Movimento dei Focolari

Una legge più efficace: l’amore

Al di là delle norme giuridiche che regolano il nostro vivere, l’amore si fa misura più alta della giustizia, e risolve anche  situazioni apparentemente senza via d’uscita Come avvocato, non mi mancano le occasioni per esercitare la mia capacità professionale al servizio degli altri, cercando di non mettere limite alla possibilità di amare nelle circostanze concrete. Questo modo di interpretare e condurre la professione spesso produce un radicale cambiamento negli altri. Un giorno mi ha telefonato una signora. Sua figlia, dopo un litigio con il marito, aveva deciso di separarsi. Il genero aveva trovato un avvocato che – in meno di 24 ore – aveva preparato il ricorso per la separazione consensuale; mancava solo la firma della moglie. La signora, preoccupata, mi chiedeva di intervenire. Sapeva che il gesto dei due giovani era dettato dalla rabbia del momento, e non voleva che questo pregiudicasse il futuro della loro famiglia. Senza il mandato di una delle parti, non potevo però fare nulla. La signora mi ha chiesto di ricevere comunque la figlia, che avrebbe indirizzato da me con la scusa di sentire il parere di un altro avvocato. Ho ascoltato a lungo quella giovane moglie e mi sono resa conto che il matrimonio poteva essere salvato e che davvero i due avevano agito d’impulso, senza rendersi conto delle reali conseguenze: la sola firma in calce al ricorso, infatti, avrebbe significato per i due la probabile fine del loro rapporto. Al termine della conversazione la signora mi chiede di rappresentarla in giudizio. Telefono così al collega che aveva preparato il ricorso, dicendogli che prima di fare una separazione sono solita approfondire bene le ragioni della crisi coniugale e che 24 ore non mi erano sufficienti. Mi sono fatta mandare la bozza del ricorso. Dopo alcuni giorni ho richiamato la signora. Mi ha risposto che sia lei che il marito avevano avuto un ripensamento e avevano deciso di ritornare sui loro passi. Ultimamente ho saputo che adesso hanno anche due bellissimi bambini. (F.C.) (altro…)

Il coraggio di essere e dirsi cristiani

 

E’ tutto falso?

Sono l’unica in classe a partecipare all’ora di religione. Spesso i miei compagni mi bombardano letteralmente di domande mettendo in discussione tanti punti della nostra fede. Dopo la pubblicazione del libro “Il codice da Vinci”, poi, soprattutto una compagna non perdeva occasione per ripetermi  che ciò in cui credo è tutto falso. Lo sapevo che non aveva ragione, ma ero incapace di risponderle con delle esatte motivazioni. Parlando di questo mio problema con le altre ragazze che come me vogliono vivere il Vangelo, abbiamo deciso di approfondire insieme la figura di Gesù, cercando di capire  come rispondere alle domande della mia compagna. E’ stata un’esperienza bellissima. Se prima era chiaro solamente che la mia compagna aveva torto, adesso ho degli argomenti per risponderle veramente. (L. – Spagna)

Andare o non andare?

Mi trovavo in chiesa con i miei compagni di scuola per il precetto pasquale. Durante la celebrazione tutto era ok, però al momento delal comunione ho incominciato a pensare se alzarmi o no dal banco. Tra i miei amici, infatti, essere cristiani non va certo di moda! Anzi, per loro i cristiani sono persone deboli, per cui mi vergognavo di farmi vedere in fila per la comunione. Temevo di essere preso in giro e questa paura continuava a ripetermi: “Non andare”. Ma poi mi sono fatto coraggio: era più importante seguire la mia fede, piuttosto che le idee dei miei compagni! Tornato al posto, mi sentivo sereno per come avevo agito e felice per aver ricevuto Gesù. Col fatto di conoscere altri ragazzi che vivono come me, grazie al loro amore e alla loro amicizia, ho acquistato più sicurezza in me stesso e in ciò che credo. (M. – Italia)

Quella serenità che nessuno può toglierti

Ho 25 anni e studio ingegneria elettronica. All’età di 8 anni, a causa di un male scambiato inizialmente per un tumore al cervello, ho subìto una lesione al nervo ottico che mi ha ridotto notevolmente la funzionalità visiva. Questa esperienza mi ha portato tante volte a chiedermi cosa fosse il dolore, ma soprattutto perché il dolore. Ad 11 anni fui scartato alla visita medica necessaria per praticare sport a livello agonistico. Potevo praticare qualsiasi sport, ma a livello amatoriale. Mi iscrissi così a basket; mancandomi il senso della tridimensionalità non ero bravo e gli altri mi prendevano in giro. Anche a scuola, quando si facevano le squadre per giocare, ero sempre l’ultimo ad essere scelto perché nessuno mi voleva con lui. Dentro di me, sempre più forte mi chiedevo cosa in questa vita veramente contasse. A 18 anni la patente! Una patente speciale, da rinnovare ogni 2 anni, ma non basta saper portare la macchina, bisogna capire cosa fanno gli altri sulla strada: non ci vuole arte, ma una buona vista sì. Vedevo tutti i miei amici “prendere e andare”, mentre io no. E’ stata davvero dura, e lo è tutt’ora. Ma c’è una cosa che mi fa credere all’utilità del dolore: pensando a Lui, a Gesù morto sulla croce, mi dicevo: “Però, Gesù. Avrebbe avuto mille altri modi per salvarci, perché proprio tramite la croce? Il dolore deve avere un’importanza prioritaria, sennò avrebbe risolto la questione diversamente!” Ho potuto sperimentare che le parole del Vangelo, se vissute radicalmente, sono proprio vere: “a chi mi ama mi manifesterò, date e vi sarà dato…”. Quelle volte che sono riuscito a viverle sul serio, ho toccato con mano che tutto ciò che Gesù promette si verifica. Ed ho avvertito nell’intimo, una serenità immensa, silenziosa, che nessuno poteva togliermi. Questa pace intima che nasce spontanea in questi momenti, mi fa credere che Qualcuno lassù mi ama e ha un disegno d’amore su di me. E le difficoltà quotidiane sono diventate una palestra per esercitare la carità, la pazienza, la fede, e le altre virtù. Dopo 15 anni, la protesi che mi avevano messo nella testa ha smesso di funzionare perché deteriorata. Si sapeva che prima o poi sarebbe accaduto, ma i medici hanno impiegato 10 giorni per capire che era proprio la valvola a non funzionare. E nel frattempo il campo visivo si è ulteriormente ristretto. Pensavo: Se ogni volta che mi si otturerà la valvola di drenaggio, la vista mi diminuisce di una certa percentuale, a 45 anni andrò in giro col cane… Appena uscito dallo studio del dottore, dopo l’amaro verdetto, ho cercato di ascoltare cosa Gesù volesse dirmi. Ma dentro avevo solo un vuoto enorme, un silenzio cosmico. Sono andato avanti ad amare nell’unico attimo che possiedo, quello presente. Il senso di giustizia si è tradotto nel cercare di fare qualcosa per gli altri: all’università, esiste un ufficio che supporta gli studenti che, per problemi oggettivi, hanno più difficoltà a seguire le lezioni e a studiare. Più che un ufficio è per me una palestra per amare chi più è in difficoltà.  Mi hanno dato in uso una telecamera e un pc portatile con i quali riprendo le lezioni dei corsi più difficili, quelli per i quali non esistono testi utili, o, se anche esistono, necessitano di un professore che ti faccia capire appieno le cose. Tutta questa esperienza è una palestra per allenarmi giorno dopo giorno alla pazienza, alla mitezza, ma soprattutto mi apre un canale diretto di comunicazione con chi soffre. La scoperta di Dio che è Amore mi dà la forza e la gioia di non chiudermi nel piccolo orticello dei miei problemi, ma di spingere lo sguardo oltre, verso il prossimo. (M. T. – Italia) (altro…)

«Guardandoli, ho pensato: forse ci riesco anch’io!»

In famiglia non abbiamo avuto una vita facile. Siamo in cinque fratelli e questa non è una cosa straordinaria, ma quando i miei genitori si sono sposati, erano molto giovani. Gli anni successivi, i problemi economici, i debiti, i momenti di crisi tra il papà e la mamma ci hanno messo tante volte in difficoltà. I miei fratelli più grandi hanno cercato la loro strada, spesso contestando fortemente il papà… mettendo lo studio all’ultimo posto. Era difficile trovare qualcosa di positivo nell’esperienza che avevamo vissuto fino a quel momento. Poi, la nostra strada si è incrociata con quella di un’altra coppia che la mamma ha conosciuto: si volevano bene, volevano bene ai loro figli, e questo amore si riversava in modo concreto anche fuori dalla loro famiglia. Io ero piccolina ma mi ricordo la novità che era entrata nella nostra casa: sapere che esisteva una rete di persone unite, giovani e adulti, che vivevano il Vangelo. Dopo un po’ però questa famiglia si è trasferita e, perdendo il loro sostegno, noi ci siamo allontanati sempre di più dalla realtà che avevamo conosciuto. Di nuovo discussioni, offese, debiti… A volte la mamma era costretta ad andare dai vicini a chiedere qualcosa da mangiare da mettere nei piatti. Io sono andata totalmente in crisi: perchè Dio permetteva tutto questo? Davanti a noi c’era di nuovo una situazione terribile. Andando alle superiori, uno spiraglio: un giorno, conosco una ragazza che mi rimette in contatto con la comunità del Movimento dei Focolari nella mia città. Era una ragazza che faceva la mia stessa scuola e ho riconosciuto nei suoi gesti, nelle sue scelte, nelle sue parole, lo stesso impegno di vivere il Vangelo. Partecipando ad un incontro, sento una signora raccontare com’era riuscita a perdonare suo marito che l’aveva tradita. Lì, accanto a lei, ora c’era tutta la sua famiglia… Guardandoli, ho pensato: forse ci riesco anch’io. Sono tornata a casa e piano piano ho capito cosa fare: non volevo aspettare che fossero gli altri ad amarmi. Avrei cominciato io. Volevo provare se c’era ancora posto per l’amore vero anche nella mia famiglia. Se il piccolino, il figlio di mia sorella, piangeva, lo prendevo io e lo cambiavo. Se la mamma aveva bisogno di aiuto, senza aspettare che me lo chiedesse, mi mettevo con lei a pulire la casa. Se il papà era da solo, andavo da lui e con un abbraccio cercavo di dargli un po’ di attenzione, di affetto, mettendomi a guardare il calcio con lui per tutto il pomeriggio. E’ cambiato il clima tra tutti: io stessa mi sono ritrovata carica di affetto e di gesti di attenzione concreti, ma ho visto che anche tra papà e mamma le cose miglioravano, quasi senza accorgersene. Abbiamo cominciato a capire che cos’è una famiglia. Un giorno, sono tornata dopo aver passato un pomeriggio a giocare con i bambini malati nel reparto di un ospedale; il papà ha voluto sapere com’era andata… E più gli raccontavo e più mi accorgevo che anche lui cominciava ad aprirsi, ricordando momenti difficili della sua infanzia, il suo dolore quando aveva perso il papà… Era la prima volta che scoprivo in lui una sofferenza così grande. E’ stato un momento di rapporto speciale tra di noi. Quando, tempo fa, il papà ha rischiato di morire, ho chiesto a Dio di non portarlo via. Era troppo presto: c’era ancora qualcosa da fare. Infatti, sono stati mesi importanti anche per la mamma che è stata sempre accanto a lui. Penso che questa lunga esperienza mi abbia fatto sperimentare che l’amore vince tutto. Sicuramente ci sono ancora delle difficoltà, perchè c’è sempre tanto da migliorare, ma ho avuto la conferma che la realtà straordinaria e originale che è il cuore di ogni famiglia, ciascuno la deve costruire in prima persona. (C. D. – America del Sud)

Dalla ricerca della verità, uno sbocco imprevedibile…

Sono stato nominato difensore d’ufficio di A., arrestato per furto aggravato. Mentre faccio ingresso in tribunale, si avvicina a me il padre dell’arrestato, supplicandomi di fare in modo che il figlio resti in carcere perché «drogato, violento e ribelle verso la famiglia, rifiuta ogni forma di recupero dalla tossicodipendenza». Gli agenti penitenziari mi accompagnano dal detenuto che aveva trascorso la notte in carcere. Come prima cosa mi chiede di aiutarlo a non rimanere in quell’orribile posto. Studiando le carte del processo, noto che ci sono delle sfasature processuali che mi  consentirebbero di ottenere la scarcerazione dell’interessato. Ma mi assale il dubbio: cosa sarà meglio per questo povero ragazzo? Ha forse ragione il padre? Tuttavia il carcere non è poi così salutare per un tossicodipendente, che – per mia esperienza – è quasi sempre un essere sensibile e bisognoso d’affetto. Cerco di ascoltare dentro di me la voce dello “Spirito di verità”, per cercare una via d’uscita. All’udienza per il giudizio in direttissima, chiedo al magistrato di concedere un termine di 5 giorni per preparare la difesa. A. torna in carcere, ma – mentre viene portato via dalle guardie – mi lancia uno sguardo impaurito che ancora non dimentico. Gli dico: «Stai tranquillo, verrò a trovarti, dobbiamo parlare». La mia intenzione era quella di trovare una casa di recupero per tossicodipendenti. All’uscita dal Tribunale mi viene ancora incontro il papà di A., convinto che il figlio non avrebbe accettato di andare in questa casa: loro ci avevano provato più volte, inutilmente. Raccolgo il suo sfogo, in cui mi racconta il dramma della sua famiglia che si stava sgretolando a causa di questo figlio drogato. Passano i cinque giorni. In carcere A. riceve delle cure di metadone; migliora di giorno in giorno. Riusciamo nel frattempo a trovare la casa di cura, la migliore, che qualche mese prima lo aveva rifiutato. Poco prima del processo parlo al ragazzo: «Promettimi di andare in casa di cura, e di tornare a volerti bene; io farò in modo che tu venga rimesso in libertà. Sappi, in ogni caso, che i tuoi genitori ti vogliono un bene grande e che tuo padre di certo è qui fuori ad attendere la sentenza del giudice». Commosso, mi risponde: «Ok, ci sto!». A. viene rimesso in libertà. Il giudice aveva intuito tutto il lavorìo che c’era stato e mentre andava via, mi saluta con un sorriso. All’uscita un grande abbraccio tra il padre e il figlio. A. oggi vive in una casa di cura per tossicodipendenti e in famiglia è tornata la pace. Il padre in seguito mi ha detto: «Siamo entrambi padri di A.» (C. I. – Italia)