Coniugare professione e paternità secondo i valori del Vangelo: la testimonianza di un medico peruviano José Luis Raygada, in prima linea nella lotta contro COVID-19.

Sono medico da 25 anni e padre da 17 ma mi rendo conto che non ho ancora imparato ad essere sia l’uno che l’altro in coerenza ai valori in cui credo. Questi tempi di pandemia si stanno rivelando una vera e propria scuola per me, per crescere in entrambi i ruoli, anche in aspetti finora sottovalutati non solo da me ma da gran parte della gente.

Fin dall’inizio di questa epidemia mondiale ho lavorato in un ospedale da campo per pazienti Covid nella città di Piura, nel Perù settentrionale, il primo in città. Seguo i malati ricoverati e ho visto morire più pazienti in questi ultimi 3 mesi che in 25 anni di professione medica.

Mi sono formato in una delle migliori scuole di medicina del Paese con prestigio accademico e rigore scientifico. Questa terribile malattia mi ha fatto scoprire i limiti, l’impotenza e la frustrazione della scienza medica di fronte a questo virus sconosciuto. Nonostante la massiccia somministrazione di ossigeno e le terapie che la scienza mette a disposizione ho visto i miei pazienti soffrire molto e morire per asfissia e ci scontriamo ogni giorno con la mancanza di personale e di attrezzature di un ospedale come il nostro, in un paese povero. E quante volte mi sono sentito impotente e frustrato di fronte ai pazienti quando la malattia diventava aggressiva! In mezzo allo smarrimento generale si sentiva gridare: “Ho sete! Acqua per favore! Datemi dell’acqua! Acqua!”; a volte le persone si lamentavano e, solo quando ci si avvicinava a loro, chiedendo se volevano bere, facevano un cenno con la testa. E’ così che, oltre al mio lavoro scientifico, ho cominciato a dare da bere a tutti quelli che me ne chiedevano, a sistemare il cuscino, a tenere le loro mani tra le mie, ad accarezzare loro la fronte, a massaggiare la schiena quando me lo domandavano, o a passare loro il secchio per urinare. O semplicemente li aiutavo a camminare, pregavo con loro o per loro e, alla fine, cercavo di dar loro conforto negli ultimi momenti.

Ho compreso che nella professione medica c’è una doppia dimensione: quella dell’autorità supportata dalla scienza che spesso guarisce, ma c’è anche la dimensione dell’essere umano, basata sulla misericordia e sull’amore che vengono da Dio e si esprimono in atti quotidiani e semplici che spesso guariscono l’anima. Scienza e piena umanità, conoscenza e misericordia, corpo e anima, uomo e Dio, ragione e fede: è una moneta a due facce che rende pieno il nostro dare e vivere; un delicato equilibrio da raggiungere.

Tra il lavoro estenuante in ospedale, il sovraccarico di emozioni intense e le mie debolezze, tornavo a cena a casa con l’unico desiderio di riposarmi e sfogarmi. Mio figlio maggiore, nel pieno dell’adolescenza, frustrato dal lockdown e con l’energia della gioventù, ha iniziato a discutere con tutti, soprattutto con me. Mi trattava da avversario o da nemico e a tavola era come essere su un campo di battaglia. Inizialmente, preda delle mie passioni e della mia impulsività, ci siamo scontrati in una specie di lotta amara dai toni offensivi. Per l’ennesima volta ho visto la mia autorevolezza compromessa e il tentativo di imporla con la forza ha peggiorato le cose.

A casa ho riscoperto anche altri aspetti del mio essere padre come la misericordia e l’umiltà e così ho cominciato a tacere e a offrire a Dio il mio perdono di fronte alle offese, ma anche a esprimerlo e a chiederlo se mi accorgevo di essermi spinto troppo oltre. Ho cercato di leggere nell’atteggiamento aggressivo di mio figlio una richiesta di aiuto e di affetto; a tacere di più per smorzare i toni della discussione e a continuare a pregare da solo e in famiglia anche quando sembrava tutto inutile.

A poco a poco il nostro rapporto si sta normalizzando e tornando all’interno dei normali canali padre-figlio. Ancora una volta questi due assi portanti: autorevolezza e misericordia. Non sono forse espressioni della vita divina?.

A cura di Gustavo E. Clariá

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