Movimento dei Focolari

"La dottrina spirituale" di Chiara Lubich

Non è un libro qualsiasi, La dottrina spirituale di Chiara Lubich.
Non appena si comincia a leggerlo, si ha la sensazione di entrare in una dimensione diversa, molto diversa, da quella a cui la realtà di ogni giorno troppo spesso ci abitua. Andando avanti con le pagine, si scende in profondità, ci si trova a fare i conti, inevitabilmente, con il senso più vero di parole e pensieri che lasciano il segno.

E anche con se stessi, e in particolare con il rapporto che ognuno di noi è capace di avere con gli altri: con chi ogni giorno condivide la nostra vita, ma anche con le persone di un’altra condizione sociale, di un’altra cultura, di una diversa etnia o fede religiosa.
C’è una parola, un valore fondamentale, che rappresenta la chiave di volta non solo del libro, ma credo di poter dire anche della vita di Chiara Lubich e del Movimento dei Focolari, da lei fondato – lo scrive – «con gran semplicità», e ormai presente in tutto il mondo. Questa parola è «dialogo».

Dialogo nella Chiesa, tra le Chiese, nei fedeli di altre religioni, tra i laici di «buona volontà»: quattro pilastri che reggono un edificio abitato e animato da più di due milioni di persone, quattro principi che segnano un crocevia per tutti coloro che ritengono valida la frase di Ghandi, citata dalla Lubich: «io e te siamo una cosa sola. Come posso ferirti senza far male a me stesso?».

È difficile non cogliere l’intima verità di questo messaggio. È difficile soprattutto oggi, nel momento in cui avvertiamo tutto il dolore della ferita più profonda che la storia degli ultimi cinquant’anni ci abbia mai inferto. Una ferita figlia di un odio maturato sotto la distorsione in fanatismo di una religione che come tutte le altre predica la pace e, appunto, il dialogo.

Una ferita che ha segnato l’umanità intera, perché la ragione Andrea Riccardi: quelle torri gemelle, ripiegate su stesse l’11 settembre, rappresentano una sorta di contemporanea «arca di Noè», abitate com’erano da donne e da uomini di ogni colore, di ogni credo religioso, di origini diverse, con radici che affondavano in così tanti paesi del mondo eppure con speranze e con sogni che non dovevano poi essere così dissimili tra loro.
Una ferita profonda, una lacerazione intensa e così grande che la politica e la comunità internazionale si sono dovute porre il problema del modo in cui impedire il ripetersi di una simile tragedia. Ma le istituzioni degli uomini devono sapersi porre anche un altro problema: quello del limite connaturato alle proprie azioni, dell’impossibilità di assicurare il futuro delle generazioni che verranno se non si riuscirà a far crescere una profonda cultura del dialogo, della conoscenza e del rispetto di ciò che è altro da sé.

Sono vere e colpiscono, in questo senso, alcune parole della Lubich, in particolare quando si sofferma sulla indispensabile capacità, che ogni individuo e ogni popolo dovrebbero ricercare, di «oltrepassare il proprio confine e guardare al di là», offrendo un contributo a «quanti lavorano in quest’immenso cantiere che è oggi il nostro pianeta».

Oltrepassare i confini del proprio modo di essere e di vedere le cose, creare ponti per costruire un dialogo: è questa la sfida. una sfida difficile, ma è l’unica stretta via per evitare che vinca chi vuole uno scontro di civiltà. Non possiamo permettere che un modo di pensare sia destinato a prevalere sugli altri, che si affermi una civiltà o una religione su un’altra. «Dialogando a 360 gradi», come dice ancora Chiara Lubich, potremo non fermarci di fronte allo «spacco della divisione»,ma potremo «trovarvi rimedio, tutto il rimedio possibile».
Anche perché, come lei stessa insegna, il dialogo e l’amore formano un flusso potente, ricco e a doppio segno: è un dare e ricevere continuo, senza interruzioni. È qualcosa che rafforza, che arricchisce e che costruisce rapporti di solidarietà tra gli uomini.

Quella stessa solidarietà per la quale ero partito per gli Stati Uniti, qualche giorno fa, e che ho portato al Sindaco e al Comandante dei Vigili del Fuoco di New York. Quella stessa, comune, solidarietà che poche ore dopo ho ricevuto da loro quando ad essere bisognoso sono stato io, è stata la città che rappresentavo, Roma, colpita da quella tragedia, da quella esplosione, dalla morte di chi stava facendo il suo dovere e di chi viveva e lavorava lì, a via Ventotene.

Davvero dialogo e solidarietà rappresentano un dare e ricevere, un flusso ininterrotto e biunivoco. E proprio dialogo e solidarietà hanno bisogno di essere costruiti, pazientemente, tenacemente, ogni giorno. Nei rapporti tra i popoli, ma anche nel sistema di relazioni che anima le nostre comunità, le nostre città. È compito di tutti: delle istituzioni, di chi governa e amministra, delle associazioni e dei movimenti che rendono ricco il tessuto di una società, di ogni uomo di buona volontà.

In un discorso riportato nel libro e tenuto a Castel Gandolfo, un anno e mezzo fa circa, Chiara Lubich fa cenno a un certo punto alla «tremenda responsabilità che hanno di fronte a Dio e agli uomini quelli che governano» e che il potere politico deve porsi «al servizio» dei cittadini.
Devo dire che come sindaco di Roma sento tutta la responsabilità di questo, e in particolare della parte che spetta alle istituzioni, del ruolo che il Comune può e deve avere, per contribuire a far funzionare al meglio quella rete di solidarietà cittadina senza la quale non avremmo speranza di «ricucire» una società che sia inclusiva e solidale, di costruire una città più umana, in cui ogni persona abbia garantita una vita degna di essere vissuta, in cui nessuno debba correre più il rischio di restare solo. Ma è proprio questo che conta di più, perché le condizioni di benessere di un città, di una qualsiasi realtà locale, non possono essere valutate e misurate unicamente in base alla generica capacità di produrre ricchezza, ma anche e soprattutto in base al livello di inclusione sociale e all’insieme di opportunità che le istituzioni e la comunità nel suo complesso sono in grado di garantire ai cittadini, a tutti i cittadini.

È vero, allora, che se il dialogo ha sempre più bisogno di «missionari», la solidarietà ha sempre più bisogno di «costruttori», di persone della fede e della profondità interiore di Chiara Lubich e di tutti coloro che, con il loro impegno quotidiano, siano amministratori o giovani che fanno parte di un movimento o di un’associazione di volontariato, spendono una parte di sé per la vita degli altri, per il futuro di tutti noi.

La testimonianza di fede di Chiara Lubich

La testimonianza di fede di Chiara Lubich

È il 27 novembre, e la comunità universitaria, alla conclusione della mattinata di lezioni, si raduna per aprire l’Avvento con Chiara Lubich, che si rivolge alle autorità accademiche, a professori e studenti, introdotta da una efficace presentazione del rettore, prof. Franco Imoda, che l’aveva invitata.

Partendo da alcuni episodi chiave della propria vita, la fondatrice del Movimento dei Focolari ha messo in luce i due cardini principali della sua spiritualità: l’unità e Gesù abbandonato.

E poi gli esempi: così la spiritualità dell’unità permette di rinnovare la vita quotidiana e di intraprendere e sviluppare i grandi dialoghi ai quali la chiesa è oggi chiamata.
Per ognuno di essi la Lubich ha fornito testimonianze e indicato linee dottrinali, profondamente inserite nella tradizione della Chiesa e, allo stesso tempo, portatrici di nuove e illuminanti prospettive.

Un percorso, quello tratteggiato dalla Lubich, culminante col riconoscimento che la spiritualità di comunione portata dal carisma dell’unità non è più, ormai, soltanto del Movimento dei Focolari, ma, come ha recentemente scritto Giovanni Paolo II, è spiritualità della Chiesa.

L’applauso caloroso e interminabile, lo stringersi dei giovani intorno a Chiara, i capannelli di studenti che si attardavano a commentare vivacemente, sembravano non voler concludere un incontro indimenticabile.

I movimenti ecclesiali per la nuova evangelizazzione

All’inizio di questo nuovo millennio il Papa chiama tutta la Chiesa a “prendere il largo” imprimendo nuovo slancio all’evangelizzazione. Al Convegno verrà presentata la testimonianza della “nuova evangelizzazione” suscitata dai nuovi carismi, attraverso l’esperienza di fondatori e responsabili di alcune delle principali espressioni carismatiche. Interverranno: P. Michael Marmann, per l’Opera di Schönstatt, il dott. Stefano Gennarini per il Cammino neocatecumenale, il dott. Salvatore Martinez per il Rinnovamento nello Spirito, il vescovo Vincenzo Paglia per la Comunità di Sant’Egidio, il dott. Jesus Carrascosa e don Gerolamo Castiglioni per Comunione e Liberazione e Chiara Lubich per il Movimento dei Focolari. Si intende così offrire una conoscenza diretta, “dalla fonte”, dei Movimenti ecclesiali e nuove Comunità, in cui il Papa individua un “segno della libertà di forme in cui si realizza l’unica Chiesa” e una “sicura novità che ancora attende di essere adeguatamente compresa in tutta la sua positiva efficacia per il Regno di Dio all’opera nell’oggi della storia”. Il Convegno è uno dei frutti di quella testimonianza comune auspicata da Giovanni Paolo II, perché “in comunione con i pastori, Movimenti e nuove Comunità portino nel cuore della Chiesa la loro ricchezza spirituale, educativa e missionaria, quale preziosa esperienza e proposta di vita cristiana”. Sullo “Sviluppo della comunione fra i Movimenti ecclesiali fra loro e con i pastori della Chiesa del ’98 ad oggi” parlerà il prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Altri approfondimenti spirituali e teologici saranno svolti: da Natalia Dallapiccola che parlerà su “Gesù Crocefisso e abbandonato, il Dio di oggi: chiave della comunione ecclesiale” e dal prof. Piero Coda che tratterà di “Doni gerarchici e doni carismatici in comunione per l’edificazione e la missione della Chiesa”. Vivo interesse ha suscitato la scelta del tema di questo Convegno, non solo da parte dei numerosi sacerdoti che hanno aderito all’invito, ma anche da parte dei diversi responsabili dei dicasteri competenti della Curia Romana. Il Card. Dario Castrillon Hoyos, Prefetto della Congregazione per il Clero, presiederà la concelebrazione eucaristica del primo giorno, mentre il Card. James Francis Stafford, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici parlerà su “L’apporto dei Movimenti ecclesiali all’evangelizzazione in un mondo secolarizzato”. Il Convegno si concluderà con la concelebrazione eucaristica presieduta dal Card. F.X. Nguyen Van Thuan, Presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Atteso il messaggio del Papa. Dal 1979 il Movimento sacerdotale, diramazione del Movimento dei Focolari, promuove Convegni teologico-pastorali aperti a sacerdoti, diaconi e seminaristi, sui temi di maggiore attualità ecclesiale. Tra le tematiche affrontate: “I quattro dialoghi nella Chiesa” (’98) -“Formazione del clero” (’92) – “Sacerdoti domani” sulla formazione dei seminaristi (’89); “Insieme per l’umanità – Presbiteri e laici in comunione (88)”. (altro…)

Discorso di Chiara Lubich agli indù e membri di altre religioni a Coimbatore

Gentili Signori e Signore, grazie di cuore per il dono che hanno voluto farmi, per il titolo che hanno voluto darmi: “Difensore della pace”. Grazie soprattutto a chi o a coloro che ne hanno avuto la prima idea. Nella terra di Gandhi, nella Patria della “non violenza” e della pace, non potevo aspettarmi nulla di più gradito. Quale il mio atteggiamento d’ora in poi? Onorerò questo loro riconoscimento impegnandomi ancora di più, finché Dio mi darà tempo, a ravvivare fra quante persone e gruppi incontrerò, in quante città e nazioni visiterò, l’unità, specifico carisma del mio Movimento, che è garanzia di pace. Dico la verità: sono venuta in India soprattutto col desiderio di ascoltare, di imparare da voi, per aprire un cordiale dialogo con voi, che considero miei fratelli e sorelle. So, infatti, quanto la vostra antichissima cultura e tradizione religiosa siano ricche e nello stesso tempo so quanto siete sensibili ai valori spirituali, ovunque essi si trovino nel mondo. Ma ora non mi è tanto possibile ascoltare. Lo farò in queste prossime settimane di soggiorno nel vostro grande e bel Paese, ricco di mistero. Sono stata invitata a narrarvi io stessa la mia esperienza spirituale. Essa coincide, in certo senso, con quella del Movimento dei Focolari che rappresento e di cui Dio mi ha fatto strumento assieme a molti altri. Accettatela come un dono cordiale e sincero. Ripercorrendo le tappe della storia di questo Movimento, che ha ormai 58 anni di vita, vorrei disegnare qualche tratto della sua spiritualità. Essa è definita spiritualità dell’unità, perché ha puntato sempre sull’unità con Dio, sull’unità fra le singole persone, sull’unità fra i gruppi, fra le città, fra i popoli, eliminando più discriminazioni possibile, e sognando una futura realtà che potrebbe essere espressa dalle parole: mondo più unito, mondo unito. E questo sogno e il Movimento che tende a realizzarlo (con quanti altri aspirano a questo ideale) non è opera semplicemente umana. Con le nostre autorità religiose, che hanno studiato a fondo il Movimento, noi per primi dobbiamo dire: questa è Opera di Dio. Ed è ciò che abbiamo costatato fin dai suoi albori. Tutto ha inizio nel 1943, a Trento, una tranquilla cittadina dell’Italia, in Europa. Sono insegnante e do anche lezioni private per aiutare la famiglia che attraversa un periodo di povertà. Ho 23 anni. Un giorno, mentre compio un’opera d’amore, un’inaspettata chiamata: “Donati a Dio”. Pochi giorni dopo, offro la mia vita al Signore per sempre. La mia felicità è incontenibile. Non mi balena in testa alcun progetto per la vita. Sono di Dio per sempre: questo mi basta. Esternamente anche quello è un giorno come gli altri. Ma la mia anima è invasa da una grazia particolare, una fiamma è accesa. E se la fiamma è accesa, non può non ardere, non può non comunicarsi. Pochi giorni dopo alcune giovani mi seguono. Intanto la seconda guerra mondiale imperversa e colpisce duramente. Anche a Trento rovine, macerie, morti. Con i bombardamenti scompaiono quelle cose o persone che formavano un po’ l’ideale dei nostri giovani cuori. Una amava la casa: è stata sinistrata.    Una seconda si preparava al matrimonio: il fidanzato non torna più dal fronte. Il mio ideale è lo studio: la guerra mi impedisce di frequentare l’università. Ogni avvenimento ci tocca profondamente. La lezione che Dio ci offre con le circostanze è chiara: tutto è vanità delle vanità. Tutto passa. Contemporaneamente Dio mette nel mio cuore una domanda: ma ci sarà un ideale che non muore? Un ideale che nessuna bomba può far crollare, a cui poter dare tutte noi stesse? Sì, c’è. E’ Dio. Decidiamo di far di Dio l’ideale della nostra vita. Dio, che in mezzo alla guerra, frutto dell’odio, ci si manifesta, come fosse la prima volta, per quello che è: Amore. Così lo presenta un nostro Libro sacro, il Nuovo Testamento, che dice: “Dio è amore” (1 Gv 4,8). Dio, dunque, è tutto per noi: Dio-Amore. Ed è stata questa una luce nuova nelle nostre anime. Sì, una grande novità per la nostra vita spirituale, così grande da operare in noi un profondo cambiamento. Mentre prima, infatti, pur cercando di essere brave cristiane vivevamo come orfane, come persone che avevano padre e madre, ma… solamente terreni. Poi, conosciuto in modo nuovo Dio Amore, ci siamo sentite, con più coscienza, figlie del Padre che è nei cieli. E’ stato come se si sviluppasse in noi una fede nuova. Non era soltanto la fede in Dio, ma proprio la fede nel suo amore. Per cui ci sembrava che niente potesse esprimere meglio la vita, che stavamo iniziando, che la frase della Scrittura: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16). E di questa fede nell’amore di Dio per noi, per ciascuno, per tutti, per l’umanità intera, è stata illuminata, da allora, tutta la nostra esistenza. E qui mi pare di avvertire una certa consonanza con la vostra fede. Un antico inno della vostra religione dice infatti: “Dio è il primo ad amarci, poiché fu lui a dare a noi l’amore e in noi lo accresce quando lo cerchiamo”. Perché si dice ancora: “Il Signore è per natura amore, (…) egli risiede nell’amore, la sua suprema realtà…”. Dio dunque ci amava! Egli era il creatore nostro. Egli, colui che ci sosteneva attimo per attimo; che conosceva tutto di noi. Il suo amore si nascondeva dietro tutte le circostanze della nostra e dell’altrui vita, quelle gioiose o indifferenti, e anche quelle dolorose. Avevamo, dunque, trovato l’ideale per cui vivere: Dio, Dio Amore. Ma come metterlo in pratica? Gesù dice: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio” (Mt 7,21). Niente, dunque, pietismo o sentimentalismo. Fare la volontà di Dio: questo importa, per noi, ma anche per voi, mi sembra. Non dice forse un vostro maestro: “Fare la volontà del Signore è un atto più grande che non cantare le sue lodi”? Ma chi ci avrebbe detto la volontà di Dio? Correvamo in fretta nei rifugi, ogniqualvolta suonava l’allarme, e non portavamo con noi se non un piccolo libro sacro: il Vangelo. In esso avremmo potuto trovare le richieste di Gesù, la volontà di Dio. L’aprivamo. Ed ecco la meraviglia: quelle parole, che avevamo sentito tante volte, s’illuminavano come se una luce s’accendesse sotto. Le capivamo ed una forza, pensiamo dello Spirito, ci spingeva a metterle in pratica. Leggevamo: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 19,19). Il prossimo. Chi è il prossimo? Era lì accanto a noi. Era quella vecchietta che a mala pena, trascinandosi, raggiungeva ogni volta il rifugio. Occorreva amarla come sé: aiutarla, dunque, ogni volta, sorreggendola. Il prossimo era lì in quei cinque bambini spaventati accanto alla loro mamma. Occorreva prenderseli in braccio e riaccompagnarli a casa. Il prossimo era quell’infermo bloccato a casa, senza possibilità di ripararsi, bisognoso di cure. Occorreva avvicinarlo, procurargli delle medicine. Si leggeva nel Vangelo: “Qualunque cosa hai fatto al minimo dei miei fratelli, l’hai fatto a me” (cf Mt 25,40). Le persone attorno a noi, per le terribili circostanze, avevano fame, sete, erano ferite, senza vesti, senza casa. Cucinavamo allora pentoloni di minestra che si portavano a loro. A volte i poveri battevano alla porta della nostra casa e li invitavamo a sedersi accanto a noi: un povero e una di noi, un povero e una di noi. Il Vangelo assicurava: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt 7,7). Si chiedeva a Dio per i poveri e si era ogni volta riempiti d’ogni bene: pane, latte in polvere, marmellata, legna, vestiario…, che si portava a chi ne aveva bisogno. Un episodio emblematico, che racconto sempre, è questo: un giorno un povero mi chiede un paio di scarpe n. 42. In chiesa ho chiesto: “Dammi, Signore, un paio di scarpe n. 42 per Te nel povero”. Uscita di chiesa una signorina mi porge un pacco. Lo apro: vi era un paio di scarpe da uomo n. 42. E questo è uno degli innumerevoli episodi che sono poi successi. “Date e vi sarà dato” (Lc 6,38), leggiamo un altro giorno nel Vangelo. Davamo. V’era un solo uovo in casa per tutte? Lo porgevamo al povero. Ed ecco in mattinata arrivare una dozzina di uova. E così con tante altre cose. E quando comunicavamo ad altri ciò che accadeva ogni giorno, molti, colpiti da questi fatti, volevano fare la stessa esperienza. Il Signore ci guidava così verso il cuore del suo Vangelo che è la legge dell’amore; a vivere cioè quella “Regola d’oro” che è comune a tutte le religioni: “Fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (cf Lc 6,31), o, come dice il Mahabharáta: “Non fare agli altri ciò che a te farebbe male”. O come ha detto mirabilmente il Mahatma Gandhi: “Io e te siamo una sola cosa. Non posso ferirti senza fare del male a me stesso”. E l’amore cristiano che si viveva verso il prossimo era esigente. E’ un’arte e occorre conoscere quest’arte. Quest’amore va indirizzato a tutti. Non ammette accettazione di persone. Non considera questo amore se uno è simpatico o antipatico, bello o brutto, grande o piccolo, della mia patria o straniero. Tutti vanno amati. Anche Dio, il Padre celeste, ama tutti mandando pioggia e sole sui buoni e sui cattivi. Quest’amore ama per primo. Non vuole che si aspetti d’esser amati. L’amore ha sempre l’iniziativa. Quest’amore ama l’altro come se stesso. E ciò va preso alla lettera: occorre proprio vedere nell’altro un altro sé e fare all’altro quello che si farebbe a se stessi. E’ quell’amore che sa ‘farsi uno’ con la persona amata: che sa soffrire con chi soffre, godere con chi gode, portare i pesi altrui. E’ un amore, quindi, non di sole parole, ma di fatti concreti. Un amore indirizzato all’amico ma anche al nemico. E fa del bene a lui, prega per lui. Mi sembra che ci sia una bellissima immagine della tradizione indù per descrivere l’amore al nemico: “La scure taglia il legno di sandalo, mentre questo le fa dono della sua virtù, rendendola profumata”. Ma ora arriviamo al cuore della nostra esperienza spirituale fatta mentre la guerra continuava ed eravamo in grande pericolo. Si poteva veramente morire da un momento all’altro. Occorreva vivere bene, fare fino in fondo la volontà di Dio. Un giorno ho pensato: vi sarà una sua volontà a cui Dio tiene particolarmente? Vorremmo attuare proprio quella prima di morire. Nel Vangelo abbiamo trovato questa frase di Gesù: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 12-13). Era un comando che Egli diceva “nuovo” e “mio”. Quello che ci voleva per noi. Abbiamo capito allora che, se fino a quel momento il Vangelo ci aveva spinte ad amare gli altri, specie i poveri, ora dovevamo rivolgere l’attenzione anche l’una verso l’altra e amarci a vicenda, fino ad esser pronte a morire l’una per l’altra. Naturalmente, non sempre ci era chiesto di dare la vita per le compagne. Ma sotto ogni atto d’amore doveva esserci senz’altro questa disposizione. Lo abbiamo fatto. Anzi, lo abbiamo espresso in un patto. Ci siamo dette reciprocamente: “Io sono pronta a morire per te”. E l’altra: “Io per te”. “Io per te”. “Io per te”. Tutte per ciascuna. E la nostra vita da quel momento è cambiata. Ha fatto un balzo di qualità: una nuova pace, una nuova gioia, un desiderio ardente di far il bene, una luce ci invasero. Cos’era successo? Lo abbiamo capito quando abbiamo letto che Gesù aveva detto: “Dove due o più sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). E noi eravamo proprio così: un piccolo gruppo unito nel suo amore. Dunque, Gesù era spiritualmente fra noi. Ciò che di nuovo avvertivamo nell’anima era effetto della sua presenza. Ci si impegnò a vivere tanto bene l’amore reciproco da aver sempre Gesù con noi. Ma ancora un episodio sintomatico: ci siamo radunate un giorno in una cantina, per ripararci dai pericoli della guerra, e abbiamo aperto il Vangelo a caso; e ci siamo trovate di fronte alla solenne preghiera di Gesù in cui chiede l’unità degli uomini con Dio e fra loro. Abbiamo cominciato a leggere e abbiamo avvertito la certezza che per quella pagina eravamo nate; abbiamo visto in essa la magna charta del nuovo Movimento nascente. Ma come realizzare l’unità? Come comprendere ed attuare questo Ideale? La chiave l’abbiamo trovata in quel momento della vita di Gesù che, per noi cristiani, è segno del più grande amore e cioè quando soffre sulla croce per tutti i peccati del mondo, fino a sentirsi abbandonato da Dio. Ma per questo, come per tutti i dolori della croce, assicura agli uomini la salvezza. E siamo stati spinti a vivere come Gesù, a imitarlo, raccogliendo su di noi – se così si può dire – le sofferenze dell’umanità. Da allora, abbiamo visto il nostro posto dovunque appariva il dolore: dove si incontravano divisioni e traumi, nelle famiglie separate, nello spacco fra le generazioni, nelle Chiese divise, nelle lotte religiose, nelle tensioni fra chi crede e chi non crede. E, amando Gesù abbandonato nel dolore, vedevamo ricomporsi l’unità e rinascere la speranza, la gioia, la pace. Per questo, nel 1960, quando sulla nostra via noi, cristiani cattolici, abbiamo incontrato cristiani di altre Chiese, non siamo rimasti chiusi in noi stessi. Ci siamo potuti aprire a loro, costruendo tutta quella unità che era possibile. Sono crollate le barriere che erano state innalzate fra noi e loro nei secoli; sono sfumate molte incomprensioni; abbiamo deciso soprattutto di vivere insieme questi punti della nostra spiritualità come fratelli che si comprendono e si amano, e con essi tutto ciò che avevamo in comune nella nostra fede cristiana. Così fedeli luterani, anglicani, ortodossi, riformati, metodisti, battisti e altri, anno dopo anno, hanno ingrossato le fila di questa pacifica rivoluzione d’amore. Sono ora di 360 Chiese i cristiani presenti nel nostro Movimento. Ma il piano di Dio non si è fermato qui. Noi non lo conoscevamo, lo sapeva Dio che attraverso le più varie circostanze ce lo ha rivelato tempo dopo tempo. Così è stato per il dialogo con le altre religioni. Molte sono state, fin dagli inizi del Movimento, le occasioni di incontro con fratelli e sorelle di altre fedi religiose. Ma la prima forte esperienza è stata per me quella che ho vissuto più di 30 anni fa in una sperduta valle dell’Africa camerunense. Eravamo a contatto con i bangwa, una tribù fortemente radicata nella religione tradizionale, quasi sterminata dalla mortalità infantile, che avevamo iniziato a debellare. Un giorno, il loro capo, il Fon, con i notabili e le migliaia di membri del suo popolo si sono radunati per una festa, in una grande radura in mezzo alla foresta, per donarci i loro canti e le loro danze. Ebbene, è stato lì che ho avuto la forte impressione che Dio, come un immenso sole, abbracciasse tutti noi, noi e loro con il suo amore. Per la prima volta nella mia vita ho intuito che avremmo avuto a che fare anche con persone di tradizione non cristiana. L’altra grande esperienza è stata quando, nel 1977, in occasione del Premio Templeton per il progresso della religione, dovetti portarmi a Londra. In quella circostanza ho parlato nella Guildhall, ad un nutrito pubblico, nel quale si notavano persone delle più varie religioni: ebrei, musulmani, buddisti, indù, sikhs… Anche lì, mentre parlavo, ho avuto l’impressione che Dio, come un sole, avvolgesse tutta quella gente, ed ho avuto la certezza di una sua particolare presenza. Ho capito che dovevamo prendere contatto con tutti, come se Dio lo volesse. E così sono cominciati i nostri dialoghi d’amore fraterno, di vita e di preghiera con i fedeli di altre religioni. E poiché il Movimento si andava diffondendo in tutto il mondo, si è preso tale atteggiamento in ogni punto della terra. Eravamo coscienti che, dove c’era una sinagoga, una moschea, un tempio, lì era il nostro posto. Eravamo, infatti, e siamo convinti d’essere chiamati a concorrere a costruire la fraternità universale con tutti loro, poggiandoci soprattutto su quei principi, quei valori che abbiamo in comune. In questi ultimi anni si sono moltiplicati gli incontri, gli scambi di esperienze, con arricchimento reciproco. Sono ora circa 30.000 i fedeli di altre religioni in rapporto con il Movimento. Oltre gli indù, buddisti giapponesi e tailandesi; ebrei, d’Israele, Argentina, Europa; musulmani dell’Asia, dell’Africa e degli USA, e molti altri. Pure moltissime persone di altre culture, anche senza un riferimento religioso, s’impegnano nel Movimento per la salvaguardia dei valori comuni: la solidarietà, la pace, i diritti umani, la libertà. E gli effetti di questa spiritualità vissuta da milioni di persone sono molti. Se volessimo condensarli ora in poche parole, potremmo dire che i suoi frutti sono: anzitutto, cambiamenti radicali di vita, ritorni a Dio e sulla via del bene. Il formarsi così di cittadini che vivono in profondità e con rinnovata coscienza tutti i loro doveri. Per iniziare dalle persone più giovani, ma speranza del domani, gli adolescenti non sono più persone immature. Si comportano da protagonisti, nella vita religiosa e civile, sanno affrontare il dolore; amano essere “diversi” perché, pur nel mondo, non assorbono ciò che di negativo il mondo può offrire. I giovani puntano in alto; si preparano seriamente alla vita futura; mettono in atto microrealizzazioni d’ogni genere per la salvaguardia dei veri valori. Famiglie disgregate dalle separazioni e dai divorzi si ricompongono, adottano bambini… L’intero mondo sociale è investito da questa spiritualità comunitaria: da quello dell’economia e del lavoro a quello della politica, della sanità, dell’educazione, dell’arte e così via. E, per concludere, una osservazione: poiché è l’unità la nota che riassume tutto il nostro Ideale, osservando il Movimento, nei suoi effetti, si può dire che è come un film che cammina a ritroso. Quali drammatiche divisioni, quali impoverimenti, in quali crisi è arrivato il mondo immerso nel materialismo, nel consumismo, nell’indifferentismo! Qui il mondo va avanti tornando in certo modo indietro e cioè a quell’unità della famiglia umana, così come Dio l’aveva pensata quando l’ha creata. Che Dio, Padre di tutti, voglia sempre fecondare le nostre fatiche, con quelle di quanti sono impegnati a fini eccelsi quanto i nostri. “E che si possa – come ha detto Giovanni Paolo II all’ONU, il 5 ottobre 1995, nel cinquantesimo della sua fondazione – costruire (…) per il prossimo millennio una civiltà degna della persona umana… “Possiamo e dobbiamo farlo! – ha continuato – E, facendolo, potremo renderci conto che le lacrime del secolo passato hanno preparato il terreno ad una nuova primavera dello spirito umano”. Ed è quello che tutti vogliamo sperare. Anzi perché ciò si realizzi, alzo a Dio una preghiera della vostra tradizione che faccio mia, e imploro il gran dono dell’unità, che solo da Dio possiamo ottenere: “O Dio, tu sei per noi padre, madre, fratello, amico, maestro, ricchezza. Tu sei tutto, tu il solo rifugio, aiutaci a vivere in te, in te solo. O Amore infinito, dona ai nostri cuori aridi un po’ del tuo amore. O Signore, rendi pura l’anima dei tuoi servi, che essi non vedano le ombre di alcun essere. O Padre pieno d’amore, trasporta i tuoi servi fuori dei brevi limiti personali. Il nostro io prenda il volo nell’infinito cielo, come goccia nell’immenso oceano. O Signore, dimora in noi, le tue parole, i tuoi pensieri, le tue azioni siano le nostre. Tu sei la pace immutabile, tu sei l’Eterno, l’Incomprensibile, l’infinita Gioia.” (07-01-2001) (altro…)

La testimonianza di fede di Chiara Lubich

Chiara Lubich torna a Fontem (Camerun) dopo 30 anni

E’ stato con una grande festa che i popoli Bangwa e Nweh-Mundani hanno accolto Chiara Lubich a Fontem (Camerun) nel cuore della foresta, a oltre 30 anni dalla sua ultima visita nel 1969. La grande spianata e la collinetta soprastante erano gremite. Una festa di canti e danze che esaltavano il valore della vita: la danza della fecondità della terra, poi delle madri dei gemelli e infine quella del Fon con tutti i capi tribù. In segno di riconoscenza per i valori spirituali portati dal Movimento, la Mafua (regina) di Fontem, Cristina, ha fatto indossare a Chiara un vestito africano simile al suo e il Fon, dott. Lucas Njifua, le ha posto sul capo un caratteristico copricapo ornato con penne di uccello. Le parole del Fon, sottolineate da un lungo applauso, esprimevano gratitudine per il contributo spirituale dato alla popolazione, più ancora che per le molte opere realizzate dal Movimento a Fontem. “Quando abbiamo il timore di Dio allora siamo in pace. Ci aiuta ad avere una buona morale. Anche per la lotta alla piaga dell’Aids è importante questa coscienza morale“. Le parole di Chiara e la sua proposta finale sono state accolte da tutti con immediatezza: la grande festa è stata suggellata da un patto di amore scambievole tra tutta la popolazione, forte e vincolante, espresso con una stretta di mano: “E’ come un giuramento in cui ci impegniamo ad essere sempre nella piena pace fra noi e a ricomporla sempre, ogni volta si fosse incrinata. Solo se l’amore continuerà a brillare in questa città, la benedizione continuerà a scendere dal Cielo per voi, per i vostri figli, per i vostri nipoti.” E’ infatti proprio l’esperienza di “una benedizione dal Cielo” che segna la storia della cittadina di Fontem: ha preso forma, in poco più di 30 anni, a partire da un piccolo villaggio sperduto nel cuore della foresta, dove la tribù dei Bangwa rischiava l’estinzione per l’altissima mortalità infantile che aveva superato il 90 per cento. Chiara ne ripercorre le tappe: “Siamo nel 1964. Mons. Peeters, il vescovo di una cittadina vicina, riceve una delegazione mandata dal Fon di Fontem,  che porta un’offerta. Chiede al vescovo di far pregare i cristiani perché Dio mandi loro aiuto. Il vescovo si rivolge ai focolarini. I primi medici e infermieri arrivano a Fontem agli inizi del ’66. Inizia il primo dispensario in una capanna”. Pochi mesi dopo Chiara visita Fontem. “Ricordo, e lo racconto spesso, come la prima volta io avessi sentito, al momento del raduno nella grande spianata, la presenza di Dio, quasi un sole che tutti ci avvolgeva. E come quella presenza ci avesse dato la forza, l’entusiasmo, la luce per incominciare insieme quest’avventura divina“. Ora si vede apparire un’armoniosa cittadina, con case, chiesa, ospedale, college, scuole elementari e materne, attività lavorative. E’ stato costruito l’acquedotto, arriva l’energia elettrica, strade collegano Fontem con villaggi vicini. Chiara esprime una grande gioia, “soprattutto perché posso costatare che quanto ci aveva fatto prevedere il Signore, durante la seconda visita, nel lontano ’69, si è realizzato“. Suscita commozione in tutti il ricordo di quelle sue parole: “Vedo sorgere in questo posto una grande città che diverrà famosa in tutto il mondo, non tanto perché avrà ricchezze materiali, ma perché in essa brillerà una luce che illuminerà; è la luce che scaturisce dall’amore fraterno tenuto acceso fra noi, in nome di Dio. E qui accorrerà tanta gente per imparare come si fa ad amare“. Da allora questa città è stata meta di molti, da tutta l’Africa, così segnata da conflitti etnici. “Fontem è divenuta centro di irradiazione dell’amore evangelico nel resto dell’Africa e nel mondo”. In questi anni il popolo Bangwa e i popoli vicini Nweh-Mundani, di religione animista, hanno conosciuto il cristianesimo. Chiara, nel suo saluto, richiama il grande messaggio del Giubileo, anno della riconciliazione e del perdono. Ma non tutti sono cristiani. Rivolgendosi a chi è di altre chiese o di altre religioni, ricorda la cosiddetta “regola d’oro“, presente in tutte le religioni del mondo: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te“.  “Perciò tutti – aggiunge – possiamo e dobbiamo continuare ad amarci“. Questa la vocazione di Fontem. Quel patto dell’amore scambievole ha avuto la nota di una grande solennità. Viva la consapevolezza che è la garanzia perché “anche in futuro, la vocazione di Fontem possa continuare ad essere – come dice Gesù – ‘città sul monte’ perché tutti la possano vedere ed imitare“. L’eco di Fontem in questi anni ha raggiunto il mondo, proprio perché lo sviluppo della città è dovuto agli aiuti giunti dal movimento, da tutti i continenti. Chiara infatti nel ’68 lanciava l’Operazione Africa, rivolgendosi soprattutto ai giovani. Ed ha avuto il via una mobilitazione mondiale di comunione di beni durata vari anni, animata dalla presa di coscienza di “dover far giustizia” e contribuire “a colmare il debito che il mondo occidentale ha verso quel continente“. E, insieme a questa grande mobilitazione di solidarietà, di pari passo si sono scoperte le ricchezze dei valori e tradizioni africane. (altro…)

“Costruttori di comunione, fedeli alla spiritualità dell’unità”

“Nel corso del vostro incontro un posto privilegiato occupa la riflessione sulla preghiera di Gesù all’ultima cena   ‘affinché tutti siano una cosa sola’.  Fedeli alla spiritualità dell’unità ed attraverso un costante scambio di esperienze, proseguite nella vostra missione di costruttori di comunione all’interno delle Conferenze episcopali, insieme al presbiterio e nelle comunità diocesane. Mentre auguro ogni buon esito alla vostra riunione, accompagno i miei voti con la preghiera al Signore e a Maria, Madre dell’Unità”. Queste le parole pronunciate dal Santo Padre all’Udienza generale che ha segnato il culmine del 24° Convegno spirituale dei Vescovi amici del Movimento dei Focolari, svoltosi dal 19 al 25 febbraio al Centro Mariapoli di Castelgandolfo Esperienza di comunione “Chiesa nel terzo millennio: segno e strumento di unità” il tema che è stato sviluppato in questo Convegno promosso dal Card. Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga attraverso una grande varietà di temi di spiritualità, contributi teologici, esperienze pastorali e personali, dialoghi plenari o in gruppi linguistici, momenti ricreativi e le concelebrazioni eucaristiche che concludevano ogni giornata. I 106 Vescovi, provenienti da oltre trenta paesi di ogni parte del mondo, hanno respirato insieme un’aria festosa e distesa di profonda comunione che in ultima analisi è stata esperienza del Cristo vivente. Per il futuro della Chiesa Il tema dell’unità è stato introdotto da un intervento di Natalia Dallapiccola, una delle prime compagne che con Chiara Lubich ha iniziato il Focolare. “Secondo la nostra esperienza – ha detto – il cammino verso l’unità passa per un amore reciproco vissuto con radicalità evangelica, fino a posporre il proprio io per l’altro, affinché Gesù stesso possa vivere in mezzo a ‘due o più che sono riuniti nel suo nome’, nel suo amore, come da Lui promesso”. Successivamente, due meditazioni teologiche proposte da Piero Coda e P. Jésus Castellano hanno delineato il volto della Chiesa del III millennio come “icona della Trinità” ed hanno evidenziato lo stile pastorale che ne deriva. Uno degli argomenti trattati è stato l’ecumenismo, considerato parte dei compiti imprescindibili di ogni Vescovo. Si sono evocati passi recenti come la Dichiarazione cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione ad Augsburg e la celebrazione ecumenica per l’apertura della Porta Santa a San Paolo fuori le mura. E si è parlato di spiritualità ecumenica. Toccante, per i Vescovi, la testimonianza di una laica e un sacerdote, entrambi focolarini anglicani, che hanno riferito dei riflessi della spiritualità dell’unità nella loro vita e nella loro Chiesa. Ma anche altri dialoghi, proposti dal Concilio Vaticano II, sono stati approfonditi da riflessioni ed esperienze di grande attualità. Nella scia del Giubileo Chiara Lubich, nel suo intervento, ha schiuso prospettive forti e luminose su salute e malattia, anzianità, morte, risurrezione, come esperienze fondamentali dell’esistenza cristiana, tematiche di particolare rilevanza in questo Anno giubilare che ha per centro il mistero dell’incarnazione. “Nella vita si possono fare tante cose, dire tante parole – ha affermato – ma la voce del dolore, magari sorda e sconosciuta agli altri, del dolore offerto per amore è la parola più forte, quella che ferisce il Cielo”. Nella prospettiva cristiana, infatti, la malattia non è semplice disfacimento, ma gradino verso la Vita, prova in vista della Prova finale. E “non è per fare pensieri neri, ma d’oro, che pensiamo alla morte”, perché la morte non è che l’incontro con il Signore. Un arcivescovo indiano, che partecipava per la prima volta al Convegno, riassumeva così la sua impressione: “Sono convinto che una spiritualità dell’unità, vissuta da tutto il Popolo di Dio, è il futuro della Chiesa.” (altro…)