Movimento dei Focolari

Intervista della Radio Vaticana a Marcella Sartarelli, italiana che da anni vive nel centro dei focolari di Yangon, in Myanmar

«Questi soldi sono proprio benvenuti. Sono trascorsi già tanti mesi dopo il passaggio del ciclone Nargis, che ha fatto questi danni enormi, e le necessità sono ancora tantissime. Questa somma in arrivo ci permetterà di continuare quello che è stato già iniziato: in particolare, per aiutare i bambini a tornare a scuola. Perchè gli aiuti che sono stati dati inizialmente erano cibo, vestiario, medicinali: c’era la priorità delle abitazioni e poi quella di dare la possibilità alla gente di lavorare. C’erano da offrire strumenti di lavoro, specie per la pesca – vasche, reti – e semi per la terra». D. – E ora forse è arrivato il momento anche della ricostruzione delle scuole… «Sì, infatti. Per scuole lì si intende sempre un grande capannone, una costruzione di legno con il tetto di zinco, oppure si tratta di realizzare magari i servizi che non c’erano, oppure distribuire il materiale scolastico, le divise. Questo aiuto che abbiamo dato finora è stato veramente suddiviso di villaggio in villaggio. E andando di villaggio in villaggio siamo riusciti a raggiungere e aiutare 15 mila persone». D. – Nel Myanmar, la religione maggiormente diffusa è il buddismo, ma sono presenti anche i cristiani. Che tipo di rapporto esiste tra gli appartenenti alle diverse fedi? «In genere, si vive tranquillamente: c’è tolleranza, ma c’è anche indifferenza. Quello che è successo adesso con questo ciclone ha un po’ rimosso questa situazione, c’è stata come un’apertura al dialogo, all’amicizia, proprio perché bisognava fare le cose insieme». D. – Più in particolare come vivono nel Paese i cattolici? «La Chiesa cattolica è diffusa in tutto il territorio. Ci sono 12 diocesi e una Chiesa viva con tante vocazioni, una Chiesa di persone forti. Poi, naturalmente, è anche una Chiesa povera, perché i problemi fondamentali sono questi nel Paese: manca l’acqua potabile, manca l’elettricità, mancano le strade e quindi la vita è abbastanza dura. Però, la gente è molto, molto sensibile alla religione. Dunque, è una Chiesa che sicuramente ha un futuro». Dalla Radio Vaticana del 2 febbraio 2009

“Mi ha affascinato la sua vita trasparente”

Sono libanese, ortodossa, di padre ortodosso e di madre cattolica. I miei genitori sono credenti. In famiglia non si è mai posto l’accento sulla parola ‘cattolico’ o ‘ortodosso’. Era naturale festeggiare le due Pasque insieme alle due famiglie. A 15 anni ho cominciato a rifiutare ogni religione, anche perché in Libano, religione e politica sono in stretto nesso fra di loro. Pensavo che gli uomini avessero mescolato tutto e non distinguevo più niente. Per me Dio non poteva esistere e permettere guerra e ingiustizia. Fu così che persi la fede, già un po’ incrinata. Dopo alcuni anni siamo giunti al culmine della guerra in Libano. I miei partono per Parigi. Io volevo rimanere per difendere il mio Paese. Cerco di entrare nell’esercito; nauseata però dalla vanità dei miei sforzi e da me stessa, ubbidisco alla volontà dei miei genitori e li raggiungo in Francia. Ma la mia vita lì non aveva più nessun senso: avevo il mio Paese da liberare… Per non pensare mi sono buttata nei divertimenti della vita. Nel frattempo mio fratello aveva conosciuto e iniziato a vivere il vangelo. La sua vita mi affascinava: era così trasparente. Mi ha invitato ad incontrare altre persone e sono andata. Era tutto un altro mondo. Vedevo gente che mi accoglieva con tanto amore, molto sorridente. Sono tornata a casa felice, l’amore stava rinascendo dentro di me. Ho incominciato a frequentare la mia Chiesa, a scoprirla ed amarla. Ho letto la sua storia, ho frequentato un corso di teologia. Ho capito che dovevo essere unita ad essa, sperimentando l’aiuto di questa spiritualità evangelica, che ti fa andare al di là delle divisioni nel rispetto delle differenze. Era questa la vera rivoluzione! (S. W. – Libano)

La difficile situazione in Orissa

Il communalism – come in India si definisce l’intemperanza religiosa – soprattutto dopo l’indipendenza, aveva visto come protagonisti di scontri, spesso sanguinari, indù e musulmani. Solo in qualche occasione – come nel 1984 per l’uccisione di Indira Gandhi – la violenza era esplosa fra gruppi diversi: tra indù e sikh. I cristiani sono entrati nel mirino solo da qualche anno; ma, non lo si può negare, con una escalation preoccupante. La cosa di fatto è nuova, in un mondo come quello del subcontinente indiano che da sempre si propone come modello di armonia e tolleranza e dove il cristianesimo, sin dai tempi di San Tommaso non è quasi mai stato oggetto di persecuzione. Ciò che sta accadendo in Orissa è espressione di una problematica assai complessa. Lo Stato, infatti, è caratterizzato da una popolazione di 36 milioni di persone a grande maggioranza indù, con piccole minoranze di cristiani (2,4 per cento) e di musulmani (2 per cento). Dopo quelli del Nord-Est, l’Orissa è lo Stato indiano con più forte presenza tribale, circa il 25 per cento della popolazione. Proprio i gruppi tribali – adivasi, si chiamano – caratterizzati da religioni tradizionali, fortemente radicate nella presenza dell’Assoluto nella natura, sono oggetto del contenzioso fra le diverse religioni. Da una parte, l’induismo ha da sempre esercitato una serie di meccanismi socio-culturali per inglobare la religiosità tradizionale nelle diverse espressioni del mondo indù. Si tratta di un processo millenario che sociologi definiscono oggi di “sanscritizzazione” e di “brahminizzazione”. Dall’altra, nell’ultimo secolo i missionari cristiani si sono rivolti proprio a queste porzioni di popolazione per assicurare loro una promozione sociale e una dignità che non avevano, o che era stata persa. L’assistenza medica, la difesa dei diritti umani e la scolarità sono i tre cardini della testimonianza cristiana. Sebbene i cristiani siano una piccolo minoranza, i gruppi fondamentalisti percepiscono la conversione come una minaccia all’identità nazionale. I gruppi della Sangh Parivar, convergenti nella linea politica del Bharatya Janata Party (Bjp), sono i promotori della hindu rashtra, la costituzione di una nazione degli indù. Swami L. Saraswati, il leader indù assassinato, era da anni paladino di tale politica, culminata ancora negli anni Novanta nell’uccisione brutale di un missionario australiano laico, con i suoi due figli, bruciati vivi all’interno della loro jeep, e nei numerosi scontri e uccisioni del dicembre scorso. Nonostante paia che il crimine sia stato commesso da guerriglieri maoisti (i naxaliti), che controllano buona parte del territorio dello Stato, e i vescovi delle cinque diocesi dell’Orissa abbiano immediatamente diramato una nota di cordoglio a condanna del brutale assassinio del leader indù colpito nel suo ashram, la reazione violenta si è diretta contro i cristiani. «Qui la maggioranza vorrebbe eliminare la croce – ha affermato mons. Cheenath, arcivescovo di Bubhaneswar – ma le sue radici sono troppo profonde ed il cancro dell’intemperanza non prevarrà. La Chiesa continuerà ad essere luce per molte generazioni future».