Movimento dei Focolari
Brasile: In Amazzonia la mia bussola è l’amore

Brasile: In Amazzonia la mia bussola è l’amore

Intervista a fra Gino Alberati, missionario dal 1970 tra la gente del sub-continente amazzonico. Ora che i riflettori mediatici sul polmone verde della terra si sono spenti, perché gli incendi sono stati domati e il Sinodo per l’Amazzonia della Chiesa cattolica ha varato il documento finale, ci sembra importante continuare a dar voce a chi l’Amazzonia la abita e contribuisce al suo sviluppo ogni giorno. Il rischio di guardare a questo pezzo di terra come a una cartolina esotica, distante dalla vita delle nostre metropoli è molto forte. Si tratta di uno dei più estesi laboratori multi-culturali del pianeta, un aspetto che fa sicuramente meno scalpore della questione ambientale, ma il cui rispetto e salvaguardia sono altrettanto centrali per la sopravvivenza della sua popolazione. Per questo raccogliere la sfida culturale in Amazzonia e sostenere educazione e formazione umana è d’importanza vitale.

© ACN Kirche in Not

Della sua popolazione fanno parte anche diverse comunità dei Focolari, famiglie, ragazzi e religiosi, come frei Gino, come tutti lo chiamano. Fra Gino Alberati è un missionario cappuccino italiano che vive e lavora in Amazzonia dal 1970, servendo decine di comunità sul fiume Solimões, al confine brasiliano con Colombia e Perù. Viaggia su di una barca ricevuta in beneficenza, di cui lui stesso cura la manutenzione. Gli permette di celebrare messa e portare la parola di Dio alle comunità dislocate su di un territorio vastissimo e gli consente anche di salvare vite umane perché il medico più vicino spesso dista giorni di viaggio. Lo raggiungiamo a fatica e riusciamo a intervistarlo solo via Whatsapp. Della sua preparazione alla missione, fra Gino racconta di giornate intere trascorse all’ospedale S. Giovanni, a Roma. “Per nove mesi entravo nei laboratori analisi e nelle sale operatorie; lo facevo per imparare qualcosa di medicina, perché sapevo che nella missione a cui ero destinato non ci sarebbe stata alcuna struttura sanitaria e mi sarei dovuto improvvisare medico. Avevo 29 anni quando sono arrivato in Amazzonia e non mi importavano le distanze o i mezzi di trasporto precari che utilizzavo – spiega frei Gino – la mia bussola era l’amore. In questi anni ho fatto davvero di tutto e ora seguo una parrocchia che copre un territorio lungo 400 Km, sul Rio delle Amazzoni e il Rio Içà”. Quando gli chiediamo di cosa viva la gente, risponde che il fiume è la loro vita. “Sul fiume viaggiano e pescano; l’acqua fertilizza le terre più basse. Attualmente seguo 40 comunità, oltre alla parrocchia della città di Santo Antonio do Içà. Sono anche consigliere municipale per la salute pubblica e porto all’amministrazione comunale le necessità sanitarie delle comunità che visito. Non abbiamo vissuto da vicino il dramma degli incendi perché in questa zona siamo lontani dai grandi interessi; ciò nonostante la diminuzione del territorio ricoperto dalla foresta è sotto gli occhi di tutti. Della popolazione fanno parte anche indios di etnia Ticunas; sono circa 45.000 e vivono di agricoltura, caccia e pesca. Lavoriamo molto per dare loro una formazione umana, culturale e spirituale di base. Da poco abbiamo consegnato a 200 leader di 24 comunità la Bibbia dei piccoli, tradotta proprio in lingua Ticuna”. Fra Gino insiste sul ruolo fondamentale degli indios per la conservazione del pianeta: “Sicuramente sono stati fatti molti sforzi per combattere il rischio inquinamento, come ad esempio l’uso dei motori a idrogeno nei mezzi di trasporto, ma, nonostante ciò, i grandi del mondo vedono solo il ‘dio quattrino’ e vogliono prendere le terre dei nativi per estrarre minerali e petrolio. Lo stile di vita degli indios segue il ritmo della natura; prendono dalla terra solo l’essenziale, lavorano piccoli appezzamenti di terra e per questo non sono necessari grandi disboscamenti.” Quando gli chiediamo quale sia la cosa più preziosa di cui gli uomini e le donne dell’Amazzonia abbiano bisogno, dopo le necessità materiali, risponde che è senz’altro l’amore, “l’amore reciproco che porta alla fraternità”, capace di trasformare persone e territori ad ogni latitudine.

Stefania Tanesini

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Chiara Lubich: chiusa la fase diocesana di beatificazione

Chiara Lubich: chiusa la fase diocesana di beatificazione

Si è conclusa domenica 10 novembre la fase diocesana della Causa di canonizzazione e beatificazione di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari. Oltre 500 le persone che hanno riempito la Cattedrale di Frascati (Roma) dove si è svolta l’ultima sessione dell’inchiesta diocesana. Fra i partecipanti il Card. Tarcisio Bertone, la presidente dei Focolari Maria Voce (Emmaus) e il co-presidente Jesús Morán, alcuni parenti di Chiara Lubich, due rappresentanti della Chiesa ortodossa, vari sindaci del Lazio, sacerdoti, laici e religiosi e tanti amici che hanno conosciuto Chiara e il Carisma dell’unità dei Focolari.

Le ultime 3 delle 75 scatole vengono sigillate

Davanti l’altare il tavolo con le 75 scatole contenenti la documentazione raccolta che sarà consegnata alla Congregazione delle Cause dei Santi presso la Santa Sede, dove proseguirà lo studio e la valutazione di quanto raccolto. La cerimonia è stata presieduta da Mons. Raffaello Martinelli, vescovo di Frascati che ha riassunto così questi anni di raccolta di testimonianze e materiale: “La Santa Sede e il processo diocesano devono evidenziare l’eroicità delle virtù, non semplicemente la bontà di una persona, ma l’eroicità. E’ questo che ho chiesto fin dall’inizio anche nelle testimonianze. Dobbiamo dimostrare l’eroicità di come Chiara ha vissuto le virtù cristiane, cioè quelle Teologali (fede speranza, carità), Cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza), e tutta una serie di virtù derivate”. Nella sua relazione il Delegato Episcopale Mons. Angelo Amati ha rilevato che sono stati ascoltati 166 testimoni anche in varie trasferte come nelle Diocesi di Roma, Albano e Fiesole (Italia), Losanna-Ginevra-Fribourg (Svizzera), Augusta-Ottmaring e Bamberga-Norimberga (Germania), Westminster (Inghilterra), Gand e Bruxelles (Belgio) e due rogatorie: a Bangkok (Tailandia) e Lubiana (Slovenia). “L’indagine ha riguardato la vita, le virtù, il carisma e la specifica spiritualità di Chiara, – ha sottolineato Amati – unitamente alle tematiche teologiche presentate quali: l’Unità, Gesù abbandonato e Gesù in mezzo, sulla fondazione dell’Opera di Maria (Mov. dei Focolari) e i contatti interconfessionali e interreligiosi. Totale pagine raccolte: 35.057 in 102 volumi” che contengono materiale di vario tipo (testimonianze, lettere, documenti editi e inediti, scritti, diari, etc…). A seguire la dichiarazione del Promotore di Giustizia Sac. Joselito Loteria – che insieme al Notaio Avv. Patrizia Sabatini e al delegato Episcopale formano il tribunale diocesano istituito per la Causa di Chiara Lubich -, poi il vescovo Martinelli ha letto il decreto di chiusura della fase diocesana e nominato “Portitore” il dott. Daniel Tamborini, che avrà il compito di consegnare la documentazione alla Santa Sede. Quindi i giuramenti del Portitore, del Vescovo Martinelli e di tutti i membri del tribunale diocesano e della Postulazione – Postulatore Sac. Silvestre Marques, Vice-Postulatrice, Dott.ssa Giuseppina Manici, Vice-Postulatore, Dott. Waldery Hilgeman, e la firma del verbale della sessione di chiusura. Il momento centrale ha visto la chiusura e la posa del sigillo alle ultime 3 delle 75 scatole contenenti le 35.000 pagine. “L’unico nostro desiderio ora è quello di offrire alla Chiesa, attraverso questa ampia documentazione, il dono che Chiara è stata per noi e per moltissime persone – ha affermato Maria Voce, presidente del Movimento dei Focolari, nel suo intervento in Cattedrale -. Accogliendo il carisma che Dio le dava, coerentemente, giorno dopo giorno, camminando e tendendo verso la pienezza della vita cristiana e la perfezione della carità, Chiara si è profusa perché questa via di vita evangelica fosse percorsa da molti, in una determinazione sempre rinnovata ad aiutare quanti incontrava a mettere Dio al primo posto e a “farsi santi insieme”. Il suo sguardo e il suo cuore, come ora viene dimostrato, erano mossi da un amore universale, capace di abbracciare tutti gli uomini al di là di ogni differenza, sempre proteso a realizzare il testamento di Gesù: Ut omnes unum sint. È motivo di gioia per tutti noi sapere che ora la Chiesa studierà e valuterà la vita e le virtù della serva di Dio, la nostra amatissima Chiara”. L’iter diocesano Era il 7 dicembre del 2013 quando ha preso il via la fase diocesana della Causa di canonizzazione e beatificazione di Chiara Lubich – dopo poco più di 5 anni dalla morte avvenuta il 14 marzo 2008 – quando ci fu a Castel Gandolfo la firma della petizione ufficiale per l’avvio della Causa. I primi ad essere ascoltati sono stati i testimoni oculari che l’hanno conosciuta fin dai primi tempi di fondazione del Movimento dei Focolari. Successivamente Mons. Raffaello Martinelli ha consultato la Conferenza Episcopale Laziale sull’opportunità di iniziare la Causa ottenendo parere positivo. Il Vescovo ha così costituito una Commissione di 3 periti in materia storica e archivistica che ha avuto il compito di raccogliere tutto il materiale inedito riguardante Chiara. Martinelli ha poi nominato 3 Teologi che hanno esaminato gli scritti editi. Il 29 giugno 2014 la Santa Sede ha concesso il suo Nulla Osta all’apertura ufficiale della Causa. Il 27 gennaio 2015 quindi nella Cattedrale di Frascati si svolse la cerimonia di apertura della fase diocesana, terminata il 10 novembre 2019.

Lorenzo Russo Ufficio Comunicazione Movimento dei Focolari

Testo: Saluto conclusivo di Maria Voce

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Vangelo vissuto: vedere con altri occhi

Le parole di San Paolo “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto” (Rom 12,15) sono un invito a “farsi uno”, a mettersi “nella pelle dell’altro”, come espressione concreta di una carità vera. Mettendole in pratica potremo vedere un cambiamento negli ambienti dove siamo, iniziando dalle relazioni nelle nostre famiglie, scuole, posti di lavori, comunità, e sperimenteremo con gratitudine che l’amore sincero e gratuito, presto o tardi, ritorna e diventa reciproco. Accoglienza Alla nostra comunità era stata affidata una donna dai trascorsi pesanti. Quando abbiamo appurato chi era, è diventato difficile il rapporto con lei. Infatti avevamo saputo che aveva ucciso il proprio figlio e non era stata in carcere, perché incinta e depressa. Anche se il parroco ci ricordava di non giudicare, era ugualmente difficile non avere davanti agli occhi il suo passato. Col tempo, aiutati anche dal parroco, quella donna è divenuta la misura della nostra capacità di accoglienza. In questo sforzo di “vedere con altri occhi’: la nostra comunità ha fatto un salto di qualità. Ci è parso che, proprio attraverso quella donna bisognosa anche della nostra misericordia, Dio ci stesse facendo una grande lezione di Vangelo. Ma il vero dono è stato quando un giorno, piangendo, lei ci ha raccontato la sua storia, i drammi che aveva vissuto e le violenze subite per poi ringraziarci perché le avevamo dato prova che l’amore esiste e che il mondo non è così cattivo come lei lo aveva conosciuto. (M.P. – Germania) Un istituto per bambini sordomuti Il nostro istituto è in parte sovvenzionato dallo Stato, in parte auto-gestito con piccole attività artigianali interne, ma i bisogni sono sempre tanti. Un giorno passa da noi il parente di un allievo dicendoci che non sa come e dove trovare il denaro per risolvere un problema. Prendo l’ultima somma che abbiamo in cassa e gliela consegno. Nel pomeriggio riceviamo la visita di una signora sconosciuta: “Ho visto nel giardino la statua della Madonna e mi sono fermata a pregare. Quello che voi fate merita ammirazione, rispetto. Non so cosa potrei fare per voi, ma forse questo vi può servire”. E ci offre due banconote che sono il doppio della somma data al mattino. (J. – Libano) In crociera Non ricordo mia madre sana, ma sempre sofferente e negli ultimi decenni sempre a letto. Mio padre, nonostante avesse una brillante carriera, piena di successi, passava il tempo accanto a lei, non facendole mancare nulla nell’assistenza e nelle cure. Un giorno, invitato ad una crociera, accettai, accampando mille scuse per pensare che me la meritavo. Durante il viaggio, mentre un collega mi raccontava della sua famiglia, mi resi conto che avevo poco da dire da parte mia, anzi mi vergognavo quasi di una situazione di dolore senza soluzioni. Quando lui mi chiese dei miei genitori e raccontai di come papà si fosse sempre prodigato con mamma, mi sentii fiero di un tale padre e capii il valore stesso del dolore. Tornato a casa, chiesi perdono ai miei, non tanto per la vacanza fatta, ma perché non avevo saputo intuire se loro avevano bisogno di me. Con quella “crociera” è cambiata la mia vita. Gli ultimi giorni di mia madre sono diventati un dono, per tutta la famiglia. (S.S. – Spagna) Chiedersi scusa Quel mattino, in cucina, mia moglie ed io eravamo agitati da problemi non risolti; ci sembrava tutto nero e destinato a far nascere tra noi, come già avvenuto altre volte, un litigio furibondo. Per un attimo mi sono fermato: tutte le promesse di ricominciare fatte davanti a Dio erano valide oppure erano andate in fumo? Mi sono avvicinato a mia moglie e, anche se mi costava, le ho chiesto scusa. Anche lei subito ha reagito col dire che la colpa era tutta sua … Quando sono arrivati i bambini, hanno trovato non soltanto la colazione pronta, ma dei genitori che crescevano assieme a loro, desiderosi di trasmettere ai figli la giusta chiave per vivere bene la vita. (R.H. – Slovacchia)

a cura di Stefania Tanesini (tratto da Il Vangelo del Giorno, Città Nuova, anno V, n.6,novembre-dicembre 2019)

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Cambia il mondo che cambia

Si è concluso il 27 ottobre 2019 a Castel Gandolfo il laboratorio culturale dei Focolari. Obiettivo: creare sinergie tra discipline e professioni per comprendere come costruire un mondo più unito in una società in continua evoluzione. Provate a immaginare il mondo domani. Provate a proiettarvi in un futuro prossimo e fatevi delle domande su come sarà tra vent’anni il nostro pianeta. Provate a “osare” le idee più utopiche e a sognare di cambiare il mondo, oggi. L’ antico proverbio africano che recita: “Se volete andare in fretta, andate soli; se volete andare lontano, andate insieme” esprime bene la sfida accolta dal gruppo internazionale e multiculturale di adulti e giovani, accademici e professionisti, che si sono ritrovati a Castel Gandolfo (Italia): gestire le complessità del mondo insieme, non da soli, mettendo in rete le singole competenze. Provenienti da più di quaranta nazioni, i partecipanti si sono messi in gioco, accogliendo le proposte delle diverse testimonianze e riflessioni, ciascuno nel proprio campo d’azione e di lavoro, avviando un dialogo ampio, sostenendo e portando avanti proposte concrete. “Cambia il mondo che cambia” era il titolo dell’ultimo giorno e mezzo di programma, gestito dai giovani e rivolto ai loro coetanei. Alcuni hanno sottoscritto la richiesta di poter partecipare ad Assisi, dal 26 al 28 marzo 2020, all’appuntamento “The economy of Francesco”, che il papa rivolge a giovani economisti, imprenditori e change-makers. La proposta è di stringere con essi, al di là delle differenze di credo e di nazionalità, un patto per cambiare l’attuale economia e dare un’anima a quella di domani perché sia più giusta, sostenibile e con un nuovo protagonismo di chi oggi è escluso. E a proposito dell’essere protagonisti, Adelard Kananira, un giovane del Burundi, ha illustrato il progetto Together for a new Africa (T4NA) che ha l’ambizione di creare le basi per una nuova classe dirigente e un nuovo modello di leadership in Africa. Nel 2019 in Kenya è iniziata la prima scuola per questo progetto, con più di 150 tra giovani, tutor e docenti provenienti dall’Africa orientale, con l’obiettivo di fare crollare i muri che esistono tra tribù, partiti politici, etnie ed anche tra Paesi, per raggiungere lo scopo comune dello sviluppo e della pace. Giada e Giorgia vogliono invece cambiare attraverso il loro impegno la realtà dove lavorano. Giada, 23 anni, lavora nel campo del cinema come assistente alla regia, lavoro faticosissimo ma che non cambierebbe per nulla al mondo. Aspira un domani di poter anche realizzare film che trasmettano l’armonia, che lei si sforza di creare ogni giorno con i suoi colleghi, certa che il cinema sia un mezzo potentissimo che può davvero dare un contributo a cambiare il mondo. Giorgia, 32 anni, è assessore in un comune italiano con deleghe alle politiche giovanili, innovazione, partecipazione e distretto di economia civile. Il suo sogno è già diventato realtà: nel suo comune si attua il bilancio partecipato, si tengono presenti gli obiettivi dell’Agenda 2030, si cercano nuovi modelli di sviluppo, si portano avanti iniziative che salvaguardano l’ambiente come gli orti urbani. Attraverso il loro impegno giovani e adulti insieme già toccano il futuro con idee da realizzare e buone pratiche da diffondere e portare avanti, provando a cambiare, già da adesso, il mondo che cambia.

Patrizia Mazzola

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Colombia: Accogliere il fratello

Una grave malattia ed il ricovero inaspettato in un Paese straniero sono l’inizio di un legame profondo di amicizia e condivisione tra due comunità dei Focolari in Colombia e Venezuela. Una telefonata una sera aprì un impensato capitolo nella nostra vita. Ci avvertivano che, in uno degli ospedali della città Bogotà (Colombia), era stato ricoverato il parente di un membro dei Focolari del Venezuela. Questa persona, venezuelana, era arrivata in Colombia come migrante, in condizioni precarie, e lavorava come muratore. Era stato ricoverato, perché gravemente malato. Due persone della comunità dei Focolari il giorno successivo si sono ritrovate in quell’ospedale, entrambe avevano sentito nel cuore che Dio le invitava a voler bene a questo fratello sconosciuto. Dopo essersi presentate, gli hanno assicurato che a Bogotà poteva contare non solo su loro due, ma su una famiglia più grande formata dalla comunità dei Focolari. Lui ha spiegato che era a Bogotà con un figlio che ora lo stava sostituendo nel lavoro. I medici hanno spiegato che le sue condizioni erano molto gravi. Contattando il figlio abbiamo saputo che vivevano in una capanna di fortuna. Attraverso un appello lanciato alla nostra comunità, abbiamo raccolto abiti e scarpe per loro. Qualche tempo dopo anche il figlio ha dovuto lasciare il lavoro per dedicarsi all’assistenza del padre. In quel periodo c’era tra noi chi lo invitava a colazione, a pranzo o a riposare per fargli sentire il calore di una famiglia. Altri facevano turni in ospedale per dargli un cambio e si continuavano a raccogliere beni di prima necessità per loro. Il papà intanto aveva espresso il desiderio di tornare in Venezuela. Ci aveva confidato che l’esperienza in Colombia gli aveva fatto sperimentare l’amore di Dio, portando in lui una vera conversione. Voleva rivedere la figlia piccola, salutare la moglie e morire con la pace nel cuore. Per questo viaggio occorreva però trovare il denaro per i documenti e per l’aereo, non poteva infatti viaggiare via terra. Anche i medici e gli infermieri, colpiti dalla situazione, hanno cercato di aiutarli in vari modi, raccogliendo anche una bella somma. Nell’attesa del viaggio, intanto si è reso necessario trasferirlo in un centro medico specializzato. Nonostante le difficoltà, dopo qualche mese, è stato ammesso. Qui i medici hanno spiegato che non c’era più nulla da fare, avrebbero dovuto dimetterlo, ma, vista la situazione, lo avrebbero tenuto ricoverato fino alla sua partenza per il Venezuela. Abbiamo anche chiesto ad un sacerdote di andarlo a trovare, in quell’occasione ha potuto confessarsi e ricevere l’unzione degli infermi. Il giorno in cui erano già all’aeroporto pronti per partire c’è stato un blackout a Caracas (Venezuela) e l’aereo è dovuto tornare a Bogotà. Ancora tre giorni di sospensione, alloggiati in un albergo vicino all’aeroporto, e poi finalmente la partenza. Poi il figlio ci ha fatto sapere, con gratitudine per l’amore ricevuto, che il papà era riuscito a tornare a casa e, qualche tempo dopo, era morto serenamente.

La comunità di Bogotà (Colombia)

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Camerun: a Fontem la vita continua

Com’è la situazione a Fontem? Continuano ad arrivare richieste d’informazioni sulla prima cittadella sorta in terra africana, nella regione Sud-Ovest del Camerun, dove è tutt’ora in corso un conflitto armato. Pubblichiamo la recente lettera dei responsabili dei Focolari a Fontem Etiènne Kenfack e Margarit Long, che attualmente risiedono a Douala, a circa 300 chilometri a sud di Fontem. Carissimi amici di Fontem in tutto il mondo! Grazie del grande interesse con il quale state seguendo la nostra situazione. La vostra partecipazione ci dà gioia, conforto e coraggio per andare avanti. La crisi socio-politica in questa zona che ha provocato anche atti di violenza non è ancora risolta. Attualmente non ci sono più sparatorie, ma la situazione rimane tesa. Ciononostante la vita va avanti. Anche se possiamo offrire nel nostro ospedale solo un servizio ridotto, la gente continua a chiedere aiuto. Negli ultimi mesi, 1894 persone hanno chiesto consulenza. 644 di loro sono state ricoverate, tra cui 36 donne che hanno dato alla luce un bambino. Attualmente c’è la stagione della pioggia e si cerca di curare al meglio la manutenzione della centrale elettrica per assicurare l’elettricità alle strutture più importanti. Una piccola squadra è anche rimasta al nostro Centro Mariapoli. Assieme ad altri formano un’équipe meravigliosa che cura anche gli ambienti esterni per evitare che, a causa del clima tropicale la foresta invada tutto il territorio. Poco fa, con grande gioia di tutti, il vescovo Nkea ha mandato nuovamente un sacerdote a Fontem. È un segnale forte ed un segno tangibile della premura del Vescovo per il popolo Bangwa. Il sacerdote è in stretto contatto anche con i responsabili locali della nostra comunità focolarina. La sua presenza ha dato nuovo slancio alla partecipazione ai sacramenti, soprattutto alla S. Messa quotidiana e domenicale. In questi mesi si sono ricordati in modo solenne gli anniversari della morte di due dei pionieri di Fontem, Pia Fatica e Fides Maciel sepolte nel nostro cimitero. Spesso ci preoccupa chi cerca di sfruttare i media per motivi politici. A volte, ci rendiamo conto che girano informazioni non esatte, perciò vi chiediamo di accogliere con responsabilità e grande prudenza le notizie che girano su Fontem, anche attraverso canali personali sui social media, e di verificare le fonti di tali informazioni. La nostra “strategia” in questa crisi è quella di aumentare la comunione e la collaborazione tra tutti nella cittadella per arrivare a scelte condivise. Come potete immaginare non è sempre facile; a volte bisogna provare e riprovare, prendersi tempo per ascoltarsi reciprocamente. Alla fine però tutti si rendono conto che questo è l’unico modo per andare avanti insieme e per continuare la testimonianza della vita portata da Chiara Lubich in questa terra. __________________ Aracelis e Charles sono i responsabili della comunità dei Focolari della prima cittadella africana. Fanno il punto sulla situazione e raccontano come si svolge la vita oggi. https://vimeo.com/362734777 (altro…)

Slovacchia: Sono diventata un’attrice per renderti felice

Slovacchia: Sono diventata un’attrice per renderti felice

La storia di Dorotka e della sua famiglia “Qualcosa in più” è il titolo di un film che racconta la storia di Dorotka, una ragazza adolescente di Bratislava, in Slovacchia, affetta dalla sindrome di Down. Un’anomalia genetica che, nonostante le difficoltà, presto si rivela un “valore aggiunto” per tutti quelli che la circondano. Sua mamma Viera racconta cosa succede nel cuore di una famiglia quando si scopre di aspettare un bambino con la sindrome di Down: È stato uno shock! Non ce l’aspettavamo e non avevamo mai visto una persona del genere prima d’ora. Ma Dorotka sembrava proprio come gli altri quattro figli, e sapevamo che di fronte a una situazione sconosciuta il panico non aiuta, serve mantenere il sangue freddo. Ma in segreto, da qualche parte nella mia anima, avevo paura che non saremmo stati in grado di amarla. Nel tempo, cominciarono ad accadere cose straordinarie. Molte persone preziose sono venute nella nostra vita, ci hanno aiutato molto e ci aiutano ancora oggi. I rapporti in famiglia sono diventati più forti. I nostri quattro figli più grandi sono diventati più sensibili, amorevoli e tutta la famiglia è unita come mai prima d’ora. Come si passa dalla sorpresa al sentire questo come un dono? Il nome Dorotka significa dono di Dio. Le abbiamo dato questo nome già durante la gravidanza, sicuri che Dio non fa mai doni cattivi. Avevamo ricevuto qualcosa che non capivamo ma lo sentivamo come una prova della nostra fiducia in Dio. Sentivamo chiaramente che questa era la volontà di Dio per noi. Un nostro amico ci ha inviato una nota con questo testo: “Questa è la vera felicità perché è costruita sul dolore”. Perché avete deciso di condividere la vostra esperienza con altre famiglie? Un medico ci ha presentato ad altre famiglie che avevano figli piccoli con la sindrome di Down. Insieme abbiamo fatto diverse terapie, abbiamo condiviso la nostra esperienza e fondato un’associazione chiamata “Up-Down syndrome”. Volevamo che i bambini crescessero insieme, in modo che non fossero legati solo alla loro famiglia, per prepararli verso una certa indipendenza. Così abbiamo fondato il teatro “Dúhadlo”, che apre nuovi orizzonti per i bambini attraverso la drammaturgia. Come è nata la collaborazione con l’Università di Bratislava? Un nostro amico insegna etica medica alla Facoltà di Medicina. Nove anni fa mi ha invitato a raccontare la nostra storia agli studenti e a far loro conoscere meglio la sindrome di Down. Sono molto grata per questa possibilità. Sentivamo che i giovani medici potevano ancora essere influenzati e nel corso degli anni abbiamo sempre avuto reazioni positive da parte degli studenti. “Qualcosa in più” è il titolo del film che racconta la vita di Dorotka nella sua quotidianità, fra gioie e difficoltà. Perché questo titolo? All’inizio l’intenzione era di fare un breve video per la Giornata Mondiale della Sindrome di Down. Pavol Kadlečík, il regista, non aveva esperienza con queste persone e rimase così stupito che decise di fare un film più lungo. Nessuno di noi sapeva che alla fine sarebbe stato prodotto un documentario così bello. La sindrome di Down è una malattia genetica in cui il 21° cromosoma non forma una coppia, ma una terzina. Pertanto, questa diagnosi viene chiamata anche Trisomia 21. Questo significa che queste persone hanno un cromosoma in più e spesso viene indicato come il cromosoma dell’amore. C’è qualcosa in più in loro che hanno questa speciale capacità di amore incondizionato. Nel film non c’è nessuna finzione narrativa, si racconta la vita quotidiana della protagonista insieme alla sua famiglia, i compagni di classe, di teatro e di musica, con lotte, gioie, conquiste, delusioni. Una testimonianza dell’amore reciproco in questa famiglia e del sì alla vita. Dorotka, ti sei divertita a recitare in un film tutto dedicato a te? Quando ero in piedi davanti alla macchina fotografica a volte ero un po’ ansiosa e avevo paura del palcoscenico, quindi era difficile non guardare direttamente nella macchina fotografica. Ma il cameraman era fantastico e mi è piaciuto molto. Palko ha reso tutti felici dell’idea di questo film e vorrei continuare con uno nuovo. Cosa vorresti dire alle persone che leggono questa intervista? Sono diventata un’attrice per renderti felice. Cerca l’amore per gli altri.

Claudia Di Lorenzi

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Puntare in alto, l’incontro con Dio che risana e libera

Uscire dalla dipendenza dell’azzardo è possibile, ma non solo. La storia di Christian Rigor, filippino, che nella Fazenda da Esperança ha anche ritrovato Dio e il senso più profondo della propria esistenza. Quando pensiamo all’idea di “puntare in alto” ci vengono in mente mete diverse. Obiettivi di lavoro, progetti personali, sogni per cui lottare. Quelle “sfide” spesso totalizzanti a cui votiamo buona parte della nostra vita. Ma ci sono mete e mete, dal valore soggettivo o collettivo. Mete che per raggiungerle devi fare un percorso di crescita, metterti in discussione, sviluppare un senso di responsabilità per la collettività, aprire i tuoi orizzonti a mondi lontani. E mete che portano al ripiegamento su se stessi, che chiudono la persona all’interno dei propri interessi personali, che la isolano e talvolta diventano distruttive. Gli obiettivi che ci poniamo segnano il percorso della nostra vita. Ma cambiare strada si può. Lo sa bene Christian Rigor, 30enne delle Filippine. Un’infanzia serena in una famiglia benestante che gli ha assicurato studi universitari e specializzazioni in Europa. Un vita sociale piena da ragazzo, vissuta però col desiderio di “far soldi” facilmente, senza fatica. Una leggerezza che gli è stata fatale al primo ingresso in un casinò. È iniziato lì il suo percorso di dipendenza dal gioco d’azzardo, a 20 anni. Un ragazzino inebriato dalle prime vincite, presto vittima dell’esaltazione del gioco, intrappolato nel bisogno di recuperare le inevitabili perdite. Un capitolo buio della sua vita vissuto puntando alle mete sbagliate, lungo il quale ha perso amici, lavori, fidanzata, e la fiducia dei suoi familiari. Anche il bene per se stesso, dall’alto di un cornicione al 24° piano di un palazzo che ha segnato il punto più basso della sua esistenza. La svolta è arrivata quando, incoraggiato dalla madre, decide di entrare nella Fazenda da Esperança – un progetto con strutture diffuse in diversi paesi del mondo e che porta nel proprio DNA la spiritualità dell’unità, a cui i suoi fondatori si sono ispirati – per seguire un programma di riabilitazione dedicato alle persone che soffrono di vari tipi di dipendenze. “Nel corso del programma ho imparato a guardare oltre me stesso, oltre i miei egoistici e superficiali desideri mondani, a vivere per uno scopo superiore. Ho imparato a mirare in alto e ho trovato Dio… È così che ho imparato ad amare, Dio e gli altri, in tutto ciò che faccio nel momento presente, anche quando è difficile o doloroso”. Nella Fazenda da Esperança la vita è scandita secondo tre dimensioni: quella spirituale, quella comunitaria e quella lavorativa. Ognuna è occasione di maturazione personale. “Come cattolico, ho imparato ad approfondire il mio rapporto personale con Dio, ad ascoltare e vivere la sua Parola, a cercare l’unità con Lui nella Santa Messa, e a pregare come si parla ad un amico”. La vita comunitaria gli ha insegnato che “per amare pienamente Dio ho bisogno di amare le persone intorno a me, e vedere Gesù in loro”. Lo ha allenato ad andare al di là delle differenze per servire ogni fratello. A condividere il cibo, dare ascolto ai compagni tristi, sbrigare faccende domestiche. Nel lavoro, faticoso o ordinario, Christian ha imparato a dare il meglio di sé, “non importa quanto difficile, fisicamente impegnativo, noioso, sporco o sgradevole sia”. Lungo il percorso di recupero viene chiamato a fare da coordinatore ai suoi compagni. “E’ stato difficile per me modulare gentilezza e fermezza, soprattutto durante i litigi. Una volta sono stato accusato ingiustamente di un furto, non mi sentivo amato. Volevo arrendermi ma poi ho deciso di restare perché volevo guarire dalla dipendenza ed essere una persona nuova. Mi sono immerso nell’amare ogni momento, nonostante il giudizio altrui. Ho chiesto aiuto a Dio e l’ho sentito ancora più vicino”. Oggi Christian affronta la sfida della vita al di fuori del contesto protetto della Fazenda, e di fronte alle tentazioni del gioco d’azzardo trova rifugio in Dio. In effetti ha scoperto che la felicità autentica sta nel puntare ad altre mete: “Mi sono reso conto che trovo la felicità quando amo Dio, quando lo sento presente nella preghiera, nelle persone che incontro, nelle attività che svolgo, quando amo nel momento presente. Per puntare in alto non serve fare grandi cose, basta farle con amore. Questo è oggi il mio stile di vita”.

Claudia Di Lorenzi

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