Movimento dei Focolari
Una impresa “family friendly”

Una impresa “family friendly”

Si chiama “Tempi Senza Tensioni, TST” il programma di conciliazione tra lavoro e famiglia che ha fruttato alla Cooperativa sociale aderente all’Edc “Il Sentiero di Arianna” (nei pressi di Genova, nel nord Italia), il primo premio della 4° Edizione di Aziende Family Friendly assegnato dal Forum delle associazioni familiari del Lazio. La cooperativa, che fa parte della rete del Consorzio Tassano Servizi Territoriali opera principalmente nell’area dell’assistenza domiciliare, dell’educazione, dei servizi scolastici e dell’orientamento professionale. Il programma TST prevede una serie di servizi specifici per i dipendenti (Sportello Conciliazione, Sportello Famiglia, Servizio di counseling, Telelavoro, Lavoro in remoto, Banca delle ore migliorativa, Azioni informative per il management, Figura Jolly oltre a Percorsi volti a favorire il reinserimento dopo un periodo di assenza dal lavoro per esigenze di conciliazione) che si sono rivelati di grande efficacia nel creare un clima aziendale positivo, basato su rapporti autentici di collaborazione e cooperazione. Nata nel 1996 su iniziativa di nove giovani donne che per un anno hanno messo in comune le risorse guadagnate reinvestondole in formazione e sviluppo, oggi Il Sentiero di Arianna conta più di 130 soci, l’85 per cento donne. La coesione del gruppo iniziale e l’incontro con alcuni pionieri della cooperazione locale, ispirati ai valori del progetto di economia di comunione, lanciato da Chiara Lubich nel 1991, hanno costituito le fondamenta sulle quali l’impresa si è sviluppata. La Cooperativa Il Sentiero di Arianna si è fatta promotrice, sin dalla sua costituzione, di politiche aziendali family friendly che hanno influenzato positivamente le altre realtà imprenditoriali a lei collegate. Una organizzazione dove la notizia di una gravidanza è sempre una bella notizia, dove si può vivere serenamente la maternità e il rientro al lavoro. Ma anche una azienda dove le donne che non sono madri sono generatrici di innovazione, perché sanno innescare processi positivi di miglioramento organizzativo per una armonizzazione tra tempi di lavoro e di cura dei propri cari. Perché i bisogni delle persone e delle famiglie sono tanti. «Se andiamo all’origine della parola “economia” vi è proprio la parola “casa”. Per noi in impresa non ci si può sentire persone separate. Non si può essere lavoratore e poi, quando si va a casa, essere genitore. La persona è unica e come tale deve poter vivere anche l’esperienza lavorativa» ha commentato la presidente, Simona Rizzi, ritirando il premio lo scorso 9 ottobre, presso la Camera dei Deputati, a Roma. La motivazione del Premio recita, tra l’altro: “Una realtà dotata di una visione particolarmente attenta alla persona che, partendo dai bisogni dei suoi dipendenti, ha istituito una flessibilità organizzativa articolata e innovativa organizzando un supporto concreto sia internamente che sul territorio e intrecciando reti di relazioni sociali ed economiche per trovare soluzioni appropriate nel supporto alle esigenze di armonizzazione della vita lavorativa e familiare”. «Questo risultato è frutto di un lungo percorso fatto dalla cooperativa, dalle sue origini ad oggi. Un percorso articolato che si è sviluppato attraverso molte esperienze significative in questi anni – ha aggiunto Simona Rizzi –. A vincere il premio sono le donne, la loro capacità di fare impresa a misura di persona e di fare economia a misura di comunità». «Le imprese che adottano buone prassi di conciliazione rivelano un innalzamento della produttività e non solo. Le donne che vi lavorano occupano prima di altri posizioni manageriali di organizzative di alto rilievo» è stato il commento del Ministro per le Politiche della famiglia e la disabilità, intervenuto alla premiazione. Fonte: www.edc-online.org


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L’identità ritrovata

L’identità ritrovata

La storia di Margarita Ramírez De Moreno, originaria di Santa María di Catamarca, nel Nord Ovest dell’Argentina, è nota ai lettori. Discendente degli aborigeni calchaquíes (dal nome del loro condottiero Juan Calchaquí), popolo di ottimi artigiani, ne aveva ereditato lo spirito di iniziativa e l’arte della filatura. Giovane diplomata alla “Scuola Aurora” della sua città, istituzione riconosciuta dal governo argentino per il contributo educativo offerto nel recupero delle tecniche e dei simboli della cultura “quechua”, ma disoccupata, non si era arresa di fronte alle difficoltà personali e di molte altre donne come lei, e aveva deciso di avviare una filanda per rifornire il laboratorio di tessitura della scuola. Una occasione di riscatto dalla discriminazione e di recupero della propria identità culturale. Lo scorso 1° ottobre, a Tucumán, Margarita ha ottenuto un riconoscimento in occasione del “Primo incontro internazionale delle donne per la pace”, organizzato dalla “World Federation of Ladies Grandmasters”, associazione operante in tutto il mondo, che sostiene donne, associazioni e fondazioni che con il loro sforzo aiutano altre donne a creare legami di amicizia, fraternità e reciproco aiuto, favorendone la partecipazione politica, la pace, la sicurezza, la protezione. «Senza giustizia non c’è pace, e senza pace non c’è giustizia» ha affermato Mariela Martín Domenichelli, coordinatrice della federazione in America Latina. «È molto importante ascoltare le situazioni in cui vivono le donne, che possono trasformare le idee in future politiche pubbliche». La manifestazione ha voluto rendere visibili le azioni positive di alcune donne che lavorano in vari campi. Dopo aver visitato la provincia, anche Margarita è stata scelta come volto simbolo dell’impegno per la piena integrazione delle donne e dell’intera comunità aborigena cui appartengono. «Non era stato facile, all’inizio, convincere le donne della mia terra, da sempre discriminate, a riprendere il lavoro di filatura – racconta Margarita, che ora è madre di sette figli – dato che per arrivare alla filanda occorreva attraversare fiumi e fare ogni giorno molti chilometri. Non avevamo i mezzi. A poco a poco, ognuna ha messo a disposizione ciò che aveva: un fuso, della lana, la propria abilità in qualche arte tradizionale». «Rimaneva il problema dei costosi macchinari. Un giorno sono stata costretta a chiedere un passaggio e ho confidato al conducente la mia preoccupazione. Mi rispose che lui sapeva fare macchine per filare e che le avremmo potute pagare anche in seguito, quando sarebbe stato possibile». Ostacoli di ogni tipo, ma anche inaspettate conferme. «Durante un trasloco abbiamo trovato una immagine della Madonna. Mi sembrò molto significativo e proposi alle altre di fare un patto: lavorare ogni giorno nell’amore reciproco. Poco dopo abbiamo ricevuto una donazione con la quale è stato possibile acquistare un immobile e delle attrezzature». “Tinku Kamayu” che nell’idioma locale significa “Riunite per lavorare” è il nome assunto dall’atelier. «Abbiamo ritrovato la nostra identità e, con quella, la speranza, la crescita culturale, la possibilità di lavoro per noi e per altri, e la ricchezza delle origini del nostro popolo. Ora ci sentiamo persone utili, non più umiliate, ma valorizzate e capaci di esprimere il nostro pensiero». Vedi anche EdC online (altro…)