Mag 29, 2020 | Famiglie
La testimonianza di Rolando, manager di una ditta di San Salvador: preoccupazioni e attese per il suo Paese in tempo di pandemia e la scelta, come famiglia, di vivere per gli altri. Nel Salvador, siamo in quarantena come nel resto del pianeta. La paura, comprensibile ma, a mio parere, sovradimensionata ha guadagnato spazi e con il fine di contenere i contagi si sono incoraggiate misure che vanno contro i diritti umani. Approfittando dell’emergenza si mina la democrazia e, sempre per la paura, buona parte della popolazione esige una mano forte. Così la pandemia ha generato, come misure per combattere il virus, un ritorno verso l’autoritarismo. Un ritorno all’intolleranza, al non dialogo con sentimenti di rabbia e di vendetta. Da aggiungere l’impatto negativo sull’economia con la chiusura delle attività non essenziali, l’alta percentuale dell’economia informale, la riduzione delle rimesse e l’alto livello di indebitamento motivato dall’emergenza. Per me, questa situazione è una desolazione collettiva. Da giovane ho vissuto la guerra civile e, con tante illusioni, l’arrivo del dialogo e la firma della pace. Ho seguito il lento processo verso la democrazia, mai soddisfatto, ma sempre con speranza. Mai avrei immaginato che avrei rivisto le forze armate dominare la scena politica e la rottura dell’ordine costituzionale. È un dolore personale e sociale che, a volte, mi ha fatto perdere l’ottimismo. Penso che ci sarà nel prossimo futuro una crisi economica e sociale che colpirà la democrazia e, in particolare, le persone più vulnerabili. La spiritualità dell’unità che cerchiamo di vivere nella mia famiglia, ci spinge tutti a fare delle azioni concrete in favore di chi ci è vicino. Personalmente, immerso nel telelavoro, cerco innanzitutto di amare Irene, mia moglie, valorizzando lo sforzo che fa per reggere la difficile situazione, aiutandola e coprendo i vuoti, anche perché per la pandemia non ci sono le persone che ci aiutavano in casa. Preparo con gioia le pietanze che piacciono a Roxana, la figlia più giovane, e faccio coraggio a Irene Maria, la figlia più grande, che studia all’estero. Ogni giorno sento i miei genitori e mi occupo dei loro bisogni. Cerchiamo di sostenere e dare serenità alle persone che aiutano in casa, garantendo i loro stipendi, finché riusciremo…
Con gli impiegati della compagnia dove lavoro, insieme ad altri dirigenti, stiamo implementando politiche di sostegno economico, facilitando il lavoro a distanza dei dipendenti per garantire il loro posto di lavoro. M’impegno a rapportarmi meglio che posso con il mio team e ad essere comprensivo per la loro minore produttività. Con alcuni esperti delle diverse aree ci scambiamo le esperienze, studiamo la crisi, i modelli economici, lo sviluppo dei mercati, la politica, consapevoli dell’opportunità che ci si presenta per imparare cose nuove e trovare delle idee innovatrici per affrontare il futuro. Senza rendermi conto, le giornate passano in fretta, e una sensazione di pace inonda spesso la mia anima. Continuo a preoccuparmi per la situazione sanitaria del Paese, per la democrazia in pericolo, per l’economia, ma sento, sempre più forte, la forza di continuare a lottare per tenere alti i valori nei quali credo, nonostante che fuori, la tempesta sia forte.
Rolando, El Salvador (Raccolta da Gustavo E. Clariá)
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Ott 12, 2018 | Chiesa, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo
Giovanni Battista Montini e Oscar Arnulfo Romero, amici in vita, saranno ufficialmente canonizzati insieme il 14 ottobre. Oscar Arnulfo Romero y Galdámez, l’arcivescovo salvadoregno, amato dal popolo perché difensore dei più poveri, era nato il 15 marzo a Ciudad Barrios, nello Stato di El Salvador (America centrale), da una famiglia di umili origini. Ordinato sacerdote nel 1942, si spende con passione prima come parroco e in seguito come direttore del seminario interdiocesano di San Salvador. Nel 1974 viene nominato vescovo di Santiago de María, diocesi che copre uno dei territori più poveri della nazione. Il contatto con la popolazione, stremata dalla povertà e dalla repressione del regime, che voleva mantenere la classe più povera soggetta allo sfruttamento dei latifondisti, lo fa schierare apertamente con gli ultimi. Dal 1977, mentre la violenza del regime si inasprisce anche contro sacerdoti, religiose e religiosi, diventa arcivescovo di San Salvador, ma sceglie di abitare in un piccolo appartamento vicino all’ospedale della Divina Provvidenza. L’assassinio di padre Rutilio Grande, suo amico e collaboratore, lo spinge a denunciare le nefandezze della dittatura: proclama il Vangelo attraverso scritti e omelie, diffuse anche attraverso i mezzi di comunicazione sociale. Il 24 marzo 1980, mentre sta celebrando la Messa nella cappella dell’ospedale, viene ucciso dagli “squadroni della morte”, braccio armato del regime. Nel 2015 viene beatificato a San Salvador.
Lug 12, 2018 | Cultura, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Nuove Generazioni, Sociale
«Vengo da un paese dell’America centrale, El Salvador. Un paese piccolo, ricco di risorse naturali e di storia, ma afflitto, da molti anni, da una grande instabilità politica, da ingiustizie e povertà, che hanno generato diverse forme di violenza e sconvolgimenti sociali. Negli ultimi anni, la violenza si è così intensificata da creare una mancanza di fiducia reciproca tra gli abitanti, perché ogni persona rappresenta una minaccia per gli altri. Una situazione che fa sentire impotenti. Nel 2014, ho vissuto per un po’ di tempo con altri Giovani per un Mondo Unito in una cittadella dei Focolari in Argentina, la “Mariapoli Lia”. Lì abbiamo cercato di mettere in pratica la cosiddetta “regola d’oro”, che dice: “fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”. Mi sono reso conto di quanto sarebbe bello costruire una società in cui tutti ci prendiamo cura gli uni degli altri. Tuttavia, quando sono tornato in El Salvador, mi sono trovato di nuovo di fronte alla lotta interna del mio Paese. La situazione era davvero difficile, se possibile ancora più violenta. In qualsiasi momento, anche di giorno, era rischioso uscire di casa. Io ero solito recarmi in autobus al campo sportivo, ma anche questo era diventato pericoloso. Non sai mai se la sera tornerai a casa intero. Data la situazione, i miei genitori, mia sorella ed io abbiamo pensato di andarcene. Ma, dopo aver riflettuto ancora sul da farsi, abbiamo deciso di restare, per essere una luce in questo posto buio, in tempi così bui. I
n quel periodo ho letto un articolo dei Giovani per un Mondo Unito del Medio Oriente, che raccontavano di aver deciso di rimanere lì, nonostante la guerra, per essere pronti ad aiutare i feriti dopo gli attacchi. La loro esperienza mi ha fatto riflettere, rafforzando la determinazione a restare nel Salvador, per venire incontrare alle sofferenze della mia gente. È stato così che, insieme ad altri miei coetanei, abbiamo deciso di lanciare una campagna, che abbiamo chiamato “Cambia il tuo metro quadro”, con l’obiettivo di cercare di costruire la pace nel nostro ambiente. Sappiamo che il problema del nostro Paese è complesso, ma noi possiamo fare la differenza se cominciamo dalla nostra vita, con le persone che incontriamo ogni giorno, con le attività che svolgiamo quotidianamente. A livello personale, ad esempio, cerco di aiutare i miei compagni di classe ad affrontare un difficile esame di matematica, o a creare relazioni positive con i vicini di casa. Tutto questo ha avuto un impatto anche nella nostra società. Abbiamo coinvolto altri a lavorare insieme per costruire, in un parco locale, un ambiente più bello, ridipingendo i muri, pulendo le strade, raccogliendo la spazzatura e installando dei bidoni per l’immondizia. Abbiamo lanciato una campagna per la raccolta di libri da inviare in quelle città che hanno un alto tasso di abbandono scolastico. È nata poi una collaborazione con altri movimenti che si occupano di visitare le persone anziane negli istituti, e con istituzioni che forniscono pasti e riparo alle persone senzatetto. Gli adulti ci aiutano raccogliendo il cibo e aprendo le loro case per farci cucinare. È incredibile come il cibo sia sempre sufficiente per tutti quelli che non ne hanno! Forse non saremo in grado di cambiare il nostro paese tutto in una volta, ma “metro quadro per metro quadro” un cambiamento lo possiamo fare!». (altro…)
Lug 5, 2018 | Cultura, Focolari nel Mondo, Senza categoria
Luigino Bruni presenta en esta ocasión un libro que analiza y advierte sobre uno de los peligros que enfrenta toda organización motivada por ideales: la de transformar, justamente, estos ideales que dieron vida a la comunidad, en ideología. El concepto de autosubversión se refiere a “la virtud de poner en discusión las propias certezas, de no buscar en las cosas que nos suceden los elementos que confirman nuestras ideas, sino las que las refutan o desafían”. Este libro se ofrece como una “breve guía, parcial e imperfecta” para aprender “cómo florecer como adultos cuando, siendo jóvenes, se creyó en un ideal grande y se partió a su conquista”. Luigino Bruni (Ascoli Piceno, 1966) es profesor ordinario de Economía Política en la LUMSA (Libera Universita Maria Santissima Assunta) de Roma y docente de Economía y Ética en la Universidad Sophia, de Loppiano. Es coordinador del Proyecto Economía de Comu nión y uno de los promotores de la Economía civil. Es autor de ensayos y obras traducidas a una decena de idiomas. La otra meta de la economía (escrita junto a Alessandra Smerilli) y La economía silenciosa, publicada por Ciudad Nueva, se encuentran entre sus últimas obras. Grupo Editorial Ciudad Nueva – Buenos Aires
Feb 2, 2018 | Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Nuove Generazioni, Sociale
«Mi trovo per un periodo in Italia, a lavorare, insieme ad altri giovani della mia età, al prossimo Genfest 2018 a Manila». Fervono i preparativi per il primo Genfest della storia fuori dall’Europa. Al gruppo internazionale di ragazzi che vi lavorano si è unito Nelson, arrivato nel 2017 in Italia, prima a Loppiano (Firenze), poi al “Centro internazionale Gen2” nei pressi di Roma, dove lo intervistiamo. «Vengo da El Salvador, lo Stato meno esteso ma più popolato dell’America Centrale istmica. Un Paese bellissimo, ma colpito in anni recenti da una guerra civile, durata 12 anni e finita nel 1992, che l’ha lasciato distrutto». Spiega Nelson: «Dopo la fine della guerra, molte famiglie si sono trovate nella necessità di dover cercare altrove un sostentamento e tanti genitori sono emigrati, affidando i figli a parenti o a chi se ne poteva prendere cura. Ma nel clima di smarrimento generale, questo ha comportato che a una generazione di bambini e ragazzi è mancata una guida, o semplicemente chi se ne interessasse veramente. A ciò si è aggiunta le difficoltà di far giungere a destinazione, nel Paese d’origine, i soldi guadagnati all’estero, e tanti di questi ragazzi sono rimasti privi di tutto e hanno cominciato a lasciare la scuola, a girare per la strada, a cercare nella delinquenza l’attenzione che non avevano da nessuno. In breve, reclutando adolescenti e anche giovanissimi, si sono formati molti gruppi criminali sempre più radicati e pericolosi, ognuno con un nome e una identità precisa contraddistinta da simboli, rituali di iniziazione e gesti». Ogni gruppo si identifica con un tatuaggio, che fissa per sempre l’appartenenza dei membri, impossibilitati a uscirne se non finendo ammazzati, o in carcere, o scappando dal Paese. «Per sradicare quello che sembrava inizialmente un problema semplice da risolvere – continua Nelson – il governo ha avviato un piano, a sua volta violento, rinchiudendo ad esempio in prigione chiunque portasse un tatuaggio. Il risultato è stata una escalation di violenza senza precedenti, con una risposta efferata delle gang che hanno cominciato ad ammazzare senza ragione, a minacciare ragazzi sempre più giovani e costringerli ad entrare nel gruppo». «Prima di arrivare in Italia, lavoravo a San Miguel, in una scuola salesiana che si dedica, con vero spirito di accoglienza, a più di un migliaio di studenti che vengono da fuori città ogni settimana. Molti di loro hanno gravi problemi famigliari o parenti arruolati nei gruppi criminali, o peggio ancora, sono loro stessi in procinto di entrarvi. Insegnavo educazione fisica. Un giorno, durante l’ora di nuoto, un ragazzo voleva entrare in piscina senza togliersi la maglietta, nonostante la regola lo impedisse. Era nervoso e impaurito. Allora l’ho preso in disparte per parlare da solo con lui, e gli ho chiesto il motivo. Mi ha risposto che si era fatto tatuare il simbolo di un gruppo, e non voleva che nessuno lo sapesse. Gli ho dato il permesso di entrare in acqua con la maglietta, ma dopo, in classe, sono tornato sull’argomento e abbiamo cominciato a parlare dei modi per cercare strade alternative alla criminalità. Così, fino alla fine dell’anno, abbiamo provato a spiegargli, tutti insieme, che c’è sempre una via di uscita, un altro modo di vivere, lontani dalla violenza. Dopo di un paio di mesi l’ho rivisto, indossava fiero una uniforme di lavoro, era riuscito a lasciare il gruppo, che grazie a Dio lo aveva lasciato in pace. Ora aiutava la sua famiglia. “Grazie prof. È grazie a tutti voi se ho capito che potevo diventare una persona diversa da quella che cominciavo ad essere. E soprattutto a cambiare rotta nella mia vita”». Chiara Favotti (altro…)