Giu 26, 2018 | Focolari nel Mondo, Spiritualità
A tu per tu con Gesù Come sindaco, non c’è giorno senza che venga fermato per strada anche solo per un saluto. Perfino in chiesa, durante la messa, non riesco a trovare il modo per stare “a tu per tu” con Gesù. Una domenica sono andato a messa nella città vicina, sperando di passare inosservato. Ma ho trovato la chiesa gremita, per una liturgia lunghissima presieduta dal vescovo. Fuori dalla chiesa c’era una donna, a cui ho fatto l’elemosina. Solo pochi passi e un altro povero, con il volto sfigurato. Sono andato avanti. Poi un pensiero: “Mi cercavi? Eccomi, in quella povera donna e in quell’uomo dal volto sfigurato”. Sono tornato indietro. L’uomo era ancora lì, grato perché ero tornato a cercarlo. G. – Italia Superstizione Salgo sul taxi e noto che la macchina è piena di “ninnoli”, segno che il tassista doveva avere delle credenze superstiziose. Durante il tragitto, mi sono fatta coraggio e gli ho detto: “Io credo in Dio, la mia fiducia poggia solo in lui”. Guidando mi ascoltava in silenzio. Passa qualche tempo e di nuovo chiamo un taxi. Con grande sorpresa ritrovo lo stesso tassista nella stessa macchina. Ma con sorpresa noto che quegli oggetti erano spariti e una corona del rosario era appesa allo specchietto. N. – Svizzera In “equipe” Siamo una infermiera, un tecnico di laboratorio e un medico. Lavoriamo in reparti diversi dello stesso ospedale. Siamo convinti che il Vangelo vissuto non si limiti a trasformare l’uomo, ma possa rinnovare anche le strutture, i quartieri, gli ambienti di lavoro. Per questo quasi sempre, la mattina, prima di iniziare il lavoro, troviamo un momento per condividere fatiche e gioie. È una scoperta continua capire che possiamo trasferire nel nostro posto di lavoro questa carica di amore concreto verso tutti, vivendo quotidianamente il nostro compito professionale. E., L. e B. – Italia I soldi nel cuscino Uscendo di chiesa con mio figlio, ci ha avvicinati una donna, chiedendo l’elemosina. Ho aperto il portafoglio e le ho dato tutto quello che avevo con me: 20 euro. Mio figlio si è meravigliato, a suo dire era troppo, ma io l’ho rassicurato, dicendogli che in ogni povero c’è Gesù e mi ero sentita di dare a quella donna tutto quello che avevo con me. Arrivati a casa, mi sono messa a riordinare la stanza dove avevamo accolto una coppia venuta in città per trovare un parente malato. Mio figlio è venuto ad aiutarmi. Cambiando la federa al cuscino, sono caduti fuori 200 euro. Noi avevamo dato a quelle persone la possibilità di essere vicini a una persona che soffriva, e loro avevano voluto ricambiare così. M. G. – Italia Hockey sul ghiaccio Da patito di hockey sul ghiaccio, aspettavo con ansia, subito dopo scuola, di assistere in tv alla finale di un’importante partita. Allo squillo della campanella, sono partito a tutto gas sul mio motorino. Ma dopo qualche metro ho forato una ruota. In fretta ho cercato di rigonfiarla con la pompa. Ma dopo qualche centinaio di metri ero di nuovo a terra. Per di più si è messo a piovere. Mentre procedevo a piedi, spingendo a mano il motorino, cresceva in me l’irritazione. D’un tratto mi è balenato in mente un pensiero: Gesù ha sofferto così tanto sulla croce, e tu non sei capace di accettare questa piccola contrarietà? Questo pensiero mi ha ridato la pace. G. – Olanda (altro…)
Giu 18, 2018 | Focolari nel Mondo, Nuove Generazioni, Sociale
Dopo le eruzioni del 3 giugno, che non hanno dato il tempo di scappare a tantissimi abitanti dei villaggi situati alle pendici del vulcano del Fuego, continuate con minore intensità nei giorni successivi, ora il pericolo più grande sembra rappresentato dalle continue valanghe di fango, detriti e cenere incandescente, chiamati “Lahar”. Scendono a velocità altissima dal cono del Fuego, con una potenza tale da sradicare e coprire tutto quanto incontrano sulla loro traiettoria, provocando forti vibrazioni simili a terremoti. Il Coordinamento Nazionale per la Riduzione dei Disastri ha confermato anche nei giorni scorsi lo stato di allerta per tre distretti, fornendo informazioni aggiornate sui dispersi e i centri di accoglienza e hotel che con grande generosità stanno aprendo le loro porte. Vi lavora anche Lourdes Barrientos. «Una delle mie funzioni – spiega – è quella dell’addestramento e organizzazione delle comunità in risposta alle emergenze e ai disastri. Ora stiamo vivendo questa emergenza, che ha portato dolore, perdite e morti in molte famiglie che vivevano nelle vicinanze del vulcano, specie nelle comunità di Chimaltenango, Escuintila e Sacatepéquez», i distretti dove l’allerta rimane “rossa”, cioè al livello più alto. Mentre procede, dolorosamente, la conta delle persone ritrovate senza vita, nella sede centrale dell’agenzia, a Città del Guatemala, la capitale, si organizzano gli aiuti. «Cerco di andare oltre la mia stanchezza per assolvere pienamente ai diversi compiti che mi vengono assegnati. All’inizio non era semplice, perché mi sembrava di non fare niente direttamente per la mia gente e per le vittime, e che stavo perdendo tempo rimanendo nella sede centrale. Infatti, davanti ai grandi problemi che le istituzioni si trovano ad affrontare, il mio lavoro consiste nel raccogliere ogni genere di informazione sulle comunità colpite. Questa situazione mi avviliva, sapendo che i miei compagni si trovavano invece nel “punto zero”, ovvero nei luoghi del disastro del 3 giugno, nel tentativo di trovare altri corpi e soccorrere le vittime. Sapevo che erano stanchi, che erano impegnati nell’organizzazione e nell’accoglienza negli alberghi, e tutto questo mentre io ero seduta in un ufficio. Per di più continuavo a ricevere messaggi da amici e conoscenti, dalle mie amiche gen e dalla mia famiglia, in cui mi si chiedeva se stavo bene e se mi trovavo nella zona del disastro. Poi ho capito l’importanza di mettere tutta me stessa, in qualsiasi posto mi trovassi ad operare, senza mai perdere la pazienza, nonostante siano tutti stanchi e nervosi. Siamo tutti in prima linea. Oltretutto posso offrire quello che faccio per i miei compagni che sono sul campo, in particolare per uno che ha perso la vita durante le operazioni di soccorso. Da ogni parte arrivano richieste di informazioni sulle vittime, c’è tanto dolore, ovunque necessità di ogni genere. Molte persone offrono aiuti, molti alberghi hanno aperto le porte. Si sente l’amore concreto di tanta gente. Questo ci dà la forza per continuare». Chiara Favotti (altro…)
Giu 14, 2018 | Cultura, Dialogo Interreligioso, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo
È giudice civile del tribunale di Marion a Indianapolis dal 1999 e nel 2007 è stato nominato giudice dell’anno per il suo lavoro a favore di detenuti e imputati dipendenti da droghe. David Shaheed è afroamericano e musulmano e divide la passione per il diritto con quella per il dialogo interreligioso. A partire dal 2019 presiederà l’Interfaith Alliance di Indianapolis. Il curriculum potrebbe mettere soggezione e invece il dottor Shaheed spiazza per la sua semplicità e la libertà con cui parla della sua fede e del rapporto che lo legava e lo lega a Chiara Lubich. «Mi ha dato il coraggio di uscire fuori dalle nostre fedi, di aiutare gli altri e di capirli. Ma questo non è rimasto un concetto astratto perché Chiara mi ha dato modo di viverlo e dimostrarlo». Il giudice ha tratto ispirazione dall’esperienza di distruzione della Seconda guerra mondiale vissuta dalla Lubich per ideare una riforma della sua corte. «Il mondo era sotto la pressione di questo enorme conflitto. Eppure questa giovane trentina ha superato le sue paure personali per cercare il dolore altrui: la sua testimonianza mi ha dato coraggio per istituire nel mio lavoro un tribunale speciale per chi ha problemi mentali o è dipendente da sostanze stupefacenti». Il giudice infatti, rompendo una tradizione giudiziaria che affidava ai tribunali ordinari il trattamento di imputati con deficit psichici o con dipendenza da alcol e droghe, con conseguenti condanne che non guardano alla riabilitazione della persona, ha chiesto ai colleghi di guardare all’impatto che il carcere o la libertà vigilata avevano sulla vita dei condannati. Di fatto molti di questi rei tornavano in corte o in prigione per nuovi reati senza ricevere trattamenti adeguati alla loro persona e al loro disagio. Dopo iniziali scetticismi e imbarazzi, la sfida di “servire gli ultimi” è diventata obiettivo comune anche degli altri magistrati del tribunale locale che, superando la tradizione della Common law che assegna alle corti d’appello competenza in materia, lo scorso anno ha varato una nuova sezione per persone “speciali”. In questo modo gli imputati vengono assistiti nell’accesso alle cure e alle consulenze specializzate e sia la prigione, che la corte, che l’intero sistema giudiziario sono orientati ai bisogni della persona e non alla condanna e alla punizione magari per reati futili.
«Sono cresciuto in America dove fino a oggi c’è una storia forte di razzismo, ma incontrare i Focolari mi ha aiutato a capire che i bianchi e i loro antenati europei non avevano tutti la stessa ostilità verso gli afroamericani. Per me è stato un’esperienza liberante, perché vivevo sotto l’influenza di questa mentalità e invece per la prima volta avevo fratelli di discendenza europea. Ho imparato dai Focolari che la vita di Gesù è stata mostrare misericordia e compassione per gli altri. Ho imparato a vivere così da giudice e a provare la compassione. Fare parte della comunità del Focolare per me significa dar la migliore prova di come vivere gli attributi di Dio scritti nel Corano, e cioè l’amore, la misericordia e la compassione». Guardando alla missione del Movimento a dieci anni dalla scomparsa di Chiara Lubich, il giudice dell’Indiana si augura che «il dialogo vada avanti, perché il modello dei Focolari è uno dei modelli migliori di incontro tra persone di differenti religioni, etnie o nazionalità. In un clima di forte nazionalismo come quello in cui stiamo vivendo, dove i propri interessi hanno la priorità su tutto, la nostra esperienza è una contro-narrativa perché mostra che la parola di Dio porta le persone a incontrarsi e a non isolarsi, e questo è un esempio non solo per la fede e la religione, ma è un esempio di vita che serve al nostro Paese». Fonte: Città Nuova n.6, giugno 2018 (altro…)
Giu 13, 2018 | Famiglie, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Spiritualità
Il racconto di una vita insieme passa con naturalezza dalle parole di Anna a quelle di Claudio, quasi fossero diventati, dopo tanti anni di matrimonio, una sola persona. «Quando ci siamo sposati ci univa l’entusiasmo – comincia lei – e la gioia di veder nascere la nostra famiglia. Nella cittadina del nord Italia, dove ci siamo trasferiti per il lavoro, non conoscevamo nessuno. Io mi occupavo delle faccende di casa, e aspettavo che lui tornasse, la sera. Eravamo felici, ma… ci mancava qualcosa. Una domenica ci siamo avvicinati a un sacerdote, fuori dalla chiesa. Lo abbiamo invitato a casa, e lui è arrivato portandoci una rivista, “Città Nuova”. Poi ci ha parlato della Parola di Vita. Ci è sembrato che anche noi potevamo impegnarci a vivere il Vangelo». «Avevo un buon lavoro – spiega Claudio -, costruivamo macchine per lo sviluppo e la stampa di pellicole cinematografiche. Ma dopo la morte del titolare erano sorte difficoltà con gli eredi. A un certo punto mi arrivò una proposta molto appetibile. Un lavoro ben pagato ma, venni a sapere, dai contenuti eticamente inaccettabili. Fummo d’accordo, io e mia moglie, di non accettare. Poco dopo un’altra opportunità, questa volta con uno stipendio più basso. Intanto era nato il secondo figlio, e le esigenze della famiglia crescevano. Abbiamo accettato, fidandoci che non ci sarebbe mancato nulla. Il lavoro era tanto e avevo bisogno di un collaboratore. L’ufficio del personale mi propose una persona con problemi caratteriali, che al primo contatto, infatti, rispose: “Se lei pensa di farmi lavorare si sbaglia di grosso”. Ero cosciente che avrei dovuto compensare le sue carenze, ma ci eravamo ripromessi di amare tutti, quindi non potevo tirarmi indietro. In seguito anche lui si è appassionato al lavoro, e a Natale, dentro un pacco avvolto di carta di giornale, mi ha portato in dono un trenino per mio figlio». «Aspettavo il terzo bambino – riprende Anna – quando arrivò per Claudio una nuova opportunità di lavoro. Nella nuova città dove ci siamo trasferiti sono nati gli altri quattro figli. Una piccola “tribù”, che cresceva assaporando il nostro stile di vita e l’armonia che cercavamo di mantenere tra noi. Anch’io lavoravo, insegnavo tedesco alle superiori, e questo comportava molto impegno, ma i ragazzi collaboravano, aiutandosi nei compiti o preparando la cena. Una sera ero sul pullman, di ritorno da scuola, che distava circa 30 km. Diluviava, e già pensavo che mi sarei bagnata tutta. Non esistevano allora i cellulari. Alla fermata dell’autobus, trovai uno dei figli, ancora ragazzino, ad aspettarmi con l’ombrello. Qualche anno dopo, quando già eravamo in nove (più una gatta), per il lavoro di mio marito si è prospettato ancora un altro trasferimento. Io ero molto titubante. Ma capivo che lui soffriva a vivere in albergo per cinque giorni la settimana. Per amor suo, ci siamo convinti a fare di nuovo i bagagli. Capivamo l’importanza di essere sempre uniti, e spesso pregavamo insieme nei momenti di difficoltà. Durante la giornata ero sola, ma sapevo che lui era con me. Certe volte, dopo cena, facevamo il giro dell’isolato, quattro passi insieme per ritrovarci da soli noi due». «Ora i nostri figli sono tutti sposati – riprende Claudio -. Uno di loro si è separato dalla moglie, e per noi è stato un grande dolore. Durante un recente pellegrinaggio abbiamo affidato a Maria questa situazione. Dapprima abbiamo pregato perché si ricomponesse la sua famiglia. Dopo un po’ ci è sembrato che fosse più giusto chiedere, per loro, la conversione del cuore. Infine abbiamo capito. La grazia da chiedere era un’altra: la nostra conversione. Siamo partiti da lì col desiderio di essere attenti a quello che Dio ci avrebbe chiesto ancora. Perché vorremmo non smettere mai di essere strumenti del Suo amore. È l’amore l’unica cosa che in una famiglia non deve traslocare mai». Chiara Favotti (altro…)
Giu 11, 2018 | Focolari nel Mondo, Sociale, Spiritualità
L’ho intravisto di sfuggita mentre entravo di corsa al supermercato. Era lì, quasi nascosto dietro un albero, come se si nascondesse da qualcosa o da qualcuno. Me ne sono accorto quando, uscendo, me lo sono trovato davanti. Avevo già preparato due euro per lui, ma mi sentivo male all’idea di fare la parte del “donatore” che regalo uno spicciolo al “mendicante”. Non siamo uomini tutte e due? Con fortune diverse nella vita, semmai. Mi è venuto spontaneo, mentre gli porgevo la moneta, di presentarmi: “Ciao, mi chiamo Gino e tu?”. “Sylvester”, risponde con voce impacciata. “Hai qualche problema?”, chiedo. Dopo un attimo di silenzio – avrei capito dopo che era dovuto più all’incomprensione dell’italiano che all’impaccio -, “No, tutto bene”, mi risponde. Non convinto, lo interpello ancora: “Guardami negli occhi e dimmi se hai qualche difficoltà”. Ancora “tutto bene” è la sua risposta. Mentre raggiungo la macchina, però, sento che mi viene incontro: “Sì, ho un problema: voglio lavorare”. Gli stringo la mano in segno di comprensione e vado via portandomi in cuore il suo sguardo e la sua dignità ferita. Non senza esserci scambiati i cellulari, non vogliamo perderci. Così siamo diventati amici, al di là della lingua e delle diversità culturali, Sylvester e io. Un incontro di persone, ciascuna con la propria dignità. Da quel giorno mi adopero in tanti modi con la consapevolezza che la prima cosa da affrontare è aiutarlo a superare la barriera della lingua. Per quanto sia in regola con i documenti, è irrealistico pensare che possa trovare un lavoro se non riesce a esprimersi e a capire l’italiano. Come dirglielo senza conoscere la sua lingua e viceversa? Mi viene in mente un amico che viene dal suo Paese e gli chiedo se può farmi da interprete. Ci troviamo così seduti al tavolino del bar davanti al supermercato a parlare, con traduttore e birra, per conoscere meglio la sua situazione. Prima di lasciarci gli faccio un invito: “Ricordati Sylvester, nessun lavoro è piccolo se fatto per amore. Tu non sei qui per chiedere, ma per offrire un aiuto a chi ha bisogno, condividere il peso della borsa della spesa, trovare parcheggio o un semplice carrello. Dio ama immensamente te, me, ciascuno. Ora ci metteremo a bussare insieme, come ci insegna il Vangelo. Vediamo se qualche porta si apre. Ma intanto è questo il tuo lavoro, fallo a testa alta, senza perdere la tua dignità”. La sera seguente mi arriva un suo messaggio via whatsapp: “Buonasera Gino, come stai? Spero che tu stia bene insieme alla tua famiglia. Grazie per quello che stai facendo per me. Dio ti benedica perché ti prendi cura di me. Non vedo l’ora di trovare un vero lavoro, ma intanto farò come dici, mantenendo lo sguardo in alto e pulito. Ti aspetto”. Ho dovuto usare ‘google traduttore’ per capire il suo messaggio e rispondergli: “Caro Sylvester, grazie per i tuoi saluti. Oggi ho cercato informazioni per un corso gratuito di italiano. Spero al più presto di poterti dare buone notizie”. Nei giorni seguenti faccio l’esperienza, già conosciuta, di quanto sia difficile aiutare qualcuno! Per qualche motivo a me tuttora sconosciuto prevale sempre la benedetta burocrazia. Ma decido di non arrendermi, anche perché nel frattempo trovo altre persone disposte a farsi prossime a Sylvester. Ora non sono solo, e nemmeno lui lo è più. Domani inizierà le lezioni di italiano, primo passo per riuscire a trovare un lavoro e così poter inviare un sostegno a sua moglie e ai loro due figli piccoli, rimasti nel Paese natale. Forse un giorno potranno ricongiungersi. Prego che sia così, caro Sylvester! Gustavo Clariá (altro…)