Mar 26, 2014 | Cultura, Spiritualità
Il 12 luglio 2012, la 66° sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 20 marzo come Giornata internazionale della felicità. UNRIC Italia ha scelto di portare l’attenzione del pubblico italiano su questo tema chiedendo il contributo del Professor Luigino Bruni, ordinario di Economia Politica all’Università Lumsa di Roma e coordinatore a livello mondiale del progetto “Economia di Comunione” – lanciato da Chiara Lubich in Brasile nel 1991 e intorno al quale ruotano circa 1000 aziende nel mondo. Economia di Comunione propone agli imprenditori la condivisione degli utili delle proprie aziende per progetti di sviluppo in varie parti del mondo, e pone le proprie basi su una cultura economica basata sulla reciprocità e sul dono.
Lei Prof. Bruni è uno dei primi studiosi che ha rilanciato una tradizione italiana della felicità diversa da quella che proviene dagli Stati Uniti. Può spiegarci meglio le radici di questa visione della felicità? «L’origine più remota dell’idea di felicità la si trova nella cultura antica greca e romana, in particolare Aristotele aveva legato la felicità alle virtù e l’aveva distinta dal piacere. L’eudaimonia, così la chiamava, era un concetto che oggi dovremmo tradurre con “fioritura umana” perché rimanda all’idea che la felicità sia uno stato generale dell’esistenza, e che quindi come tale abbia a che fare più con l’ “essere” ed il ”fare” che non con il “sentire”. […] I greci, in uno dei momenti epocali della storia umana – l’anima fondamentale della cultura romana successiva – capirono che stava iniziando “l’era degli uomini”, che potevano essere finalmente liberati dalla dea bendata, dalla sorte, e da tutta quella magia che domina sempre nelle culture basate sulla fortuna. Lo strumento di questa liberazione fu proprio la virtù (areté), poiché solo l’uomo virtuoso può diventare felice coltivando le virtù, anche contro la cattiva sorte. È qui che inizia la nostra responsabilità, perché si inizia a poter dire che il principale protagonista della mia felicità (e infelicità) sono proprio io, e non gli eventi esterni, che certamente pesano nel mio benessere, ma che non sono mai decisivi nel determinare la felicità». Ma come è entrata questa idea di felicità nella scienza economica?
«Gli economisti ed i filosofi italiani del Settecento […] con un esplicito riferimento alla tradizione romana e medievale della felicità pubblica e poi al bene comune, posero la felicità – in particolare la pubblica felicità – al centro della loro riflessione economica e civile. Scegliendo la felicità pubblica come scopo dell’economia, avevano ben chiaro che il passaggio dai beni al ben-essere è sempre complesso, e che molte dimensioni della felicità si possono perdere nel processo di traduzione (dalla ricchezza “wealth”alla felicità). Per tutto l’Ottocento la scuola italiana di economia continuò a caratterizzarsi per avere la felicità come principale oggetto di studi […]. Non è quindi un caso che ancora oggi gli economisti italiani sono tra i protagonisti del nuovo movimento su Economia e Felicità, riaperto negli anni 70, soffermandosi in particolare proprio sul nesso fra felicità e relazioni sociali, un’eco evidente della antica tradizione della felicitas publica». Quali gli aspetti più rilevanti della felicità per la vita economica e civile del nostro tempo? «Il primo elemento che mi sembra particolarmente rilevante per la situazione in cui si trovano la nostra economia e la nostra società è il nesso profondo fra la felicità e le virtù. In una cultura che sempre più sottolinea il piacere edonistico e lo svago come valori abbinati alla felicità, l’antica tradizione italiana della felicitas publica ci invita invece a tener ben presente che non c’è vita buona individuale e sociale senza la coltivazione dell’eccellenza […] e quindi senza l’impegno e il sacrificio. In secondo luogo in una fase dell’Occidente in cui il narcisismo sta diventando una vera e propria pandemia, la tradizione della pubblica felicità ci ricorda il nesso imprescindibile fra vita buona e rapporti sociali: non si può essere veramente felici da soli perché la felicità nella sua essenza più profonda è un bene relazionale. […]. Come ci ricordano oggi filosofi come Amartya Sen e Martha Nussbaum , la ricerca del piacere è troppo poco per poter parlare di felicità, perché esistono delle “buone sofferenze” (good pains) e dei “cattivi piaceri” (bad pleasures), cosa che dimentica sistematicamente ogni cultura edonista. La Giornata della Felicità allora deve essere una occasione per riflettere seriamente sul nostro modello di sviluppo e sul nostro stile di vita senza far ricadere anche questa giornata dentro il “festival delle banalità” che ci porterebbe a festeggiarla limitandoci a inserire qualche smile qua e là su facebook o su whatsapp. La felicità pubblica invece ci invita a riflettere sui patti sociali, sui legami e sulle radici profonde della vita in comune». Fonte: unric.org/it (altro…)
Set 28, 2008 | Cultura
Dopo il fallimento della Washington Mutual, che si aggiunge ai fallimenti di banche e fondi americani delle settimane recenti, è ormai chiaro che ci troviamo di fronte alla crisi finanziaria più grave dopo quella del ventinove. Basti pensare che la somma che Henry Paulson ha chiesto al Congresso americano di stanziare per rilevare e cancellare i titoli “tossici” delle banche ammonta a 700 miliardi di dollari, una cifra pari al 5 per cento del Pil degli Stati Uniti. Siamo dunque vicini alla fine del capitalismo? Forse no, ma è probabile che siamo di fronte alla fine di un certo capitalismo finanziario e speculativo – cresciuto troppo e male negli ultimi due decenni – di cui la crisi attuale è solo una (e non l’unica) eloquente espressione. Una crisi le cui cause hanno radici profonde, nel sistema finanziario ma anche negli stili di vita e di consumo. Una prima causa è lo snaturamento del ruolo e della funzione della banca e della finanza. Le istituzioni bancarie e finanziarie sono indispensabili nell’economia moderna. La banca è stata, e continua a essere, una cinghia di trasmissione sociale tra generazioni (il risparmio di un adulto consente un investimento per un giovane) e tra famiglie e imprenditori. La banca, e la finanza, sono quindi istituzioni essenziali per il bene comune. Le prime banche popolari sono state infatti i Monti di Pietà dei francescani, inventati nel Quattrocento, come mezzo per liberare i poveri dal cappio dell’usura. La malattia del capitalismo contemporaneo è la progressiva trasformazione delle banche da istituzioni a speculatori. Lo speculatore è un soggetto il cui scopo è massimizzare il profitto. L’attività che svolge non ha alcun valore intrinseco, ma è solo un mezzo per far arricchire gli azionisti. L’economista Yunus, Nobel per la pace, fondatore della Grameen Bank, una delle innovazioni finanziarie più interessanti dell’ultimo secolo, ha più volte affermato che nell’economia di mercato l’accesso al credito è un diritto fondamentale dell’uomo, poiché senza questo diritto le persone non riescono a realizzare i propri progetti e a uscire dalle tante trappole della miseria. Se questo è vero allora la banca speculatrice deve essere l’eccezione e non la regola dell’economia di mercato, se non altro perché i prodotti che la banca gestisce sono sempre ad alto rischio. Va infatti notato che la crisi attuale non è stata scatenata dalle banche ordinarie, ma dalle banche d’affari, soggetti fortemente speculativi. Può sembrare paradossale, ma la natura della banca è vicina a un’impresa nonprofit e non a quella dello speculatore. L’impresa nonprofit (come le università o i teatri) è un’istituzione che ha un vincolo di efficienza e di economicità, che non ha come scopo il profitto ma gli interessi di molti soggetti. Non è certo un caso che, dai Monti di Pietà alle banche cooperative, la banca si è pensata anche come impresa senza scopo di lucro, perché tanti erano gli interessi che doveva soddisfare. Ciò che i fallimenti, e ancor più i salvataggi, di questi giorni stanno insegnando che la banca è un’istituzione con un grande valore sociale e con una grande responsabilità: non può essere lasciata al gioco rischioso della massimizzazione dei profitti degli azionisti, a causa della pluralità di interessi che essa deve contemperare. La nuova e più attenta regolamentazione dei mercati finanziari, che tanti economisti auspicano, va nella direzione di riconoscere alle banche una responsabilità sociale che negli ultimi decenni è andata smarrita, nonostante una crescita esponenziale di strumenti di stima del rischio e di agenzie di rating. Ma dietro questa crisi c’è anche una patologia del consumo delle famiglie, che dal capitalismo americano si sta estendendo a tutto l’occidente opulento. L’eccessivo indebitamento delle famiglie americane ha creato un terreno fragile che è crollato sotto il peso della crisi dei mutui subprime. I mutui sulla casa si sono infatti aggiunti a tutta una serie di debiti in una cultura che privilegia il consumo qui e ora e che ha dimenticato il valore, anche etico, del risparmio. Nessuno nega che entro certi limiti il debito delle famiglie possa essere virtuoso per l’economia e per il bene comune. In realtà, sempre più spesso il consumo è sollecitato e drogato da un sistema economico e finanziario, complici i media, che induce le famiglie a indebitarsi al di là delle reali possibilità di restituzione del debito. L’istituzione finanziaria che presta troppo e alle persone sbagliate non è meno incivile di quella che presta troppo poco alle persone giuste. La crisi attuale può dunque essere anche una grande occasione per una riflessione profonda sugli stili di vita insostenibili che l’attuale capitalismo finanziario ha determinato: non si tratta di immaginare un’economia senza banche e senza finanza. La banca e la finanza sono troppo importanti per lasciarle ai soli speculatori. Una buona società non si fa senza banche e senza finanza, ma con una buona banca e una buona finanza. La storia della finanza europea ha da secoli dato vita a istituzioni bancarie “a movente ideale”, che hanno umanizzato l’economia moderna. Occorre che anche oggi fioriscano imprenditori e banchieri animati da scopi più grandi del solo profitto. Senza questi nuovi attori non ci sarà democrazia né economica né politica. La sfida è allora soprattutto culturale e antropologica e per essere vinta richiede l’impegno di tutti e di ciascuno. Dentro e fuori i mercati. di Luigino Bruni Università Milano-Bicocca coordinatore del progetto dell’Economia di Comunione (Focolari) (©L’Osservatore Romano – 28 settembre 2008)