avvicinano alcune donne e si rivolgono a Andrea: Tu sei diversa da altri che sono venuti e che – portando gli aiuti – desideravano avere dei cartelloni pubblicitari, si aspettavano delle ghirlande… Tu sei venuta senza tutto ciò, sei venuta, e sei diventata una di noi. Forse è questo il frutto più importante di quanto si sta facendo in Indonesia, Thailandia, India, Sri Lanka, la condivisione porta alla fraternità.   di Marco Aquini (Città Nuova, N.10/2005)   (altro…)

Dopo la terribile prova, più vicini all’unità

Un gruppo di giovani del Movimento dei Focolari, fra cui alcuni europei e alcuni indonesiani, da Singapore si sono recati in viaggio nella provincia di Aceh, nel nord di Sumatra, Indonesia. Riportiamo alcuni stralci del loro diario di viaggio: Obiettivo del nostro viaggio è verificare di persona le necessità di queste zone colpite e capire cosa possiamo fare concretamente, come Movimento dei Focolari, sul posto, per le vittime del maremoto. E’ stata un’esperienza indelebile, in cui siamo andati per dare ed abbiamo ricevuto molto di più. Tornando, qualcuno ci ha detto di veder tornare persone come da un pellegrinaggio in un luogo sacro. Il nostro è un gruppo variegato: asiatici, di Singapore e della stessa Indonesia, e anche qualche europeo, cristiani, musulmani e senza un riferimento religioso. Insieme ci siamo recati in Indonesia, mosaico di culture.

La nipote del re

Ad Aceh, al nostro gruppetto si aggiunge una coppia del posto – lei indonesiana, lui inglese – che ci fa da guida. Il nonno di lei è stato l’ultimo re di Sigli, nella regione est di Aceh. La loro partecipazione nel gruppo è provvidenziale, perché ci aprono tante porte. A., da noi chiamata affettuosamente “principessa” – la nipote del re – durante il viaggio ci racconta della sua famiglia: “Fino a metà del secolo scorso Aceh ha avuto vari sultanati o regni. Mio nonno ne governava uno: era il “Raja” (re) di Sigli, ed è stato assassinato nel 1950 quando l’Indonesia ha acquistato l’indipendenza dagli olandesi, formando un’unica nazione con le 16.000 isole dell’arcipelago”. Da allora si è formato un gruppo armato, il GAM (Movimento per Aceh Libera), che attraverso continue azioni di guerriglia combatte per l’indipendenza del paese. I frequenti scontri fra l’esercito regolare indonesiano e il gruppo di guerriglia armata crea insicurezza e tensione nel popolo, che fuori di questa regione è più sconosciuto che amato, più oggetto di pregiudizi che del sentimento di comune nazionalità, e Aceh è vista come una zona pericolosa. Dopo questo viaggio abbiamo scoperto gli abitanti di Aceh come veri fratelli, pieni di ricchezza spirituale.

Un incontro col dolore e con la vita

Incontriamo tantissima gente: bambini, religiosi, insegnanti, poliziotti, la gente nelle tendopoli dove sono rifugiate centinaia e centinaia di famiglie, i pescatori – la categoria più colpita, avendo lo tsunami distrutto sia le barche che le reti. Ascoltiamo le loro storie di vita e le loro necessità: ci viene un senso di sgomento di fronte a così tanto dolore e a così tanti bisogni. Ma andiamo avanti, con pace. Ci ricordiamo che è Gesù nei fratelli a dirci: “Avevo bisogno di una barca e di reti per poter vivere e tu me le hai procurate…”. Ci sorprende la generosità della gente, che sa dimenticare il proprio dolore per pensare a noi, stranieri sconosciuti: un ragazzo, con la sua spada, taglia dall’albero un frutto di cocco per ciascuno, e ci offre da bere la squisita bevanda.

Piangere insieme

Nel villaggio Kampung Cina abbiamo incontrato una giovane signora musulmana che proprio in quel momento era andata a vedere la sua casa per la prima volta dopo il disastro. Era rasa al suolo: aveva perso il marito e 8 figli! Ci ha raccontato piangendo che, mentre scappava tenendo in braccio il più piccolo di pochi mesi, ad un tratto ha visto altri due suoi bambini in pericolo ed è tornata indietro a soccorrerli. Ma in quel momento ha sentito le grida del piccino che le era sfuggito di mano travolto dall’acqua. Un’altra altissima onda è arrivata trascinando via i due figli. In questo vortice d’acqua ha perso i sensi e si è risvegliata sopra una palma da cocco. Siamo rimasti impietriti ad ascoltarla: era impossibile dirle almeno la pur minima parola. Non sapendo che altro fare, come consolarla, l’abbiamo abbracciata e abbiamo pianto con lei. Quando entriamo nella parte della città più colpita dallo tsunami e nei villaggi attorno troviamo una totale desolazione! Case svuotate di tutto per la violenza dell’acqua, la maggioranza distrutte e con montagne di macerie sopra, dove si stanno ancora raccogliendo i corpi delle vittime. Nell’impossibilità di esumare i corpi, mettono sopra una bandiera, una per ogni corpo che si pensa sia sepolto lì, in una sorta di improvvisato funerale per rispetto a quelle vite che non vanno dimenticate. Lungo la strada che porta al centro della città, a circa 3 km dal mare, due grandi navi (di 350 tonnellate ciascuna) sono addossate ad un hotel. Resteranno lì come monumento, a ricordo di questa grande tragedia. Ma il dolore più intenso è vedere la punta estrema di Banda Aceh, dove la furia del mare si è riversata con tutta la sua potenza, colpendo in tutte le direzioni e distruggendo tutto. E’ una specie di penisola stretta, con mare da tutte le parti. Solo il pavimento di quelle abitazioni è rimasto, insieme ad un cumulo di macerie. Nessun segno di vita. Abbiamo percorso due ore di macchina nel più grande silenzio, ammutoliti dallo sgomento. Forse era anche preghiera, meditazione, condivisione di una sofferenza che grida solo “perché”. Abbiamo riconosciuto un volto di Gesù Abbandonato sulla croce – Egli che ha assunto tutti i dolori, le divisioni, i traumi dell’umanità -, e allora anche la certezza, pur nel mistero, del Suo Amore personale per ciascuno.

Rimboccarsi le maniche

Cerchiamo di darci da fare: uno di noi lavora in una ditta che commercializza reti da pesca. Possiamo interessarci concretamente al problema. Facciamo i calcoli: quante reti, quanto filo monofilamento, quanto legno per costruire le barche, possibilmente con il motore, quante biciclette per permettere ai bambini di andare a scuola, quanto materiale scolastico, quanti soldi servono. Adesso tornando potremo organizzare la distribuzione degli aiuti raccolti, conoscendo una per una le necessità e i volti delle persone che vi stanno dietro (abbiamo incontrato 953 pescatori). Ci sembra di aver costruito una famiglia con tutti, cristiani e non. Ed è solo l’inizio! La nostra impressione è quella di aver assistito ai miracoli operati dalla solidarietà che questo tsunami ha provocato in tutto il mondo. Si constata la generosità di gruppi, ong, congregazioni… e c’è posto per tutti! Il motto sullo stemma nazionale dell’Indonesia è: “Unità nella diversità”. Ci sembra che questo immenso Paese, dopo la terribile prova, sia più vicino all’unità. (altro…)