Feb 22, 2018 | Spiritualità
Dal carrozziere Avevo portato la macchina dal carrozziere per una riparazione di poco conto. Il giovane operaio mi avrebbe chiamato quando sarebbe stata pronta. Passano sei ore e nessuna telefonata. Vado di persona al garage e stranamente lui fa finta di non ricordarsi nemmeno del lavoro da fare e si mette a servire altri clienti. Dopo un’ora di attesa lui torna con il conto. Spropositato, per un lavoro così piccolo. Ho la pelle nera, è chiaro che questo è un gesto di discriminazione. Pago, ma mi sale la rabbia e un acuto dolore. Quando sto per esplodere mi fermo a pensare come vivere questo momento alla luce del Vangelo. Mi calmo e pazientemente espongo i fatti al responsabile. Lui mi ascolta e capisce. E mi fa rimborsare. Quel rimborso mi è sembrato il compimento delle promesse del Vangelo. Welile – Sudafrica Fame e sete di giustizia Ero una rivoluzionaria, avevo fame e sete di giustizia e lo dicevo a voce alta, dappertutto. A un certo punto ho trovato una risposta in Dio, e per lui ho lasciato tutto. Un giorno mi è stato chiesto di parlare in una fabbrica, ma adesso c’era una differenza: non ero più io, era Gesù che parlava in me perché cercavo di amarlo nei fratelli. Guardando quei volti inquieti, sofferenti, in rivolta, assetati di giustizia, ho avuto la conferma che solo l’amore può realizzare il miracolo di cambiare le persone, le idee, le strutture. Questo amore è Dio in noi e tra noi. Maria Teresa – Brasile Cambio di programma D’accordo con mio marito, pensavo di iscrivermi a un corso di studi che sarebbe stato utile per il mio lavoro. Ero entusiasta, perché vedevo man mano appianarsi tutte le difficoltà e tutto sembrava confermare che ero sulla strada giusta. Avevo iniziato a raccogliere i documenti necessari quando la scoperta di essere incinta mi ha confuso le idee. Avrei dovuto accantonare il mio progetto per un po’. La lettura del Vangelo con mio marito ci ha fatto capire che Dio aveva altri piani su di noi e ci siamo disposti ad accogliere con gioia il bambino. D.T.B. – Croazia La carta vincente Sono un agente di commercio. Un giorno sono entrato nella sede di una grossa azienda per presentare i miei prodotti al responsabile degli acquisti. Poiché aveva dimostrato poco interesse, mi accingo ad uscire dal suo ufficio. Ma durante quel breve incontro mi ero accorto di avere a che fare con una persona sofferente. Sono già sulla porta, quando avverto di dover tornare indietro e gli chiedo semplicemente: “Ma lei è sicuro di stare bene?”. Con gli occhi sbarrati mi chiede: “Come mai questa domanda?”. Rispondo dicendogli della mia sensazione, rinnovo i saluti ed esco. Il giorno dopo ricevo una telefonata da lui. “La volevo ringraziare, dopo che lei è andato via la sua domanda mi risuonava in mente, così la sera sono andato dal mio medico che mi ha confermato che potevo avere un collasso da un momento all’altro e bisognava intervenire subito con una energica terapia”. Lo stesso giorno, quell’azienda ha fatto un ordine consistente. Così, non solo ho trovato un grosso cliente, ma anche ho aiutato una persona a stare meglio. Mettere l’amore al primo posto nelle nostre relazioni è sempre la carta vincente. Dal sito dei Focolari www.flest.it – Italia (altro…)
Feb 9, 2018 | Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Sociale
La mia famiglia è composta da me, mia sorella e mia madre che ci ha cresciute da sola. Abbiamo passato momenti molto critici: mia madre faticava a trovare lavoro. In più c’erano attriti con la padrona di casa, perché non avevamo soldi per l’affitto. Per mia madre era davvero un calvario amministrare i pochi soldi che guadagnava. Per questo è stato molto importante il sostegno che abbiamo avuto attraverso l’associazione Azione per Famiglie Nuove onlus (AFN) del Movimento dei Focolari. Di lì a poco, poi, si è aperto nella zona sud della nostra città, Cochabamba (a 2.600 mt d’altezza), il Centro Rincón de Luz, nel quale si offre sostegno scolastico e un pasto al giorno ai bambini e ai ragazzi che frequentano le scuole del quartiere. Il centro è stato un altro grande aiuto per me, mi ha ridonato il sorriso e permesso importanti momenti di formazione. Nel Centro eravamo come una grande famiglia nella quale i professori spesso ci facevano da “secondi genitori”. Grazie alle persone che hanno avuto fiducia in me, oggi posso raccontare con orgoglio che ho terminato il mio corso di studi con buoni risultati e sto seguendo il primo semestre all’università. Presto sarò una professionista.
Cercherò di far arrivare l’aiuto ricevuto alle persone che ho intorno, iniziando, ad esempio, dal Centro per trasmettere le mie conoscenze ai bambini. Vorrei anche aprire un posto per le persone che vivono in strada, offrendo loro un modo per andare avanti. Ho capito che si può cambiare la vita di un bambino e indicargli la strada per un futuro migliore. Per questo invito tutte le persone ad aiutare: tutti possiamo! Per me la cosa più importante non è stata solo l’aiuto economico, ma la fiducia che mi hanno dato: essa è un seme di speranza, è una luce che si accende non solo nel ragazzo, ma anche nei suoi genitori. Vedi il video Fonte: Teens (altro…)
Feb 5, 2018 | Dialogo Interreligioso, Focolari nel Mondo
«Il dialogo a 360 gradi con tutti, anche con persone di altre convinzioni, è diventata la caratteristica della nostra famiglia, condivisa coi figli Pietro, Elena e Matteo». Annamaria e Mario Raimondi sono un fiume in piena quando raccontano le innumerevoli esperienze vissute dalla loro famiglia all’insegna del dialogo. Ora abitano a Lecco, cittadina tranquilla del nord Italia, sul lago di Como (“ma solo tre quarti d’ora da Milano”, puntualizza Annamaria), lui professore ordinario di Chimica-Fisica all’Università di Milano, lei insegnante, entrambi pensionati. Ma solo “formalmente”. Vivacissimi e in piena attività, oltre che per la famiglia e i tre nipoti, anche per la Diocesi, con un incarico per l’ecumenismo, e a servizio della comunità dei Focolari del posto. «Per il mio lavoro – spiega Mario – abbiamo sempre viaggiato molto specie in Inghilterra, a Parigi e negli USA. Abbiamo conosciuto la comunità dei focolari a Boston, mentre mi trovavo lì per una ricerca. La spiritualità dell’unità ci ha aperto il cuore e la mente verso tanti fratelli di culture e professioni religiose diverse. Joe, un collega conosciuto a Parigi, è uno di questi e con il tempo è diventato come un fratello». «Nel 1975 – continua Annamaria – con i bambini piccoli siamo stati ospiti a Bristol, in Inghilterra, della sua famiglia.

Mario e Joe
Joe era figlio unico di una famiglia ebrea, padre russo e madre ungherese, che a causa delle persecuzioni era fuggita da Vienna, dove abitava, in Inghilterra. La moglie di Joe, Zaga, figlia di un colonnello comunista dell’ex Yugoslavia, era donna di grandi valori umani e si professava atea. I loro quattro figli erano coetanei dei nostri. Abbiamo condiviso la vita di ogni giorno, i giochi, il lavoro, nel rispetto delle scelte e dei diversi stili educativi. Una volta tornati a Milano, dove allora abitavamo, il rapporto con Joe e Zaga è continuato attraverso lettere, telefonate e molti viaggi di lavoro. Tempo dopo Joe ha desiderato riaccostarsi alla fede, riallacciando il rapporto con le proprie radici. Inaspettatamente, ormai sono passati 20 anni, gli venne diagnosticata una grave malattia. I medici dissero “Ha solo un mese di vita” e noi corremmo da lui. Durante il funerale, a cui eravamo presenti, uno dei suoi figli guidò una preghiera in ebraico. Lo ricordiamo come un momento molto commovente». «Anche ora, dopo tanti anni – racconta Mario – il rapporto con Zaga e la sua famiglia continua. Lei ora è anziana e non gode più di buona salute. Spesso siamo andati a trovarla, ad esempio in occasione del matrimonio delle figlie e della nascita del primo nipotino che, non a caso, è stato chiamato Mario! Abbiamo condiviso tutte le tappe della vita: la crescita dei figli, le vacanze, la ricerca scientifica… Tra noi non c’è stata solo una grande intesa umana, ma qualcosa di molto più profondo. Ognuno si sente libero di essere sé stesso e tra noi circola un amore disinteressato. Zaga, che pure si professa non credente, ha partecipato all’ordinazione sacerdotale di Pietro, alla professione religiosa di Elena e (addirittura con una gamba ingessata!) al matrimonio di Matteo. Tuttora il rapporto tra le nostre famiglie continua, condividendo momenti semplici, importanti e profondi».
«L’estate scorsa – riprende Annamaria – avevamo saputo che un signore inglese di 80 anni era stato colpito da un infarto mentre con un gruppo di amici era in gita sul lago di Como. L’ospedale era abbastanza vicino a casa nostra. Lui e la moglie, non conoscendo l’italiano, erano in difficoltà. Il resto della comitiva era ripartito per l’Inghilterra. Durante la degenza, durata due settimane, siamo andati a trovarli ogni giorno, aiutandoli a comunicare coi medici, a trovare un alloggio per la moglie presso delle suore vicino all’ospedale, a sbrigare le cose ordinarie, come se ci conoscessimo da sempre. Abbiamo portato loro la Parola di Vita e condiviso momenti semplici ma intensi. Alle dimissioni li abbiamo accompagnati all’aeroporto. Ed è stato lì che Antony, così si chiama, ci ha chiesto: “Posso darvi una benedizione?”. In quel momento abbiamo scoperto che era un ministro anglicano. Il ricordo di quel saluto così speciale è sempre con noi. Tornati a Londra, Antony e sua moglie, già in stretto contatto con la comunità dei Focolari, ci ringraziano ancora oggi ricordando quel momento con gratitudine». Chiara Favotti (altro…)
Feb 2, 2018 | Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Nuove Generazioni, Sociale
«Mi trovo per un periodo in Italia, a lavorare, insieme ad altri giovani della mia età, al prossimo Genfest 2018 a Manila». Fervono i preparativi per il primo Genfest della storia fuori dall’Europa. Al gruppo internazionale di ragazzi che vi lavorano si è unito Nelson, arrivato nel 2017 in Italia, prima a Loppiano (Firenze), poi al “Centro internazionale Gen2” nei pressi di Roma, dove lo intervistiamo. «Vengo da El Salvador, lo Stato meno esteso ma più popolato dell’America Centrale istmica. Un Paese bellissimo, ma colpito in anni recenti da una guerra civile, durata 12 anni e finita nel 1992, che l’ha lasciato distrutto». Spiega Nelson: «Dopo la fine della guerra, molte famiglie si sono trovate nella necessità di dover cercare altrove un sostentamento e tanti genitori sono emigrati, affidando i figli a parenti o a chi se ne poteva prendere cura. Ma nel clima di smarrimento generale, questo ha comportato che a una generazione di bambini e ragazzi è mancata una guida, o semplicemente chi se ne interessasse veramente. A ciò si è aggiunta le difficoltà di far giungere a destinazione, nel Paese d’origine, i soldi guadagnati all’estero, e tanti di questi ragazzi sono rimasti privi di tutto e hanno cominciato a lasciare la scuola, a girare per la strada, a cercare nella delinquenza l’attenzione che non avevano da nessuno. In breve, reclutando adolescenti e anche giovanissimi, si sono formati molti gruppi criminali sempre più radicati e pericolosi, ognuno con un nome e una identità precisa contraddistinta da simboli, rituali di iniziazione e gesti». Ogni gruppo si identifica con un tatuaggio, che fissa per sempre l’appartenenza dei membri, impossibilitati a uscirne se non finendo ammazzati, o in carcere, o scappando dal Paese. «Per sradicare quello che sembrava inizialmente un problema semplice da risolvere – continua Nelson – il governo ha avviato un piano, a sua volta violento, rinchiudendo ad esempio in prigione chiunque portasse un tatuaggio. Il risultato è stata una escalation di violenza senza precedenti, con una risposta efferata delle gang che hanno cominciato ad ammazzare senza ragione, a minacciare ragazzi sempre più giovani e costringerli ad entrare nel gruppo». «Prima di arrivare in Italia, lavoravo a San Miguel, in una scuola salesiana che si dedica, con vero spirito di accoglienza, a più di un migliaio di studenti che vengono da fuori città ogni settimana. Molti di loro hanno gravi problemi famigliari o parenti arruolati nei gruppi criminali, o peggio ancora, sono loro stessi in procinto di entrarvi. Insegnavo educazione fisica. Un giorno, durante l’ora di nuoto, un ragazzo voleva entrare in piscina senza togliersi la maglietta, nonostante la regola lo impedisse. Era nervoso e impaurito. Allora l’ho preso in disparte per parlare da solo con lui, e gli ho chiesto il motivo. Mi ha risposto che si era fatto tatuare il simbolo di un gruppo, e non voleva che nessuno lo sapesse. Gli ho dato il permesso di entrare in acqua con la maglietta, ma dopo, in classe, sono tornato sull’argomento e abbiamo cominciato a parlare dei modi per cercare strade alternative alla criminalità. Così, fino alla fine dell’anno, abbiamo provato a spiegargli, tutti insieme, che c’è sempre una via di uscita, un altro modo di vivere, lontani dalla violenza. Dopo di un paio di mesi l’ho rivisto, indossava fiero una uniforme di lavoro, era riuscito a lasciare il gruppo, che grazie a Dio lo aveva lasciato in pace. Ora aiutava la sua famiglia. “Grazie prof. È grazie a tutti voi se ho capito che potevo diventare una persona diversa da quella che cominciavo ad essere. E soprattutto a cambiare rotta nella mia vita”». Chiara Favotti (altro…)