Ott 20, 2019 | Focolari nel Mondo
Dieci giorni ininterrotti di proteste con centinaia di arresti e 5 vittime. L’appello al dialogo dei vescovi e all’ONU/Ecuador che finalmente porta frutto. L’impegno dei Focolari per dare un contributo la pace. Dallo scorso 2 ottobre, giorno in cui il presidente dell’Ecuador Lenin Moreno ha annunciato un pacchetto di misure di austerità, cancellando tra l’altro i sussidi ai carburanti con il conseguente aumento di numerosi beni di consumo, in Ecuador le proteste non cessano ed è stato dichiarato lo stato di emergenza. Il Paese latinoamericano, con oltre 17 milioni di abitanti (il 71.9% metici, il 7.4% montubie, il 7.8 % afro-ecuadoriani, il 7.1 % indigeni e il 7 % bianchi), si trova in bilico tra le proteste pacifiche, ma basta un niente perché diventino violente e provochino l’azione repressiva delle forze dell’ordine. “È finita la pace”, mi ha scritto quel giorno un giovane ecuadoriano, mandandomi un video che mostrava i carri anti sommossa in piazza. Anche un’amica mi ha scritto pochi giorni dopo: “Ho sentito frasi xenofobe e alcune storie di meticci e indigeni ingannati e poi attaccati. Ho provato un grande dolore per la morte di donne e bambini. All’alba hanno bombardato a sorpresa e dicono che ci siano 5 morti. Nonostante il dolore ho trovato una popolazione pacifica, che durante la protesta usava queste armi: acqua in grandi secchi per spegnere gli incendi causati dalle bombe, bicarbonato, aceto, maschere per coprirsi il volto dai gas, rametti di eucalipto. In prima linea c’erano giovani tra i venti e i trent’anni che non avevano paura di morire. Alla sera non c’erano gli indigeni, ma sono arrivate in piazza persone di ogni età e colore, forse in 30 mila, delusi perché il Governo non risponde, anzi, l’Assemblea nazionale si è dichiarata in ferie. Per questo motivo manca un canale di dialogo”. In questo delicato scenario, i primi a farsi avanti sono stati i vescovi insieme all’ONU/Ecuador con una proposta di dialogo, in particolare tra gli indigeni e il Governo. Dopo aver incontrato le parti, hanno convocato una riunione domenica 13 ottobre. “Ci affidiamo alla buona volontà di tutti per stabilire un dialogo di buona fede e trovare una pronta soluzione alla complessa situazione che vive il Paese”, scrivono. Anche il Movimento dei Focolari è impegnato a costruire la pace. “In questi giorni viviamo questa dolorosa situazione facendo gesti di generosità, andando al di là dei timori e delle nostre convinzioni, cercando di metterci al posto dell’altro. Proviamo un senso di impotenza di fronte allo scontro tra fratelli. Vogliamo che il nostro agire sia un compendio di cuore, mente e mani, domandandoci: ciò che sento, penso e faccio è espressione di amore vero verso l’altro, qualunque sia l’altro? Il mio agire contribuisce al dialogo, alla pace? Crediamo che ogni cittadino abbia il diritto di manifestare in favore della giustizia e della democrazia, rifiutiamo ogni forma di violenza, da qualsiasi settore della società provenga, e vogliamo che il nostro agire metta in evidenza la predilezione per i meno privilegiati, come ci insegna il Papa. Nell’amore a Gesù nel suo abbandono, che oggi ci si presenta sotto il volto sofferente del fratello indigeno, del poliziotto colpito, del giovane con la faccia insanguinata, di coloro che soffrono per i propri cari ingiustamente uccisi, del giornalista aggredito, di chi attacca l’altro perché la pensa diversamente, dell’apatico che preferisce ignorare quanto succede, di chi diffonde notizie false, degli immigrati stigmatizzati, vogliamo vivere con più radicalità il Vangelo”.

Un pranzo condiviso, gente e militari, durante una marcia
In Ecuador i Focolari sono impegnati nel dialogo tra le numerose culture presenti nel paese. Un dialogo che oggi sembra compromesso. “Questa situazione difficile – continuano – potrebbe far pensare che tutti gli sforzi fatti, anche con fatica, a favore di un dialogo interculturale e dell’unità, siano stati vani. Invece no! Forse Dio oggi convoca ognuno di noi per intensificare la nostra vita cristiana e agire come costruttori di pace lì dove ci troviamo”. E concludono: “Chiediamo lo Spirito Santo perché ci illumini tutti per capire come procedere in questi momenti difficili”. L’appuntamento è ogni giorno per il “time-out” per la pace. Mentre scrivo (con più di 700 arresti e 5 vittime), le parti in conflitto sono arrivati ad un accordo ed è stato derogato il decreto annunciato il 3 ottobre, con l’impegno di redigerne uno nuovo che coinvolga ambedue le parti nella scrittura del testo. Ora c’è solo da sperare che si arrestino le proteste e che torni la pace sociale.
Gustavo E. Clariá
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Ott 8, 2019 | Collegamento
Giovani e adulti, partecipanti dell’Est e dell’Ovest hanno fatto un’esperienza importante di apertura, conoscenza delle diverse culture e dialogo in Europa. https://vimeo.com/362734894 (altro…)
Lug 14, 2019 | Dialogo Interreligioso
Per la prima volta una settimana insieme: ebrei, musulmani, indù, buddisti, cristiani. Appartengono alla famiglia dei Focolari. Liridona viene dalla Macedonia del Nord ed è musulmana, sunnita. A Papa Francesco, nel suo recente viaggio, ha presentato l’esperienza che vive con altri giovani dei Focolari, cristiani e musulmani, concludendo con la domanda: «È lecito continuare a sognare?»[1]. Dal 17 al 23 giugno, il suo sogno si è incrociato con quello di una quarantina di persone, da 15 Paesi, di 5 fedi diverse, attesi a Castel Gandolfo come si attende «quelli di casa» dal team del centro del dialogo interreligioso dei Focolari. Prima tappa la cappella che custodisce la tomba di Chiara Lubich[2]. Con un canto Vinu Aram, indiana, leader del movimento Shanti Ashram, esprime per tutti l’amore che li lega alla «fonte» che ha cambiato le loro vite.
E il dr. Amer, musulmano, docente di teologia comparata: «Vengo dalla Giordania, dove scorre il Giordano. Mi fa pensare che il nostro cammino inizia con la purificazione dell’anima. Spesso mi chiedo come persone possano togliere la vita ad altri e a sé stessi spinti dall’estremismo radicale. Chiedo a Dio il coraggio di essere pronti a dare la vita per il Bene, per testimoniare quest’amore tra noi e a tutti».
Un quarto dei partecipanti ha meno di trentacinque anni. Fra loro Kyoko, buddista, dal Giappone, Nadjib e Rassim musulmani dell’Algeria, Israa e Shahnaze, sciite, che vivono negli Usa, Vijay indù di Coimbatore. Si vivono giorni di «profezia» approfondendo l’esperienza mistica dell’estate ‘49. Shubhada Joshi, indù, racconta: «Quando ho sentito parlare per la prima volta di “Gesù Abbandonato“ stavo sopportando grandi sofferenze e non riuscivo a capire. Ho iniziato a guardarlo come l’altro lato della medaglia dell’amore. Sto comprendendo la mia tradizione in un modo migliore».
Dopo tre giorni questo «laboratorio» si apre a un centinaio di persone, per lo più cristiani, impegnate nel cammino di fraternità dei Focolari. Il messaggio del neo-Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, mons. Ayuso Guixot esprime un segno di profonda «sintonia» con l’operato di papa Francesco. La narrazione di questo dialogo nel magistero degli ultimi Papi fatta da Rita Moussallem e Roberto Catalano mette in evidenza l’apertura e lo spirito profetico del Vaticano II. Formazione e trasformazione dunque. Ognuno, arrivato «carico» delle proprie esperienze, trova nella condivisione con fratelli e sorelle di varie fedi la «scuola» più vera, fa l’esperienza di un «Dio presente». Oltre il dialogo, si guarda avanti insieme. Del resto Papa Francesco a Liridona aveva risposto di: «diventare bravi scalpellini dei propri sogni con applicazione e sforzo, e specialmente con una gran voglia di vedere come quella pietra, per la quale nessuno avrebbe dato nulla, diventa un’opera d’arte»[3].
Gianna Sibelli
[1]cfr. www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-05/papa-francesco-viaggio-macedonia-nord-incontro-ecumenico-giovani.html [2]La cappella del centro del Movimento dei Focolari, a Rocca di Papa, custodisce la tomba di Chiara Lubich insieme a quelle dei co-fondatori dell’Opera di Maria: Igino Giordani e d. Pasquale Foresi [3]www.vatican.va, viaggio apostolico in Macedonia del Nord, Discorso di Papa Francesco all’incontro ecumenico e interreligioso con i giovani, Skopje, 7 maggio 2019. (altro…)
Mag 16, 2019 | Centro internazionale
Nuova tappa del viaggio di Maria Voce e Jesús Morán in Libano: alle radici della cultura del Paese, con la sua complessità sociale, politica e religiosa. La sfida di un dialogo autentico come chiave per la rinascita del Libano. “It’s time to built a new nation”, “È ora di costruire una nuova nazione”. Così dice un grande cartello che si affaccia sull’autostrada, ma la velocità del traffico libanese non premette di capire né di chi sia appello, né quali intenzioni voglia esprimere.
La piccola delegazione del Movimento dei Focolari con a capo la presidente Maria Voce e il copresidente Jesús Morán è di ritorno da una gita al Nord del Paese dove ha visitato la Valle dei Santi, il centro spirituale della Chiesa Maronita di cui fanno parte la grande maggioranza dei cristiani libanesi. È anche la zona dei famosi cedri di Libano: una piccola foresta a 2000 metri d’altezza, dove esistono ancora esemplari che probabilmente risalgono all’epoca del Re Salomone e quindi a 3000 anni fa. Tornando a Beirut si è carichi di impressioni che affermano la grande capacità di questo popolo che ha alle spalle 7000 anni di storia e che ha saputo sopravvivere all’incrocio di tre continenti e di tre grandi religioni ma ha anche saputo conservare la propria creatività in condizioni estremamente difficili. Più ci si avvicina alla capitale, più ritorna alla mente la realtà attuale che nella sua complessità non dà molti motivi di speranza. In Libano attualmente sono presenti 18 comunità religiose. Lo Stato e le pubbliche amministrazioni funzionano “in emergenza”. C’è un intreccio indissolubile tra gruppi etnici, religiosi, politici, tra grandi famiglie, interessi economici, potenze esterne. Le vecchie ferite della guerra cosiddetta “civile” dal 1975 al 1990 non sono ancora guarite. “Non abbiamo avuto il coraggio di guardare in faccia al male che abbiamo provocato gli uni agli altri – ha detto uno dei vescovi incontrati in questi giorni – e di conseguenza nessuno ha mai chiesto perdono all’altro”. E più volte in questi giorni si sente dire che la situazione potrebbe scoppiare da un momento all’altro.
“È ora di costruire una nuova nazione”, dice il cartello sull’autostrada e viene spontaneo chiedersi come ciò potrà mai accadere. La risposta che Jesús Morán ha delineato in un intervento a una tavola rotonda alla facoltà di Filosofia dell’Università Santo Spirito (USEK) nei pressi di Beirut, può essere riassunta nell’unica parola: dialogo. “Il dialogo – ha sottolineato il copresidente dei Focolari – fa parte della natura dell’uomo. Nel dialogo l’uomo diventa più uomo perché è completato dal dono dell’altro. Quindi, non si tratta tanto di parole o di pensieri, ma di donare il proprio essere. Ciò richiede silenzio e ascolto ed il rischio di mettere in gioco la propria identità, anche culturale, anche ecclesiale, che non andrà tuttavia perduta ma arricchita nella sua apertura”. Dialogare quindi per costruire una nuova nazione? Non sarà anche questa un’altra bella teoria, una delle tante che i Libanesi hanno sentito in questi anni.
“Assolutamente no!”, potrebbero rispondere i 150 cristiani e musulmani che il 13 maggio si sono incontrati nella cosiddetta “casa gialla” costruita su quella che era la linea di demarcazione tra le zone Est e Ovest di Beirut e che è stata ricostruita, per non dimenticare le ferite della guerra. Le testimonianze della loro amicizia, nata durante la guerra sulla base di una semplice accoglienza da parte dei Focolari, erano commoventi e convincenti. Piccoli gesti di vicinanza e attenzione, visite reciproche, rapporti senza interessi, hanno trasformato – come ha descritto una donna musulmana – l’amicizia in una vera famiglia. “Il dialogo è possibile solo tra persone vere. Ed è solo l’amore che ci fa veri”, ha detto Jesús Morán nel suo intervento. Gli amici cristiani e musulmani e la loro esperienza ne sono la prova. Forse è solo un piccolo seme, che magari crescerà lentamente, proprio come i cedri del Libano. Ma è sicuramente un seme con una forza irresistibile, dal quale può nascere una nazione nuova.
Joachim Schwind
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Mar 4, 2019 | Nuove Generazioni
La cittadella svizzera ospita due scuole per giovani: i focolarini in formazione e coloro che vogliono approfondire la spiritualità dell’unità. Per loro il dialogo, lo scambio e l’arricchimento reciproco fra le generazioni e le culture, è il tratto distintivo di Montet. “Una comunità che lavora concretamente anima e corpo per mostrare all’umanità che la diversità non è un fallimento, ma una grazia di Dio sull’uomo per unire il mondo”. Così Michael, un ragazzo del Mali, descrive la cittadella dei Focolari a Montet, in Svizzera. Qui, insieme ad altri 30 giovani di 13 Paesi diversi, ha trascorso un anno di formazione umana, spirituale e professionale. Un periodo di studio, lavoro e vita comunitaria, vissuto alla luce degli insegnamenti del Vangelo e del Carisma dell’Unità di Chiara Lubich, per sperimentare che è possibile costruire rapporti di fraternità anche fra persone diverse per età, cultura, sensibilità e tradizioni.
In effetti, circondata dai tre laghi di Bienne, Morat e Neuchâtel, fra colline verdi e panorami che ispirano pace e silenzio, la Cittadella internazionale dei Focolari, dal 1981, si caratterizza per la presenza di circa cento abitanti di 35 nazioni diverse: metà sono giovani che vi abitano per un anno, l’altra metà sono adulti che ne garantiscono la continuità. Qui si incrociano le strade di persone provenienti dai 5 continenti, di culture e religioni diverse, cristiani di varie denominazioni e di tutte le generazioni. Fu in questi luoghi, negli anni ’60, che Chiara Lubich ebbe la prima intuizione di quelle che sarebbero state le cittadelle dei Focolari – oggi 25 nel mondo – pensate come luoghi-testimonianza della fraternità universale: “Fu ad Einsiedeln che capii, vedendo dall’alto di una collina la basilica e il suo contorno, che doveva sorgere nel Movimento una città, la quale non sarebbe stata formata da un’abbazia o da alberghi, ma da case, luoghi di lavoro, scuole, come una comune città”. Nella cittadella sono ospitate due scuole di formazione per giovani. Una per quelli che si preparano per la vita consacrata, i focolarini. E un’altra per coloro che desiderano vivere un anno di vita comunitaria e sono in cerca della loro vocazione. “Aver fatto la scuola a Montet – racconta Alejandro da Cuba – insieme a persone di tante nazioni è stata una conferma che il mondo unito è possibile anche quando ci sono diversità, ma c’è anche la volontà di costruirlo. È un quotidiano imparare l’uno dall’altro. È cercare di costruire l’unità nella diversità attraverso l’amore. È una avventura meravigliosa”.
“Nella cittadella – spiega Andrè del Brasile –i giovani hanno l’opportunità di studiare l’etica, la sociologia, la teologia e il dialogo interculturale e di approfondire la spiritualità dell’unità. Possono mettere in pratica questi aspetti nei lavori svolti, gettando le basi di un futuro professionale più responsabile e coerente in ogni ambito sociale”. “Inoltre – aggiunge – vivendo il rispetto fra le generazioni, tu capisci che nessuno è maggiore dell’altro, ma piuttosto che ciascuno è responsabile per l’altro, per cui gli anziani diventano più giovani nel loro modo di vivere la vita e i giovani acquisiscono responsabilità”. Per Gloria, dell’Argentina, l’interculturalità, ovvero il dialogo, lo scambio e l’arricchimento reciproco fra le culture, è il tratto distintivo della cittadella. “Abbiamo dovuto imparare a fare qualcosa di grande con la nostra diversità. È stato difficile perché sembrava che non ci capissimo, ma con amore abbiamo risolto le cose pratiche e ci siamo compresi nelle cose trascendenti. Nel vivere insieme ho scoperto le cose più belle degli altri, ma anche quelle della mia cultura. Ho capito il valore che ha il prossimo nella mia vita e penso che non dobbiamo avere paura di aprirci per conoscere il “mondo degli altri”. A Montet “ci sono risposte per le domande che ci facciamo ogni giorno” commenta Ivona dalla Serbia. La cittadella “è un dono di Dio – è il sentimento che Larissa, porta con sé in Brasile – una famiglia, multiculturale e di diverse generazioni”.
Claudia Di Lorenzi
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