Movimento dei Focolari

Un contributo all’unità europea

Un ingegnere ungherese che ha ricevuto dal Ministero dell’Ambiente un riconoscimento per aver contribuito, con il suo lavoro, alla realizzazione della fraternità nella famiglia europea Lavoro al Ministero dell’ambiente ungherese ed una parte della mia attività ha riguardato la partecipazione alle trattative relative all’adesione del nostro Paese all’Unione Europea, in particolare per quanto si riferiva al problema dell’inquinamento acustico.  Nella prima fase del processo di adesione dei nuovi 10 Paesi, si dovevano confrontare i propri standard di rilevamento acustico con quelli dell’Unione Europea, esponendo la situazione del proprio Paese. Fino al 2002 infatti non esisteva una legislazione comune, in ambito europeo, sull’inquinamento acustico. I vari Stati dell’Unione Europea, quindi, stabilivano con procedimenti diversi il grado di inquinamento e i modi per proteggersene. Alle volte però era possibile che venissero forniti dati non sempre corrispondenti alla realtà. Nel corso dei lavori ho notato che era ormai abitudine basare i rapporti  sulla reciproca diffidenza. Continuavo a ripetermi: ”Se si vuole costruire l’Europa unita, non ci si deve fondare sulla sfiducia, ma sulla sincera accoglienza e sul reciproco scambio, perché l’Unione Europea – lo dice il nome stesso – vuole essere una comunità e non un consorzio di interessi.” Era l’idea originaria dei Padri fondatori, com’è indicato nello Statuto. Poi questi valori si sono persi nell’attuazione pratica o magari spesso non venivano affatto messi in atto. Mi sono chiesto: ”Ma io, adesso, cosa posso fare?” Prima di tutto ho manifestato queste perplessità ai colleghi ungheresi: “Io non aspiro certo a una famiglia europea che lavora in modo scorretto e mette in difficoltà i nuovi membri. E neanche intendo, come nuovo Paese dell’Unione Europea, imbrogliare gli altri Paesi sulla nostra situazione, magari nel modo più elegante possibile….” Nella fase successiva, durante le trattative tecniche con gli esperti dell’Unione Europea, ho cercato di evidenziare con sincerità anche i problemi che ancora persistevano. Come capo della delegazione ungherese, ho scelto di confrontarmi continuamente con i miei colleghi  nel corso della riunione, per poter rispondere insieme  alle domande. Questo nuovo stile è stato apprezzato da tutti e i colleghi dell’Unione Europea, già durante la pausa che seguiva alla nostra relazione, ci hanno proposto di tenere le riunioni successive in Ungheria. Ci siamo preparati ad accoglierli e a farli sentire parte di un’unica famiglia europea:  il programma infatti, oltre alle informazioni tecniche, prevedeva visite di Budapest nei luoghi che meglio esprimono la nostra cultura. Anche grazie a questa ospitalità, le trattative si sono svolte nella comprensione reciproca  durante le fasi successive. In particolare, abbiamo collaborato a una nuova regolamentazione dell’Unione Europea per l’inquinamento acustico ed è nata una soluzione che rispecchiava veramente il pensiero e le aspirazioni di tutti. Ho cercato di partecipare attivamente al processo legislativo, sfruttando tutte le occasioni e avendo sempre presente l’idea della fraternità. Il risultato finale ha messo in evidenza che gli Stati membri pongono al primo posto la reciproca responsabilità gli uni verso gli altri. La nuova regolamentazione infatti – tenendo conto delle caratteristiche di ogni Paese e lasciando piena libertà a ciascuno Stato – prescrive una forma unitaria per la misurazione, la raccolta dei dati e la presentazione dei risultati. In questo modo in Europa è possibile portare a termine verifiche e valutazioni a tutto campo sullo stato dell’inquinamento acustico. Sulla base della valutazione dei dati raccolti a livello europeo ci sono le premesse perché l’intera comunità cerchi insieme le soluzioni per territori sempre più inquinati. E’ un nuovo importante passo per costruire una vera comunità solidale. (M. B. – Ungheria) (altro…)

ottobre 2006

Lungo tutto il Vangelo Gesù invita a dare: dare ai poveri, a chi domanda, a chi desidera un prestito ; dare da mangiare a chi ha fame , il mantello a chi chiede la tunica ; dare gratuitamente …
Lui stesso ha dato per primo: la salute agli ammalati, il perdono ai peccatori, la vita a tutti noi.
All’istinto egoista di accaparrare oppone la generosità; all’accentramento sui propri bisogni, l’attenzione all’altro; alla cultura del possesso quella del dare.
Non conta se possiamo dare molto o poco. L’importante è il “come” doniamo, quanto amore mettiamo anche in un piccolo gesto di attenzione verso l’altro. A volte basta offrirgli un bicchiere d’acqua, un bicchiere d’acqua “fresca” , come precisa il Vangelo di Matteo, un’offerta particolarmente gradita e necessaria in un paese caldo e riarso come la Palestina.

«Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome (…), vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa»

Un bicchiere d’acqua, appunto, gesto semplice e grande agli occhi di Dio se compiuto nel Suo nome, ossia per amore.
E l’amore ha tutte le sfumature e sa trovare i modi più adatti per esprimersi.
È attento l’amore, perché dimentico di sé.
È premuroso l’amore, perché, scorta nell’altro una necessità, si fa in quattro per venirgli incontro.
È essenziale l’amore, perché sa accostare il prossimo anche solo con un atteggiamento di ascolto, di servizio, di disponibilità.
Quante volte, quando ci troviamo vicino a una persona, specie se sofferente, crediamo di renderle un gran servizio magari con i nostri consigli non sempre opportuni o con qualche chiacchiera di troppo…, che la può annoiare e appesantire.
Quanto importante invece è cercare di “essere” l’amore accanto a ciascuno! Troveremo la via diritta per entrare nel suo cuore e sollevarlo.

«Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome (…), vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa»

La Parola di vita di questo mese potrà aiutarci a riscoprire il valore di ogni nostra azione: dai lavori di casa o dei campi e dell’officina, al disbrigo delle pratiche d’ufficio, ai compiti di scuola, come alle responsabilità in campo civile, politico e religioso. Tutto può trasformarsi in servizio attento e premuroso.
L’amore ci darà occhi nuovi per intuire ciò di cui gli altri hanno bisogno e per venire loro incontro con creatività e generosità.
Il frutto? I doni circoleranno, perché l’amore chiama amore. La gioia si moltiplicherà perché “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”.

«Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome (…), vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa»

Ricordo che, durante la seconda guerra mondiale, nella nostra città di Trento, in alcune località vivevano famiglie molto povere. Siamo andate a dividere con loro quanto avevamo di nostro; volevamo alzare il loro livello di vita in modo tale da arrivare tutti ad una certa uguaglianza.
Un ragionamento semplice che però ha dato frutti impensati: viveri, vestiario, medicinali hanno incominciato a circolare con insolita abbondanza… Nacque in noi la convinzione che nel Vangelo vissuto vi è la risposta ad ogni problema individuale e sociale.
Non era una utopia. Oggi centinaia di aziende sono coinvolte nel progetto di “economia di comunione”: improntare tutta la vita aziendale alla cultura del dare, e mettere in comune gli utili per scopi sociali, tra cui aiutare le persone in difficoltà, creando nuovi posti di lavoro e sovvenendo ai bisogni di prima necessità.
Ma le persone bisognose sono tante e i profitti di queste aziende non possono rispondere ad ogni necessità. Ecco allora che tanti di noi, dal 1994, versiamo una piccola somma ogni mese per i poveri.

Ne aiutiamo attualmente 7.000 in 55 Paesi.
Innumerevoli le testimonianze dei “bicchieri d’acqua” ricevuti e donati in una gara di generosità. Una tra tante, dalle Filippine: “Il nostro negozietto di carne a causa di una epidemia tra gli animali è fallito. Abbiamo dovuto fare debiti e non sapevamo più come andare avanti. Attraverso il vostro aiuto regolare siamo riusciti ad avere da mangiare ogni giorno. Presto ho capito che anch’io dovevo aiutare chi aveva più bisogno di me. Una vicina di casa aveva una malattia, soffriva tanto e aveva bisogno di aiuto anche materiale. L’ho aiutata fino a che lei è partita per il cielo, ed ho preso a sostenere economicamente il suo quinto figlio, perché il padre non poteva, essendo molto più povero di noi”.

Chiara Lubich

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Da Genova al mondo intero

Ero uno dei quattro direttori di vertice del porto di Genova, nel nord Italia, uno tra i più importanti del Mediterraneo. Ho dovuto lasciare il mio lavoro per ridimensionamento dell’incarico. Dopo lo smarrimento iniziale, con alcune persone, con le quali condivido la spiritualità dell’unità, abbiamo pensato di metterci al servizio dei cittadini della nostra città per costruire una società per l’uomo. Nella mia città era in funzione un’industria che produceva gas di scarico molto inquinanti, gli effetti di questo grave inquinamento nel quartiere erano evidenti. Negli ultimi dieci anni erano morte 700 persone per tumore al polmone, dovevamo dunque lavorare al progetto che portasse alla chiusura degli impianti senza far perdere lavoro a quelle 600 persone occupate nell’industria. In Olanda mi era rimasto impresso come venivano assemblate le bambole di porcellana cinese. Il corpo di porcellana proveniente dalla Cina era rivestito dell’abito che veniva dall’India e poi venivano montati gli occhi prodotti in Italia. Alla fine, il prodotto veniva confezionato in scatole e spedito al negozio. Anche l’area del porto di Genova, mi sembrava si prestasse alla realizzazione di una piattaforma portuale nella quale trasformare le merci più varie in prodotti finiti e confezionati. L’idea ha subito interessato le istituzioni della città. Si è così passati alla sua realizzazione. Il progetto avrebbe garantito 4.000 nuovi posti di lavoro, ben oltre i 600 dell’industria da chiudere e 12.000 posti di lavoro indiretti. Immediati i consensi. Lo stesso proprietario dell’industria riconosceva la validità del progetto per le prospettive di sviluppo. Tuttavia le difficoltà non sono mancate, ma i miei colleghi non cristiani mi dicevano: “Il progetto può anche morire, ma risorgerà ancora più bello”. Ed è stato così. A dicembre 2005 il proprietario dell’industria ha firmato un accordo per la chiusura degli impianti e la riconversione dell’area secondo il nostro progetto, nel quale sono ora occupati i 600 lavoratori in esubero. L’Unione Europea ha recentemente inserito il corridoio Genova – Rotterdam fra quelli di interesse europeo. La Banca Europea degli Investimenti ha dichiarato l’immediata finanziabilità. Il governo italiano ci ha proposto di prendere parte in futuro ai progetti di cooperazione tra sistemi portuali trasnazionali a beneficio dell’intera Unione Europea nell’ottica dell’alleanza tra i porti. E non è finita qui! Il porto di Rotterdam era per Genova un concorrente da combattere, mentre oggi è stato sviluppato un progetto di alleanza tra i due porti per una nuova rotta mondiale di collegamento fra l’Estremo Oriente e gli Stati Uniti. Questa idea è stata presentata alla Conferenza Mondiale dei Porti di Seoul ed è stata definita un’opportunità concreta per il miglioramento delle economie marittime mondiali. (R. Z. – Italia) (altro…)

Una filanda ai piedi delle Ande

Sono nata a Santa Maria, in una regione ai piedi delle Ande, ricca di cultura aborigena ma molto povera. Sono una discendente degli aborigeni “calchaquies”, sposata e madre di 7 figli. Per 12 anni mi sono formata alla Scuola Aurora. Lì, oltre a leggere, a scrivere e alla tessitura, ho imparato a vivere la spiritualità dell’unità. Nel 2003, di fronte alla disoccupazione dilagante, ho avviato una filanda per rifornire il laboratorio di tessitura della scuola. Non è stato facile convincere le donne della mia terra, da sempre discriminate, a riprendere il lavoro di filatura, dato che per arrivare alla filanda occorreva attraversare fiumi e fare ogni giorno molti chilometri. Non avevamo mezzi. A poco a poco ognuna ha messo a disposizione ciò che aveva: un fuso, dei chili di lana o la propria abilità in questa arte tradizionale. Rimaneva il problema dei costosi macchinari. Un giorno sono costretta a chiedere un passaggio e confido al conducente la mia preoccupazione. Egli mi dice che lui sapeva fare macchine per filare. “Ce le puoi fare?” gli domando. E lui: “Sì,  mi pagherai quando potrai”. Non mancano altri ostacoli: perdiamo il locale in cui lavoriamo e la più esperta si  licenzia. “Con tutto quel che ci succede non sarà che ci dobbiamo arrendere?” si domanda una ragazza, che esprime il dubbio di noi tutte. Durante il trasloco troviamo una immagine della Madonna. Mi sembra molto significativo e propongo alle altre di fare un patto: lavorare ogni giorno nell’amore le une verso le altre. Poco dopo riceviamo una donazione con la quale possiamo acquistare un immobile e delle attrezzature.  Così è nato l’atelier “Tinku Kamayu” che significa “ Riunite per lavorare”. All’inizio eravamo 8 e oggi, dopo due anni, l’organico dell’azienda è salito a 18 artigiane con una produzione crescente. Oggi sento di essere parte di un grande progetto che mi coinvolge con tante altre persone calchaquies. Abbiamo ritrovato la nostra identità e, con quella, la speranza, la crescita culturale, la  possibilità di lavoro per noi e per altri, e tutta la ricchezza delle origini del nostro popolo. Ora ci sentiamo persone utili non più umiliate, ma valorizzate e capaci di esprimere il proprio pensiero. (altro…)

Il dialogo possibile tra cattolici e protestanti

Mary: «Gerry e io ci siamo sposati nel 1992 e siamo andati a vivere nell’Irlanda del Nord, un paese profondamente diviso per motivazioni religiose e politiche. Per anni i conflitti sono stati violenti, con molti morti e tante ferite ancora aperte. Sono un medico e prima del matrimonio avevo vissuto due anni a Fontem, la cittadella internazionale del Movimento in Camerun. Lì la spiritualità dell’unità con persone di diverse fedi, tribù e razze è diventata una realtà e questa esperienza mi è stata di grande aiuto in Irlanda del Nord. Nel quartiere dove abitavamo, infatti, era netto il confine tra la comunità cattolica e quella protestante: una strada divideva il piccolo paese di 160 case in due parti». Gerry: «Da anni non c’era alcun contatto tra cattolici e protestanti: pub separati (uno cattolico e uno protestante), scuole distinte e poi le chiese, le sale per il Vangelo e i centri sportivi erano  rigorosamente divisi tra le due parti. Il problema politico irlandese era così radicato nella mente e nei cuori  delle persone, che le rendeva incapaci di andare avanti, rassegnati al fatto che  niente potesse cambiare. Molte iniziative politiche erano state tentate, ma erano fallite. Due anni dopo il nostro arrivo, siamo stati invitati a un incontro della comunità locale del Movimento dei Focolari, aperto sia ai cattolici sia ai protestanti, per proporre attività per i giovani del paese. L’incontro avveniva mentre le opposte fazioni politiche nord-irlandesi si apprestavano a cessare il fuoco. C’era grande speranza e, in certo modo, anche il nostro incontro poteva dirsi storico. I partecipanti erano tutte persone del posto, che però non si conoscevano. C’erano due sole persone che venivano da fuori: un inglese, protestante, che lavorava nella zona e Mary, cattolica, della Repubblica irlandese. Quella sera nacque un’associazione: l’inglese fu eletto presidente e Mary segretaria. Ancora oggi, dopo 12 anni, Mary ricopre questo incarico. Negli anni abbiamo realizzato tante iniziative per i bambini, per la comunità e per gli anziani. Con uno sforzo immenso si è costruita una comunità unita, ma a volte ciò è stato difficilissimo». Mary: «La forza che ci veniva dal vivere il Vangelo ci ha aiutato a superare le difficoltà e a costruire giorno per giorno la pace. Siamo stati anche sostenuti da enti governativi che hanno finanziato molti progetti. Un giorno due politici di partiti opposti mi hanno proposto l’idea di costruire un centro comune che potesse essere usato sia dai protestanti, sia dai cattolici. C’era un edificio abbandonato, in una meravigliosa posizione, che poteva essere ristrutturato. Abbiamo lavorato quattro anni per realizzare questo progetto. Poco prima del completamento, però, c’è stato un attentato alla scuola elementare cattolica, dove andavano i nostri quattro figli. Il clima è tornato a irrigidirsi e la situazione era così delicata che il nostro ufficio di comunità fu incendiato. Due importanti edifici della nostra piccola comunità sono andati distrutti. Abbiamo avuto paura, non lo nego, ma il Vangelo ci ha dato la libertà di ricominciare a lottare, rinnovando l’impegno di dare la vita, per arrivare alla pace e alla fratellanza. Il lavoro del nuovo centro è ripreso, ma proprio quando eravamo pronti a fissare una data per la sua apertura, è sopraggiunto un altro problema. I lampioni per l’illuminazione stradale erano stati addobbati con bandiere di un gruppo politico. Nessuno voleva togliere le bandiere, temendo reazioni. Gerry ha incontrato uno dei capi di quel gruppo, con cui avevamo già costruito un rapporto. Quella persona era sconvolta perché, proprio pochi giorni prima, aveva ricevuto una minaccia di morte. Ho sentito che dovevo accantonare le mie richieste per ascoltarlo e lasciargli esprimere la sua preoccupazione per questa situazione inaspettata. Poi mi ha chiesto perché ero andato lì. Alla mia richiesta, lui mi ha assicurato che avrebbe fatto il possibile per risolvere il problema. Dopo alcuni giorni, infatti, il nuovo centro è stato aperto e la minaccia non è stata attuata. In questa occasione abbiamo sentito di non essere soli: Qualcuno lassù,  Dio Padre, ci seguiva col Suo amore». (M. e G. B. – Irlanda) (altro…)

Una comunità indigena, riconosciuta come modello di convivenza civile e democratica

Dieci anni fa alcuni membri del Movimento dei Focolari di Città del Messico sono venuti a trovare la nostra comunità indigena del monte Huasteca di Santa Cruz, formata da circa 3000 persone. Sono 32 le comunità indigene di quella zona, immersa tra colline verdi e boschi, ma senza vie di accesso per le auto. Le uniche strade che portano alle comunità si raggiungono a piedi. A causa di questo isolamento, spesso ci siamo trovati di fronte a numerose difficoltà, soprattutto di carattere sanitario, ecco perché sono nate le “brigate sanitarie”, formate da medici, infermieri e membri del Movimento dei Focolari che partono da Città del Messico e arrivano, fin dove la strada lo permette, in pullman o in camion. Da lì proseguono a piedi o a cavallo per portare medicine, cibo e vestiti. In questi anni a Santa Cruz è sorta una bella comunità dei Focolari, con profondi rapporti di fraternità tra noi indigeni, bianchi e meticci. Anche Marcelino fa parte della comunità indigena ed è, come me, un volontario. La spiritualità dell’unità ha cambiato la nostra vita radicalmente, rinnovandoci come uomini. L’amore di Dio, arrivato come un vento fresco, ci ha spinti a concepire la vita come dono per gli altri. Marcelino, per un anno è stato eletto responsabile della comunità di Santa Cruz. Era sorpreso e indeciso: sua moglie non voleva che accettasse, perché il responsabile della comunità non riceve alcuno stipendio per tale servizio, il che significava una grande perdita economica per la loro famiglia. Sentiva, però, che Dio gli chiedeva una nuova scelta di Lui, più radicale, e come volontario non poteva tirarsi indietro. Ne ha parlato con sua moglie e insieme hanno deciso che avrebbe accettato l’incarico e che avrebbero lavorato il doppio per mantenere la loro famiglia. Per questo incarico si sarebbe occupato dello sviluppo economico, religioso, culturale, di questioni legali e dei rapporti della nostra comunità con una cittadina vicina. Ha cercato la collaborazione tra tutti e ha scelto me come consigliere di fiducia, per portare avanti queste attività con Gesù in mezzo a noi. La nostra avventura insieme è iniziata proponendo al sindaco della cittadina di visitare la comunità. E’ rimasto talmente colpito dall’accoglienza cordiale, che ci ha assicurato la pavimentazione in cemento di alcune strade e di 152 piccole case. Immaginate la nostra gioia, dal momento che le strade sono di terra e diventano inaccessibili quando piove. Dopo alcuni mesi, però, le opere non erano ancora avviate. Ci sentivamo delusi, traditi, ma siamo andati avanti. Abbiamo deciso di incontrare il sindaco per avere chiarimenti, ma sembrava che avesse sempre impegni e non ci riceveva. Eravamo decisi a non mollare, perché sostenuti da Qualcuno lassù, certi che ci avrebbe accompagnato in ogni passo. Ci siamo messi davanti alla sede del municipio, senza fare confusione, ma non ci siamo mossi dal portone finché non gli abbiamo parlato. Finalmente, per la nostra insistenza, il sindaco ha dato il via ai lavori. Sì, molti. Il primo frutto è stato constatare quanto fosse maturata la nostra comunità. Questo è stato riconosciuto in occasione di un fatto che ha scosso tanto l’opinione pubblica: l’assassinio di un politico della nostra Regione in seguito a forti tensioni tra opposizione e maggioranza. Successivamente, in una riunione con i rappresentati politici locali e delle altre comunità indigene, la nostra comunità è stata portata come esempio di convivenza civile e democratica, per come aveva operato in quei difficili momenti. (A. L. – Messico) (altro…)

Un’amnistia nel cuore

Sono stata Procuratore generale, specializzata in antinarcotici, in Colombia, per circa 11 anni. Ho dovuto seguire numerosi casi contro il crimine organizzato, per il  98% con risultati positivi. Sempre sono stata consapevole che ogni reato riguardava la vita di un uomo e di una famiglia, che esigono rispetto, amore, considerazione, malgrado la gravità, penalmente rilevante, degli atti commessi. Mi sentivo felice in un compito che mi dava la possibilità di fare una esperienza continua di Dio. Nello stesso tempo ero realizzata personalmente e professionalmente, oltre ad avere una sicurezza economica. Contavo poi su un’eccellente squadra di lavoro, esperti investigatori con grandi valori umani e professionali. La corruzione, però, cercava d’infiltrarsi più che mai in tutte le istituzioni pubbliche, soprattutto tra gli operatori della giustizia. Il mio agire radicale e retto coinvolgeva tutto il gruppo di lavoro, per questo le investigazioni avvenivano nel pieno rispetto della legge. Un giorno abbiamo “toccato” qualcuno che si considerava intoccabile. L’offerta non si è fatta attendere: vari milioni, che potevano assicurare tanta serenità a livello economico. Non potevo, né volevo cedere né potevo far finta di niente. Da quel momento le cose sono cambiate per me, sul lavoro, in famiglia e nella vita quotidiana. Di fronte al rifiuto sono arrivate minacce, pressioni da parte dei superiori e infine il licenziamento, insieme a uno dei miei migliori investigatori che, come me, non aveva ceduto alla corruzione. Nel cuore ho provato tanta amarezza, sfiducia e delusione. Vivevo da sola con i miei figli perché, mio marito anni prima mi aveva abbandonato. Guardando i miei due figli, indifesi, ho pensato che tutto è permesso da Dio per la nostra santificazione. Sentivo che stavo pagando il prezzo per rimanere nella retta strada. D’accordo con i figli ci siamo proposti di ridurre tutte le spese. Eravamo sereni perché sicuri dell’immenso amore di Dio. Ho chiesto a Dio la forza necessaria per perdonare quelli che mi costringevano a cambiare il tenore di vita  che avevo condotto fino a quel momento. Sforzandomi di vivere “un’amnistia completa nel cuore”, ho trovato la vera libertà e la forza di ricominciare.  Con il denaro che mi restava dalla liquidazione e qualche risparmio ho acquistato un pulmino scolastico. La mia giornata, come autista, iniziava alle 4.45 per trasportare i bambini delle scuole. Mi costava attraversare i luoghi dove sapevo di poter incontrare i miei precedenti colleghi o i superiori. Rapidamente era circolata la notizia che “il Procuratore, chiamato ‘la dama di ferro’, faceva l’autista”. Alcune risate e commenti spiacevoli sono arrivati anche alle mie orecchie. Dopo circa un anno un professionista, che conoscevo, mi ha chiesto di collaborare per la preparazione di un lavoro per l’Ufficio dell’ONU contro la droga. Ciò mi ha permesso di rientrare nuovamente nel campo della mia specializzazione seppure con un compenso minimo, collaborando con operatori di tutta l’America Latina e dei Caraibi. L’Organismo internazionale ha apprezzato la mia professionalità e serietà e mi ha assunto con uno stipendio mensile dignitoso. Sto ora dando lavoro anche ai miei colleghi della Procura. All’inizio avevo timore di affrontarli, conoscendo il loro modo scorretto di agire e gli apprezzamenti su di me. Ho supplicato la Madonna di colmarmi dell’umiltà necessaria per dimenticare il passato e non giudicare. Non è stato facile ma sento molto forte l’amore di Dio per me e per la mia famiglia. (D. L. – Colombia) (altro…)

Il paziente al primo posto

Quando anni fa ho iniziato a lavorare in un centro di riabilitazione, ero da sola e cercavo di vivere  il Vangelo cercando di vedere Gesù nel fratello, sia nel paziente sia nel collega. Nel giro di qualche mese ho approfondito la conoscenza di una collega, che stava vivendo un momento difficile, perché aveva deciso di separarsi dal marito. Ho cercato di volerle bene, così, a poco a poco, ha voluto sapere perché mi fermavo fuori dell’orario di lavoro per stare ad ascoltarla. Con mio marito abbiamo cercato di coinvolgere anche suo marito. Condivide ora con me l’impegno di volontaria. Eravamo finalmente in due: ogni mattina offrivamo a Gesù tutte le difficoltà, cercavamo di vedere le cose insieme. A noi poi, si sono aggiunte altre persone. Questo spirito stava trasformando anche il nostro operato nell’ambiente di lavoro: sentivamo che dovevamo porre al centro della nostra attività di riabilitazione il paziente. Un giorno il primario, che aveva notato il nuovo stile di lavoro, mi ha chiesto se ero disposta a trasferirmi con lui per costituire un nuovo Polo riabilitativo in un paese dell’Italia del Nord, esprimendo il desiderio che venissero anche altri della nostro gruppo. Ci siamo confrontati insieme e abbiamo capito che poteva essere un’occasione per realizzare quel sogno che avevamo nel cassetto: la persona disabile, insieme alla sua famiglia e alla comunità circostante, protagonista del processo riabilitativo. Così abbiamo aderito alla proposta, anche se per noi significava andare a lavorare più lontano. Dopo un periodo in cui le difficoltà per allestire il nuovo centro non sono mancate, le cose vanno bene. Gli echi  sono più che positivi, anche sui mass media. Sono responsabile dell’area riabilitativa, coordino più di un centinaio di operatori tra fisioterapisti, logopedisti, terapisti occupazionali e terapisti dell’età evolutiva e, con il contributo degli altri membri della cellula, che nel frattempo è arrivata a trenta persone, cerco di trasmettere alcune linee fondanti, come il fatto che il progetto riabilitativo deve tener conto, per ogni paziente, dei suoi bisogni e delle sue preferenze, perché è importante privilegiare il rapporto con lui. (M. D. – Italia) (altro…)

Accanto ai malati di Aids

Sono medico, specialista in malattie infettive, e sono in contatto con i pazienti sieropositivi e malati di AIDS da 23 anni. Sono il referente per questa patologia nell’ospedale dove lavoro a Kinshasa, la capitale del Congo. Ho imparato molto presto nella vita a partecipare alla trasformazione della società nella quale vivo. Creare una società nuova e giusta, nella quale l’uomo è al centro delle preoccupazioni di tutti i membri della comunità, è stato così uno degli obiettivi della mia vita. Ho dunque deciso di fare il medico per mettermi al servizio dei miei fratelli. Terminati gli studi di medicina, mi sono trovato ad affrontare una grande sfida: le condizioni di lavoro erano sempre più degradanti, gli stipendi insignificanti. Le condizioni materiali del medico non portavano a una coscienza professionale e all’onestà. Per sopravvivere bene bisognava lavorare in organismi internazionali o in cliniche private . Molti miei colleghi medici sono emigrati in Europa o negli Stati Uniti. Ad un certo punto sono stato tentato anch’io di emigrare. Dopo aver riflettuto con mia moglie, abbiamo deciso di restare nel Paese, accettando la situazione: malati poveri, condizioni difficili di lavoro, mancanza di materiale e a volte tentativi di corruzione. Ciò che mi dava coraggio era lavorare insieme a medici del Movimento e ad altri che, come me, sentivano di mettere il malato al primo posto. All’inizio eravamo spaventati dalla possibilità di essere contagiati dal virus: le scarse condizioni igieniche e le strutture sanitarie carenti non ci davano alcuna garanzia. In quel periodo il nostro Paese era in piena crisi socio-economica e politica. Non ricevevamo più aiuti dalla cooperazione internazionale. Poi è scoppiata la guerra con il carico di drammi che ogni conflitto porta con sé. Avevamo grandi difficoltà a curare i malati di AIDS, ma abbiamo continuato ed è stata davvero l’occasione di vivere concretamente l’amore. La nostra azione si è concretizzata in alcune attività dirette alla cura dell’AIDS e  alla prevenzione. Per la cura dei malati, con l’aiuto dell’Associazione Mondo Unito è stato possibile costruire una struttura sanitaria completa di laboratorio di analisi. Inoltre  è stato avviato un programma di cura a base di farmaci specifici, finalmente disponibili anche in Africa e garantiti a tutti, anche ai più poveri. Tutto ciò è stato il frutto di recenti scelte da parte dell’ONU nelle strategie di lotta contro l’AIDS. Per la prevenzione è stata avviata in maniera sistematica la formazione di educatori e divulgatori con il compito di intervenire sul piano psicologico, sociologico e morale presso i giovani e le famiglie, al fine di operare nella popolazione un cambiamento di comportamenti. Il contenuto principale dei corsi consiste nel dare informazioni complete e corrette sulla trasmissione e prevenzione della malattia. Alcuni pensano infatti che il virus provenga da manipolazioni di laboratorio, altri  ne vedono l’origine in Dio a causa del peccato, quasi una sorta di punizione. Queste concezioni, spesso legate alla cultura africana, sono molto difficili da sradicare. Per questo si cerca di approfondire l’origine della malattia, gli effetti del virus sul sistema immunitario e i mezzi di prevenzione dell’AIDS. Oltre allo sviluppo di attività produttive per migliorare l’alimentazione di base, si è cercato anche di garantire un sostegno psico-sociale ai malati e alle loro famiglie. (M. M. – Congo) (altro…)

Comunione nella diversità per un mondo pacificato

Di fronte a un mondo lacerato da molteplici conflitti politici, etnici e religiosi oggi in corso, 45 Vescovi di varie Chiese, amici del Movimento dei Focolari, provenienti da 20 Paesi, dall’Etiopia alla Finlandia, dall’Australia all’India, dal Sud e dal Nord-America, stanno testimoniando in questi giorni col loro incontro che la comunione, nel rispetto della diversità delle varie tradizioni, è possibile, anzi, è per i cristiani, oggi più che mai, un dovere. Questo 25° Convegno ecumenico di Vescovi, tra i quali un vescovo del Libano appena uscito dalla guerra, si svolge dal 20 al 27 settembre al Centro Mariapoli di Castelgandolfo nell’intento di approfondire – come proposto dal tema – l’amore per Cristo crocifisso e abbandonato quale via indispensabile per avanzare verso la piena comunione visibile fra i cristiani, e per promuovere nel mondo la fratellanza universale. I vescovi quest’anno hanno voluto ritrovarsi vicino a Roma, per poter avere un contatto diretto con S.S. il Papa Benedetto XVI. Negli  anni scorsi si erano radunati in luoghi altamente significativi, come a Istanbul dove i Vescovi avevano potuto incontrare il Patriarca ecumenico Bartolomeo I, ed a Bucarest nel Patriarcato Rumeno ortodosso dove erano stati accolti dal Patriarca Teoctist. L’attuale gruppo di Vescovi, appartiene a 22 Chiese e Comunità ecclesiali dell’Oriente e dell’Occidente. Il Papa li aspetta domenica a mezzogiorno per la preghiera dell’Angelus e per un saluto personale. Il Card. Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei Cristiani, appena reduce dalla prima sessione plenaria della Commissione internazionale con cui in questi giorni è stato riavviato a Belgrado il dialogo internazionale tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, martedì prossimo parlerà ai Vescovi su: “Cambiamenti nella scena ecumenica con particolare riferimento all’ortodossia”. Un contributo molto atteso verrà da una riflessione di Chiara Lubich, fondatrice e presidente del Movimento dei Focolari, che affronta il passaggio dalla “notte collettiva e culturale”, che si è abbattuta oggi su vaste aree della società, ad una rinnovata presenza di Cristo in mezzo a uomini e donne, capace di suscitare fra singoli e popoli un’onda d’amore, di condivisione e di partecipazione. La visita alle Catacombe, simbolo delle comuni radici della Cristianità indivisa, e l’incontro con le varie Comunità presenti a Roma – cattolica, ortodossa, anglicana, evangelico luterana – saranno ulteriori stimoli per proseguire nel cammino verso una più profonda comunione ed una testimonianza coerente e convincente di fronte al mondo. L’intero Convegno sarà permeato dalla “spiritualità dell’unità”, tipica del Movimento dei Focolari, accolta dai fedeli delle diverse Chiese come spiritualità ecumenica, che contribuisce a istaurare un “Dialogo della vita” fra singoli, comunità, gruppi e Movimenti. Questi Convegni, sostenuti sin dall’inizio dalla benedizione dei rispettivi capi di Chiese – sulla base dell’impegno a mettere in pratica il Vangelo e, primo fra tutti, il Comandamento nuovo di Gesù (cf Gv 13, 34) – promuovono fra Responsabili di varie Chiese uno spirito di comunione che, specialmente negli ultimi anni, si ripercuote sempre più nella Cristianità. (altro…)