Movimento dei Focolari
Lisbona 2023: “Há Pressa no Ar” inno ufficiale della GMG

Lisbona 2023: “Há Pressa no Ar” inno ufficiale della GMG

Un canto all’unisono per i giovani di tutto il mondo. Padre João Paulo Vaz, sacerdote di Coimbra (Portogallo) è l’ideatore del testo dell’inno della GMG di Lisbona 2023, trasformato in musica da Pedro Ferreira, insegnante e musicista. Due giovani del Movimento dei Focolari (Gen), Lourdes Catalán e Ivan Ho, lo hanno intervistato. Manca davvero poco alla Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) 2023 e già tra i vicoli di Lisbona (Portogallo), città dove avrà luogo questo evento globale, è possibile ascoltare la voce dei primi giovani in arrivo cantare “Há Pressa no Ar” (C’è fretta nell’aria), inno ufficiale ispirato al tema “Maria si alzò e andò in fretta” (Lc 1,39). Scopriamo insieme a Padre João Paulo Vaz, sacerdote della diocesi di Coimbra e ideatore del testo, come è nato. Lourdes: Padre João Paulo, cosa rappresenta per lei la GMG e come mai ha deciso di partecipare al concorso per la selezione dell’inno di Lisbona 2023?

Padre João Paulo Vaz: Ho partecipato a ben 6 GMG nella mia vita (Parigi, Roma, Toronto, Colonia, Sydney e Madrid), alcune anche come responsabile della pastorale giovanile della diocesi. Ciascuna di queste ha segnato il mio percorso come uomo, come cristiano e come sacerdote. Sono state esperienze molto intense di fede e di comunione e, alcune cose in particolare, hanno lasciato l’impronta. Una di queste è sempre stata l’inno. Quando è arrivata la notizia che avremmo potuto partecipare al concorso per la realizzazione dell’inno di Lisbona 2023 ne sono stato molto contento, sia per la mia esperienza personale, sia in quanto compositore. Mi ero deciso a presentare il testo ma, a un certo punto, ho scoperto di aver dimenticato di iscrivermi per tempo perché bisognava dichiarare l’intenzione di partecipare, ancora prima di presentare il brano. Quando me ne sono reso conto ero molto triste, ma Dio non mi lascia mai solo. Un gruppo di partecipanti che si era iscritto per tempo e aveva solo pronta la base musicale mi ha chiesto comunque di poter ricevere le mie parole e sono entrato nel concorso. Poco dopo, ho appreso con grande gioia che la mia canzone era stata scelta. Ero felicissimo perché l’ho sentita davvero come una risposta di Dio al mio desiderio.

Ivan: Quale messaggio voleva trasmettere attraverso la composizione di questo inno? Padre João Paulo Vaz: In primo luogo, il messaggio che ho pensato di rivolgere a ciascun giovane è “Cristo è sempre con te, non ti abbandona mai e con Lui potrai amare molto di più”. Per questo, con Lui, “la mia voce si eleva più in alto e tutti la sentiranno”, come spiega la canzone, perché non si ha più paura. L’intero testo va in questa direzione e Maria, protagonista principale di questa GMG, nella semplicità e nell’umiltà della sua figura, rappresenta tutte queste cose: Colei che per prima eleva la sua voce perché porta Cristo con sé; la prima evangelizzatrice che rivela anche a noi, con il suo “sì” e in cammino verso Elisabetta, come portarlo agli altri. Ivan: A Lisbona si attendono tantissimi giovani da tutto il mondo. Come ci si sente a pensare che tutti insieme canteranno questo inno? Padre João Paulo Vaz: È molto importante dire che, dal momento in cui la canzone è stata scelta come l’inno della GMG, non ci appartiene più, non è più nostra. Non sono più le mie parole né la musica creata da Pedro Ferreira. È l’inno della GMG di Lisbona 2023. Io canterò con gli altri: questa sarà la più grande gioia. Lourdes: Se potesse sintetizzare in una o due parole l’inno, quali sarebbero? Padre João Paulo Vaz: la prima è “profondità”, che significa scoprire chi siamo, scoprire Cristo in noi e vivere a partire da lì; la seconda è “coraggio”, per essere la presenza di Dio nel mondo, per annunciare la vita. È in queste due parole che, a mio avviso, fiorisce l’esperienza della fede. Ivan: Qual è il suo messaggio personale per i giovani di oggi? Padre João Paulo Vaz: Vorrei usare le parole di Papa Francesco, pronunciate in uno dei video promozionali della GMG in cui invita ad andare avanti senza paura, costruire un mondo migliore ed essere protagonisti. Abbiamo tanto bisogno che i nostri giovani diano più valore al mondo, che tornino ai veri valori. È necessario abbandonare la paura ed essere consapevoli che sono loro stessi, i giovani, coloro che costruiranno un futuro migliore. E allora, caro giovane, non puoi star fermo ad osservare il mondo dalla poltrona: devi alzarti e andare, come Maria. La GMG, e questa in particolare, è un’opportunità per dire che ci credi e che sei disposto a fare quello che Dio ti chiede; più di ogni altra cosa, ti dice che non sei solo in questo. Un intero mondo di giovani e il Papa sono pronti a camminare insieme a te.

 Lourdes Catalán e Ivan Ho

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Una Chiesa-Comunità: in cammino verso la GMG di Lisbona

Una Chiesa-Comunità: in cammino verso la GMG di Lisbona

La 37esima Giornata Mondiale della Gioventù (GMG), che si terrà dal 31 luglio al 6 agosto 2023 a Lisbona (Portogallo), è ormai alle porte e tanti sono i giovani che si preparano a vivere questo evento globale insieme al Papa. Varie le iniziative promosse così come numerose sono le persone che, ormai da mesi, lavorano con dedizione a  questo momento di vera famiglia per la Chiesa. Ecco alcune testimonianze. È tutto pronto. Il sole è alto sulle sette colline di Lisbona (Portogallo) e la brezza dell’oceano porta con sé un’aria di novità e di attesa: la GMG è alle porte e i giovani di tutto il mondo stanno arrivando. Dopo mesi di preparazione e dopo aver toccato varie tappe del Paese, lo scorso fine settimana la Croce del Pellegrino e l’Icona della Madonna “Salus Popoli Romani”, simboli della Giornata, sono finalmente giunti a Lisbona e si è pronti ora ad accogliere i primi giovani in arrivo per le “Giornate nelle diocesi” che si svolgeranno dal 26 al 31 luglio 2023  nelle 17 diocesi del Portogallo continentale e delle isole. Un modo per preparare i pellegrini e le comunità ospitanti ad entrare nell’evento e viverlo in pienezza. “Quando ci è stato comunicato che la GMG si sarebbe tenuta a Lisbona, abbiamo accolto la notizia con immensa gioia. Sono sicuro che sarà un’occasione di grazia per ciascuno dei partecipanti, così come per il nostro Paese. Nel mio caso, sento di dover essere aperto alle sorprese che lo Spirito vuole comunicare” dice  Padre José Cardoso de Almeida, parroco di Sátão, nella diocesi di Viseu,  sacerdote volontario del Movimento dei Focolari. Lui che ha avuto modo di  vivere in prima persona l’attesa e l’entusiasmo di varie GMG, ha sentito subito la chiamata, come tantissimi volontari, a mettersi all’opera nell’organizzare la Giornata che si sarebbe svolta proprio “in casa”, motivando i giovani e accogliendo coloro che sarebbero arrivati da varie parti del mondo: “Quest’ultimo anno è stato un periodo di incontri frequenti. Sono state organizzate tantissime attività per aiutare a sostenere le spese di coloro che avevano maggiori difficoltà nel partecipare. Come ‘piccolo costruttore’ di questa GMG insieme a molti, ho contribuito a motivare alcune famiglie ad aprire le loro porte a giovani stranieri nelle “Giornate nelle diocesi”. Nella nostra zona accoglieremo circa 3.000 giovani, in particolare, francesi. Poi partiremo per Lisbona e darò una mano per il sacramento della Riconciliazione, durante l’evento”. Un’esperienza concreta che suggerisce quanto il mettersi a servizio generi innumerevoli frutti nelle varie comunità. “Come la scoperta della bellezza di lavorare insieme – racconta ancora P. José. Penso che i giovani di oggi abbiano bisogno di scoprire che il segreto della felicità sta nell’amore vero, e nell’ esperienza, come dice Papa Francesco, di ‘uscire da se stessi’ ed ‘essere con e per gli altri’. Questa è la vera unità”. Ed è in questo “uscire” che ritroviamo la figura della Vergine Maria,  pronta ad “alzarsi e partire in fretta”, come annuncia il motto di questa  GMG, in cammino verso l’incontro con Elisabetta. Un “invito all’incontro con Gesù vivo nella famiglia, nel lavoro, nella vita sociale e politica” spiegano da Lisbona, Ana e José Maria Raposo, della parrocchia di Nossa Senhora da Conceição dos Olivais Sul. Volontari di Dio nel  Movimento dei Focolari,  Ana e José sono sposati da 45 anni, hanno cinque figli e quattro nipoti e sono una delle tante famiglie portoghesi che ospiteranno in casa propria i giovani che prenderanno parte alla GMG. “Perché i giovani, come Maria, vivano la loro vocazione, è necessario credere e renderli protagonisti, senza dimenticare l’intergenerazionalità – ci dicono;  è necessario credere che già oggi si cambia il mondo se si cambia il cuore, se si libera la mente, se si esce dalla propria zona di comfort, se ci si guarda intorno e si vede Gesù in tutti; è necessario credere che il mondo unito è possibile”. QQ Un’esperienza che guarda a questo tempo cosi fragile, guarda all’altro e prende vigore grazie anche alla testimonianza concreta  di chi, questa certezza d’amore, vuole metterla al servizio anche nell’ “accoglienza” che, continuano Ana e José, “significa essere una famiglia per chi arriva. È stato spontaneo per noi unirci subito all’accoglienza dei giovani pellegrini che parteciperanno alla GMG. Abbiamo sempre accolto nella nostra casa chi ne aveva bisogno perché di passaggio, in viaggio e gli ultimi mesi sono stati anche l’occasione per rivedere alcuni aspetti e riorganizzare gli spazi in modo che i giovani che arrivano si sentano realmente a casa”. La Giornata Mondiale della Gioventù continua a rivelarsi, ancora oggi, un grande evento della Chiesa che, intorno al Papa e i giovani di tutto il mondo, si fa “Comunità”. Ed essere, come afferma Padre José Cardoso de Almeida “un laboratorio del Regno di Dio stesso e l’ immagine di quella fraternità universale che deriva dal Vangelo”.

Maria Grazia Berretta

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Vangelo Vissuto: la credibilità dell’Amore

“Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa” (Mt 10, 42) è la Parola di vita di questo mese ed è la missione alla quale ciascuno di noi, proprio come i discepoli, è chiamato: essere testimoni credibili dell’Amore di Cristo, nella concretezza di quei gesti che sono parte della nostra quotidianità; un Amore circolare, che con gioia si dà e con sorpresa si riceve in abbondanza. Al parcheggio Al parcheggio avevo trovato l’auto nuova che mi aveva prestato mio padre, graffiata. Cosa fare? Dispiaciuto per il dolore che gli avrei dato, pensavo alla spesa da affrontare per farla riparare, quando sul cruscotto notai un piccolo oggetto calamitato con questa scritta: “…gettando in Lui ogni vostra preoccupazione perché Egli ha cura di voi”. Provai a fare così. Ed ecco un senso di pace, ciò che occorreva per capire cosa fare. Mentre ero così assorto, sento bussare al finestrino. Una signora chiede di parlarmi. Era lei che aveva strisciato la macchina ed era andata via sperando di farla franca, ma il rimorso l’aveva fatta tornare indietro. Ora, insieme al numero di telefono, dava la sua disponibilità a risarcire il danno. Stupito e grato le raccontai come avevo trovato pace leggendo quella frase sul cruscotto. E lei, pensierosa: “È stato proprio Lui a farmi tornare”. (Z.X. – Croazia) Il posto giusto Quando sono stata trasferita all’Unità di vigilanza intensiva, mi sono resa conto che la mia missione di medico sarebbe stata messa lì alla prova, e al tempo stesso sentivo che quello era il “mio” posto. Durante gli anni della mia professione, non mi era ancora capitato di lavorare in un reparto del genere dove ogni giorno il dolore della gente si presenta nelle forme più tragiche: incidenti gravi, problemi neurologici… e in genere di persone giovani. In breve, non mi sentivo sicura di essere all’altezza. Mi dava forza però l’idea di mettermi al servizio di Gesù che si identificava anche in loro: “L’avete fatto a me”, aveva detto. Dopo sei mesi di lavoro in quel posto, la direzione dell’ospedale mi ha proposta come responsabile del reparto. Le motivazioni di tale incarico: la mia capacità di integrazione con i colleghi, il mio atteggiamento di calma e pace, il mio agire professionale. Trovandomi il giorno dopo in cappella, ho ringraziato Gesù: erano state le sue parole a farmi essere quello di cui gli altri avevano bisogno soprattutto lì, in quel luogo. (J.M. – Spagna) L’esame Preparavo un esame impegnativo all’università quando è passato a trovarmi in collegio un amico che attraversava un momento difficile con la sua ragazza. L’ho accolto e mentre gli preparavo una cena ci siamo messi a parlare. Il pensiero dell’esame mi assillava ma provavo ad accantonarlo per concentrarmi nel dare ascolto al mio amico, talmente alterato e addolorato da non rendersi conto che il tempo passava ed era anche ora di andare a dormire. Alla fine, gli ho offerto ospitalità per la notte. Era veramente tardi e non avevo neanche la forza di aprire il libro. L’indomani la sveglia ci è stata data da una telefonata: un collega mi avvisava che ero atteso all’esame. Ancora mezzo addormentato, mi sono preparato in fretta per uscire, mentre l’amico rimaneva a dormire. Tutto mi sarei aspettato tranne di riuscire a superare quell’esame! Felice, torno nel mio alloggio, dove trovo sul tavolo un foglio: «Non so come ringraziarti. Mi hai dimostrato che valgo. Mi hai dato nuova forza. Vorrei anche io essere “tutto per gli altri”. (G.F. – Polonia)

A cura di Maria Grazia Berretta

(tratto da Il Vangelo del Giorno, Città Nuova, anno IX – n.1° luglio-agosto 2023) (altro…)

Il nuovo libro di Jesús Morán: “Fedeltà dinamica”

Il nuovo libro di Jesús Morán: “Fedeltà dinamica”

Intervista all’autore sull’ultima opera letteraria. Un libro pensato per dare speranza, per mantenere una fede intatta nel carisma dell’unità. Alcune domande al Copresidente del Movimento dei focolari sul suo ultimo libro, edito da Citta Nuova, dal titolo “Fedeltà dinamica”. Jesús, partiamo dal titolo: “Fedeltà dinamica”… Ho voluto usare l’espressione che Papa Francesco ha utilizzato nel suo discorso ai partecipanti all’Assemblea del Movimento dei focolari nel 2021. Lì ha parlato di fedeltà dinamica. Secondo me è un pensiero molto vicino al concetto di fedeltà creativa. Col vantaggio che “dinamica” fa riferimento al concetto greco dynamis che vuol dire forza di movimento. Quindi, fedeltà dinamica è una fedeltà in movimento, che non è statica e questo è molto caro a Papa Francesco. Quando ha parlato a noi in altre occasioni ha sottolineato che i movimenti devono essere proprio “movimento”. Allora mi sembrava che questo titolo fosse più vicino a quanto oggi viviamo nella nostra realtà…  Il libro è diviso in capitoli. Il primo: “tastare il polso del tempo”. Quali le prospettive del carisma dell’unità di Chiara Lubich per l’oggi? Come attualizzare l’identità e la storia del carisma? A me sembra che il carisma dell’unità di Chiara Lubich sia sempre attualissimo. Per quello che riguarda la sinodalità, Papa Francesco sta insistendo nel riscoprirci come popolo di Dio in cammino, dove tutti siamo protagonisti. Sinodo vuol dire “camminare insieme”. Lui vuole una Chiesa dove tutti danno il meglio di sé come parte integrante del popolo di Dio, corpo di Cristo. Ecco, io penso che il carisma dell’unità di Chiara Lubich possa portare molto in questo senso, con la sua spiritualità di comunione, la spiritualità dell’unità. D’altra parte oggi ci sono tanti conflitti, guerre, polarizzazioni massicce dappertutto – nel campo politico, morale, sociale – e forse come non mai si assiste a contrapposizioni quasi irriconciliabili. Credo che anche qui il carisma dell’unità possa contribuire molto con la sua trama dialogica. Quindi oggi il carisma dell’unità va attualizzato, riscoprendo la sua vera identità, andando all’essenziale, al nucleo fondante del carisma. Questa attualizzazione richiede la messa in pratica di due momenti, non in senso cronologico, ma nel senso profondo. Da una parte ascoltare i segni dei tempi, le domande del mondo, della società contemporanea. Dall’altra andare a fondo, pescare in tutte quelle risorse che il carisma ha, alcune delle quali non sono state nemmeno espresse. A me piace molto questo concetto di esprimere l’inespresso che è dentro di noi. È così che si attualizza l’identità. In una fedeltà dinamica. Insieme al processo di purificazione della memoria che stiamo vivendo in questa fase post-fondazionale, penso che siamo pronti per compiere questo passo.  L’attualizzazione di un carisma si realizza con il contributo di tutti e con un cambio di mentalità, una forma mentis. Oltre all’aiuto dello Spirito Santo, cosa possiamo fare per attuare ciò? Senza dubbio l’aiuto dello Spirito Santo è fondamentale perché siamo nel contesto di un’opera di Dio. Ma per attualizzare il carisma ci vuole intelligenza. Non nel senso accademico. Più nel senso di sapienza. Ci vogliono talenti e competenze per ascoltare il grido dell’umanità. È importante cosa si dice nel documento dell’Assemblea Generale del 2021: oggi la domanda dell’umanità che dobbiamo ascoltare è il grido di Gesù Abbandonato. Quindi, oltre lo Spirito Santo, serve l’intelligenza del carisma e la Sapienza che viene dalla vita. E non è un esercizio a tavolino, un esercizio accademico. Si può cogliere il grido di Gesù Abbandonato quando si è a contatto con la sofferenza dei nostri contemporanei. Cos’è la “teologia dell’Ideale dell’unità”? Perché è importante per la fedeltà al carisma? L’ha detto Chiara Lubich stessa, che per il futuro del Movimento dei focolari e del carisma sarebbe importante la teologia. Questo vuol dire approfondire il carisma dell’unità alla luce della Rivelazione, da dove è scaturito, e della ricerca teologica. È un esercizio di intelligenza del carisma che è fondamentale, altrimenti non si incarna e soprattutto, non si universalizza. Senza la teologia dell’ideale il carisma rimane dentro il Movimento. Con una teologia dell’ideale dell’unità il carisma può andare anche fuori, oltre che trovare un fondamento solido. La teologia dell’Ideale dell’unità aiuta a capirlo bene per poter trasmetterlo alle generazioni future. La vita e la testimonianza va sempre prima, ma anche questo lavoro è decisivo. La teologia dell’Ideale dell’unità previene di possibili deviazioni. Il kerigma originale, racchiuso nei Vangeli, ha necessitato dell’arduo lavoro dei Padri della Chiesa, grandi teologi, per essere salvato nella integrità.  Con l’attualizzazione non si rischia di far perdere al carisma la sua identità? Al contrario. È proprio la non attualizzazione che fa perdere l’identità al carisma, perché l’identità di un carisma è sempre dinamica e creativa. Si tratta di essere sempre gli stessi senza essere mai lo stesso. Questo è quello che ho cercato di esprimere. La staticità appunto fa perdere l’identità del carisma perché gli fa perdere la connessione con la realtà. Per me questo è chiarissimo: ci vuole un’attualizzazione costante affinché il carisma mantenga la sua identità. E questo Chiara l’ha fatto durante tutta la sua vita. Il secondo capitolo: “la casa della conoscenza di sé”, prende spunto da una lettera di Caterina da Siena. Qui scopriamo i nostri limiti, i fallimenti, l’autoreferenzialità, il volto di Gesù Abbandonato. Cosa possiamo fare per superare la “prova della conoscenza di sé? Il secondo capitolo è fondamentale in questa fase che stiamo vivendo, in cui abbiamo dovuto fare i conti con i nostri difetti, i nostri errori nell’incarnazione del carisma. Cosa possiamo fare per superare la prova? Bisogna viverla fino in fondo, perché si tratta di riconoscere che noi non siamo all’altezza del carisma. Nessuno di noi è all’altezza del carisma. Da qui scaturisce non un senso di sgomento, bensì una nuova fiducia in Dio, nello Spirito Santo, autore del carisma. Quindi la prova della conoscenza di sé si supera accettando l’umiliazione di non essere all’altezza e deponendo tutta la nostra fiducia in Dio. Il terzo capitolo: “il discernimento alla luce del carisma dell’unità”. Il Papa ci chiede di diventare artigiani del discernimento comunitario. Come procedere? E soprattutto, il carisma dell’unità di Chiara Lubich è un carisma in discernimento? Per Papa Francesco, discernimento e sinodalità vanno a braccetto, sia quello individuale che comunitario.  È un processo molto delicato, perché richiede intelligenza, ma soprattutto ascolto dello Spirito Santo. Il discernimento chiede tutto a noi e tutto a Dio. E questo non è semplice, non è un esercizio di consenso. È andare a fondo nel cercare la volontà di Dio in ogni momento. Credo che il dinamismo tipico del carisma dell’unità, che noi chiamiamo Gesù in mezzo, cioè di meritare la presenza di Gesù fra noi, sia un esercizio di discernimento. Chiara Lubich lo ha spiegato molto bene: per meritare questa presenza ci vuole un distacco completo da noi stessi, un metterci in ascolto dello Spirito Santo. Ci vuole l’amore reciproco. Addirittura Chiara ha sviluppato l’idea dei rapporti trinitari, che trasformano il discernimento comunitario in un “discernimento trinitario”. Quando puntiamo ad avere Gesù in mezzo a noi, facciamo un’esperienza trinitaria, con tutte le debolezze, le fragilità della nostra umanità, corporeità, psicologia. Però la facciamo ed è lì che avviene il discernimento. Questa prassi dei rapporti trinitaria possiamo leggerla alla luce della grande idea di Papa Francesco del discernimento e della sinodalità.  Nel libro parli di due deviazioni: “il sequestro dell’Uno” e “la dissoluzione dell’Uno”. Cosa sono e come evitarle? Queste tentazioni sono davvero due deviazioni della spiritualità dell’unità. Nella prima succede che qualcuno si impadronisce della mission della Comunità e addirittura della mission di ciascuno. C’è qualcuno che centralizza tutto, che senza rendersi conto prende il posto dello Spirito Santo nella dinamica di unità. In questo caso si sequestra il “noi”, il necessario perché ognuno possa fiorire e dare il suo contributo. Qui si verificano gli abusi di autorità, abusi di coscienza, abusi spirituali ed è quindi un rischio forte. Nella dissoluzione dell’Uno succede il contrario, si perde lo spirito di Comunione. Prevale un individualismo esagerato. Se prima qualcuno si impadronisce del noi, in questo caso sparisce il noi e subentra l’individualismo di tutti. La vita di comunità diventa un’organizzazione dove ognuno cerca il suo spazio, la sua realizzazione personale. Anche qui sparisce lo Spirito Santo che è dinamismo della vita cristiana. Come evitarle? Ci vuole un momento di autocoscienza: capire gli errori fatti. Contemporaneamente, tornare al Vangelo vissuto e a un’autentica vita di unità. Soprattutto penso con l’umiltà, la capacità di decentrarsi, l’amore all’altro, il pensare che la persona è sempre un assoluto che non può essere in nessun modo annullato. Quindi penso che la soluzione sia un plus di amore, verità, trasparenza e donazione concreta nella vita di unità, nella vita di comunione. L’unità è un dono dello Spirito, nessuno può sequestrarla col suo potere né dissolverla col suo individualismo. L’unità è una esperienza di Dio che prende tutti noi stessi. Rendiamoci conto. In ultimo, cosa possiamo fare affinché tutti questi argomenti nel libro non rimangano solo buone intenzioni? Penso che sarebbe utile parlarne in comunità. Fare dei momenti in cui leggere alcuni passaggi, dei ritiri ed esaminare la nostra vita alla luce di queste indicazioni. Il libro è pensato per dare speranza, mantiene una fede intatta nel carisma dell’unità, e nel caso si sia smarrita, recuperarla. Mi auguro che mettendo in comune le esperienze si possa ripristinare una vita autentica lì dove non c’è più, perché in tanti posti la vita fiorisce, c’è generatività, ci sono tante cose belle.

Lorenzo Russo

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Partecipare / presiedere / decidere

Partecipare / presiedere / decidere

 Sabato 24 giugno 2023 si è svolto a Loppiano (Incisa Valdarno, Firenze), un seminario teologico dal tema «Partecipare/presiedere/decidere. Radice sacramentale e dinamica comunionale nel cammino del popolo di Dio in missione». Oltre una trentina di studiosi hanno accolto l’invito del Centro Evangelii Gaudium (CEG) del Istituto Universiario Sophia a elaborare una proposta di revisione del diritto canonico al fine di riequilibrare – come esorta il documento di base (Instrumentum laboris) della XIV Assemblea del Sinodo dei Vescovi – «il rapporto tra il principio di autorità, fortemente affermato nella normativa vigente, e il principio di partecipazione». Poiché «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali – ci assicura papa Francesco – devono essere risolte con interventi del magistero» (Es. ap. Amoris laetizia, n. 3), risulta decisivo l’ascolto del sensus fidelium dell’intero popolo di Dio (pastori e fedeli) nella varietà delle culture che lo compongono. Il dialogo tra teologia e diritto risulta, dunque, animato da un sincero processo di inculturazione senza del quale si corre il reale rischio di porre le basi di una inosservanza pratica dei principi generali enunciati dalla chiesa. «Il punto – sottolinea il prof. Vincenzo Di Pilato, coordinatore accademico del CEG – è proprio questo: come rendere effettiva la partecipazione attiva di tutti i fedeli all’interno delle nostre assemblee sinodali? Resterà solo consultiva? O sarà anche deliberativa? Ciò significherà giungere a una trattativa per una “concessione” giuridica o “riconoscere” la capacità decisionale del soggetto collettivo dell’agire ecclesiale così come emerge dall’ecclesiologia del Vaticano II e del magistero postconciliare? E sarà, pertanto, necessario un aggiornamento del Codice di diritto canonico?». Nel saluto iniziale ai partecipanti il card. Mario Grech, Segretario generale del Sinodo, ha evidenziato come il cammino sinodale entra in una nuova fase: esso è chiamato a diventare dinamica generativa e non semplicemente un evento tra gli altri. Non si può, infatti, ascoltare lo Spirito Santo senza ascoltare il popolo santo di Dio in quella “reciprocità” che lo costituisce “Corpo di Cristo”. In questo legame comunionale prende così forma quella particolare metodologia della conversazione nello Spirito, ben descritta in occasione della presentazione dell’Instrumentum laboris. Di qui la necessità – richiamata a più riprese dal card. Grech – di meglio articolare il principio della restituzione. In altre parole, ciò significa che l’unità del processo sinodale è garantita dal fatto che esso ritorna dove esso è partito, alla Chiesa particolare, ed è un momento importante del “riconoscimento” di quanto maturato nell’ascolto di ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa. Il cammino sinodale sembra porsi, dunque, come un significativo momento della vita ecclesiale, capace di stimolare e attivare lo slancio creativo e di annuncio evangelico che viene dalla riscoperta della relazione con Dio che innerva la relazione tra i credenti, e anche come un segno per un contesto culturale in cui alberga un grido silenzioso di fraternità nella ricerca del bene comune. Se nella relazione “I problemi della sinodalità tra ecclesiologia e diritto canonico” del prof. Severino Dianich, è emerso il recupero dell’ecclesiologia paolina dell’essere-corpo di Cristo e la valorizzazione della co-essenzialità dinamica dei doni gerarchici e carismatici; per il prof. Alphonse Borras, questo punto di svolta necessita di una esplicitazione canonica, che delinei una prassi procedurale flessibile, capace di accompagnare i processi decisionali e di partecipazione attraverso i vari organismi già previsti (consiglio episcopale, presbiterale, pastorale diocesano, pastorale parrocchiale…). Su questa linea si è posto il cardinale Francesco Coccopalmerio, già presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi, nel suo intervento “Sinodalità ecclesiale: è ipotizzabile un rapido passaggio dal consultivo al deliberativo?”. A suo parere è possibile rinvenire nel diritto canonico una chiara definizione di sinodalità, intesa come “comunione di pastori e fedeli nel compiere l’attività di riconoscere qual è il bene della Chiesa e nella capacità di decidere come attuare il bene individuato”. Al termine del seminario, è stata avanzata da molti la proposta di mettere a disposizione i risultati raggiunti attraverso la pubblicazione degli interventi. Il CEG è al lavoro affinché questo avvenga entro settembre come ulteriore contributo al prossimo Sinodo.

Antonio Bergamo

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Premio Seelisberg 2023 a Joseph Sievers

Premio Seelisberg 2023 a Joseph Sievers

Nell’ambito dell’evento di apertura della conferenza internazionale dell’International Council of Christians and Jews (ICCJ) a Boston (USA), domenica 18 giugno, il Prof. Joseph Sievers ha ricevuto il Premio Seelisberg 2023. La nostra intervista al suo rientro a Roma. Il Premio Seelisberg si ispira e vuole fare memoria dell’innovativo raduno che ebbe luogo nel piccolo villaggio svizzero di Seelisberg dal 30 luglio al 5 agosto 1947 per affrontare gli insegnamenti cristiani rispetto alla discriminazione verso ebrei e l’ebraismo. Questo evento è ampiamente riconosciuto come l’inaugurazione della trasformazione nelle relazioni tra ebrei e cristiani. Il Premio Seelisberg viene assegnato ogni anno (dal 2022) dal Consiglio internazionale dei cristiani e degli ebrei (ICCJ), che ha avuto origine dalla conferenza di Seelisberg, e dal Centro per la teologia interculturale e lo studio delle religioni dell’Università di Salisburgo. Vengono omaggiate persone che hanno svolto ruoli importanti attraverso i loro percorsi di studi e insegnamento nel promuovere il riavvicinamento tra ebrei e cristiani. Il Prof. Dott. Joseph Sievers (Premio Seelisberg 2023), è nato in Germania e ha iniziato i suoi studi all’Università di Vienna e all’Università Ebraica di Gerusalemme. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia Antica presso la Columbia University (1981) e una Lic. Teol. della Pontificia Università Gregoriana (1997). Ha insegnato presso CUNY, Seton Hall Univ., Fordham Univ. e altre istituzioni negli Stati Uniti, in Italia e in Israele. Dal 1991 al 2023, ha insegnato Storia e letteratura ebraica del periodo ellenistico presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma, dove è stato professore ordinario. Inoltre, dal 2003 al 2009 è stato Direttore del Centro Cardinal Bea per gli Studi Giudaici presso la Pontificia Università Gregoriana. Dal 1965 è membro del Movimento dei Focolari, con il cui Centro per il Dialogo Interreligioso collabora dal 1996. Ha pubblicato diversi libri e numerosi articoli, soprattutto nell’ambito della Storia del Secondo Tempio (in particolare Flavio Giuseppe) e le relazioni ebraico-cristiane. Con Amy-Jill Levine ha curato The Pharisees (Grand Rapids, MI: Eerdmans, 2021; traduzione italiana Milano, San Paolo, 2021; traduzione tedesca prevista per il 2024). Professor Sievers, cosa ha significato per lei ricevere questo premio? È stata una grande sorpresa e quando mi hanno chiesto di dire qualcosa sulla mia esperienza ho provato una grande gratitudine guardando indietro, ripensando a tutti i momenti, a tutte le persone incontrate, alle situazioni in cui ho potuto esserci e a volte essere di aiuto. Una grande gratitudine e, al tempo stesso, una responsabilità per il presente e il futuro. Nel suo discorso in occasione della cerimonia di conferimento del Premio dice: “Le difficoltà possono aiutarci a capirci meglio. Le difficoltà possono unirci”. Nella sua lunga esperienza in questo dialogo, cos’è stato più difficile e cosa invece sorprendente a tal punto di dire ancora oggi “Si può fare”? Ci sono stati vari momenti difficili, ma uno che ricordo in modo particolare è quando dovevamo organizzare un incontro di dialogo a Gerusalemme nel 2009. Qualche settimana dopo un conflitto, un’operazione che ha portato tanti morti e feriti. Poi nello stesso periodo c’era stata anche la situazione del vescovo (Richard Nelson) Williamson che negava l’olocausto. C’erano difficoltà da tutte le parti che rendevano molto difficile un dialogo aperto. Tuttavia, siamo riusciti a fare questo incontro. Siamo andati avanti e sono stati momenti di comunione molto forti, spirituali, al di là di tutti i problemi. E poi mi chiede anche le cose che sono state possibili, nonostante le difficoltà? E certamente non è stato facile organizzare un convegno sui farisei e poi pubblicare un libro. C’erano vari punti in cui mi sembrava la strada fosse sbarrata. O per ragioni economiche o perché qualcuno non era d’accordo con quello che si voleva fare, o perché sembrava impossibile avere un’udienza col Papa, per un convegno di questo tipo… Invece collaborando, ed è stata veramente una collaborazione, specialmente con una collega ebrea, ma anche con altri, è stato possibile risolvere questi problemi per dare qualcosa che fosse basato su studi seri ma si indirizzasse a situazioni concrete anche nelle chiese, nelle parrocchie. Certamente c’è stato un successo che non ha avuto subito degli effetti dappertutto, ma per esempio un Vescovo mi ha scritto “ecco, adesso dobbiamo cambiare tutto il nostro insegnamento sui farisei e sull’ebraismo nei seminari”. Questo già è qualcosa. In che modo la sua appartenenza al Movimento dei Focolari ha inciso su questa esperienza? Senza il Movimento dei focolari probabilmente non sarei entrato in questo ambito.  È venuto dal Movimento la spinta a studiare le lingue della Bibbia e poi da questo è venuto tutto il resto. Sono entrato in focolare proprio il 28 ottobre 1965, era un giovedì. Io sono arrivato in focolare a Colonia (Germania) con la mia bicicletta, portata in treno con le due valigie la stessa sera in cui a Roma al Concilio, stavano approvando Nostra aetate (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane). E questo per me ha sempre avuto un grande significato, legando l’impegno nel Movimento con quello per il dialogo. È stato chiamato anche a collaborare ufficialmente nel dialogo della Chiesa Cattolica con gli ebrei… Sì. Dal 2008 sono Consultore della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, commissione della Santa Sede. E ho partecipato a diversi incontri dell’ ILC a Buenos Aires, Città del Capo o ancora Budapest, Madrid, Varsavia, Roma … E si fanno dei passi in avanti? Un passo è già essere aperto a incontrarsi, a parlarsi e anche a superare le difficoltà nel percorso. A volte è meglio affrontare tutto con una cena insieme piuttosto che con delle lettere infuocate. Si fanno dei passi e certamente c’è molto di più da fare, c’è da espandere la rete. Cioè, la maggior parte dei cristiani e la maggior parte degli ebrei non sono coinvolti, a volte non sanno nemmeno che ci sono questi rapporti, che c’è questo cammino insieme. C’è ancora molto da fare per rendere conosciuto questo e applicarlo. Una cosa che ho imparato molto dai rapporti con gli ebrei è che le domande sono a volte più importanti delle risposte. E cioè io non devo e non posso pretendere di avere tutte le risposte e quindi non posso affrontare l’altro come qualcuno che ha trovato tutte le risposte e si rivolge a lui o a lei da una posizione di superiorità. La mia posizione è quella di essere un cercatore insieme. È questo, in modo più drammatico quando si affronta il tema della Shoah, dell’Olocausto, che è da affrontare insieme prima o poi. Una cosa essenziale è guardare, essere il più sensibile possibile agli impegni e alle necessità dell’altro. E poi essere anche aperti, e se si sbaglia si può sempre ricominciare se l’intenzione è giusta: entrare in punta di piedi nell’ambiente dell’altro, non con l’atteggiamento di chi dice “io so tutto”. Come ultima cosa, nel ricevere questo premio, oltre a sentirsi grato, c’è qualche stimolo per Joseph Sievers? Eh, sì. Per esempio, ci sono alcune domande aperte e questo mi stimola ad affrontarle di più. E forse addirittura mi dà un po’ di autorevolezza per poterle affrontare con certe persone. Non so se questo avverrà, ma è anche uno stimolo per portare avanti questo lavoro, che non è finito, che non sarà mai finito ma dove qualche passetto si può fare insieme.

Carlos Mana

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Partecipare / presiedere / decidere

Partecipare / presiedere / decidere

Sabato 24 giugno 2023 si è svolto a Loppiano (Incisa Valdarno, Firenze), un seminario teologico dal tema «Partecipare/presiedere/decidere. Radice sacramentale e dinamica comunionale nel cammino del popolo di Dio in missione». Oltre una trentina di studiosi hanno accolto l’invito del Centro Evangelii Gaudium (CEG) del Istituto Universiario Sophia a elaborare una proposta di revisione del diritto canonico al fine di riequilibrare – come esorta il documento di base (Instrumentum laboris) della XIV Assemblea del Sinodo dei Vescovi – «il rapporto tra il principio di autorità, fortemente affermato nella normativa vigente, e il principio di partecipazione». Poiché «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali – ci assicura papa Francesco – devono essere risolte con interventi del magistero» (Es. ap. Amoris laetizia, n. 3), risulta decisivo l’ascolto del sensus fidelium dell’intero popolo di Dio (pastori e fedeli) nella varietà delle culture che lo compongono. Il dialogo tra teologia e diritto risulta, dunque, animato da un sincero processo di inculturazione senza del quale si corre il reale rischio di porre le basi di una inosservanza pratica dei principi generali enunciati dalla chiesa. «Il punto – sottolinea il prof. Vincenzo Di Pilato, coordinatore accademico del CEG – è proprio questo: come rendere effettiva la partecipazione attiva di tutti i fedeli all’interno delle nostre assemblee sinodali? Resterà solo consultiva? O sarà anche deliberativa? Ciò significherà giungere a una trattativa per una “concessione” giuridica o “riconoscere” la capacità decisionale del soggetto collettivo dell’agire ecclesiale così come emerge dall’ecclesiologia del Vaticano II e del magistero postconciliare? E sarà, pertanto, necessario un aggiornamento del Codice di diritto canonico?». Nel saluto iniziale ai partecipanti il card. Mario Grech, Segretario generale del Sinodo, ha evidenziato come il cammino sinodale entra in una nuova fase: esso è chiamato a diventare dinamica generativa e non semplicemente un evento tra gli altri. Non si può, infatti, ascoltare lo Spirito Santo senza ascoltare il popolo santo di Dio in quella “reciprocità” che lo costituisce “Corpo di Cristo”. In questo legame comunionale prende così forma quella particolare metodologia della conversazione nello Spirito, ben descritta in occasione della presentazione dell’Instrumentum laboris. Di qui la necessità – richiamata a più riprese dal card. Grech – di meglio articolare il principio della restituzione. In altre parole, ciò significa che l’unità del processo sinodale è garantita dal fatto che esso ritorna dove esso è partito, alla Chiesa particolare, ed è un momento importante del “riconoscimento” di quanto maturato nell’ascolto di ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa. Il cammino sinodale sembra porsi, dunque, come un significativo momento della vita ecclesiale, capace di stimolare e attivare lo slancio creativo e di annuncio evangelico che viene dalla riscoperta della relazione con Dio che innerva la relazione tra i credenti, e anche come un segno per un contesto culturale in cui alberga un grido silenzioso di fraternità nella ricerca del bene comune. Se nella relazione “I problemi della sinodalità tra ecclesiologia e diritto canonico” del prof. Severino Dianich, è emerso il recupero dell’ecclesiologia paolina dell’essere-corpo di Cristo e la valorizzazione della co-essenzialità dinamica dei doni gerarchici e carismatici; per il prof. Alphonse Borras, questo punto di svolta necessita di una esplicitazione canonica, che delinei una prassi procedurale flessibile, capace di accompagnare i processi decisionali e di partecipazione attraverso i vari organismi già previsti (consiglio episcopale, presbiterale, pastorale diocesano, pastorale parrocchiale…). Su questa linea si è posto il cardinale Francesco Coccopalmerio, già presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi, nel suo intervento “Sinodalità ecclesiale: è ipotizzabile un rapido passaggio dal consultivo al deliberativo?”. A suo parere è possibile rinvenire nel diritto canonico una chiara definizione di sinodalità, intesa come “comunione di pastori e fedeli nel compiere l’attività di riconoscere qual è il bene della Chiesa e nella capacità di decidere come attuare il bene individuato”. Al termine del seminario, è stata avanzata da molti la proposta di mettere a disposizione i risultati raggiunti attraverso la pubblicazione degli interventi. Il CEG è al lavoro affinché questo avvenga entro settembre come ulteriore contributo al prossimo Sinodo.

Antonio Bergamo

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Alluvione Emilia-Romagna: la speranza che resiste al fango

Alluvione Emilia-Romagna: la speranza che resiste al fango

Dopo quasi un mese e mezzo dalle alluvioni che hanno colpito le regioni di Marche ed Emilia-Romagna (Italia), il racconto dell’esperienza personale di Maria Chiara Campodoni, focolarina sposata, insegnante ed ex consigliere comunale del Comune di Faenza, fortemente colpito da questo disastro. L’alluvione che ha colpito Marche ed Emilia-Romagna (Italia)  circa un mese e mezzo fa ha causato la perdita di 15 vite umane, migliaia di sfollati  e l’esondazione di ben 23 fiumi. Ad oggi è stato registrato l’allagamento di circa 100 comuni. Le numerose frane hanno colpito i piccoli produttori, decine di chilometri quadrati di terreni agricoli e allevamenti sono stati distrutti dalla potenza dell’acqua, insieme a ponti e strade. I contributi raccolti dal Coordinamento Emergenze del movimento dei Focolari, AMU e AFN sono  al momento 182.000 euro. In collaborazione con APS Emilia-Romagna, si è costituito un comitato locale per l’emergenza che ha individuato alcune zone di intervento: Cesena; Sarsina; Faenza; Castel Bolognese; Ravenna. Si sta procedendo alla raccolta delle necessità della popolazione colpita, soprattutto attraverso il rapporto personale e attraverso la compilazione di moduli in cui ciascuno dichiara il danno subito e la richiesta. Tra le tante persone colpite, Maria Chiara Campodoni, focolarina sposata, insegnante ed Assessore allo Sport dal 2010-2015 e Presidente del Consiglio Comunale di Faenza 2015-2020, che ci racconta il dramma di questa esperienza ma anche la speranza necessaria per poter andare avanti. Maria Chiara, come avete vissuto questo momento? A Faenza ci sono state due alluvioni. A casa nostra l’acqua è entrata la prima volta il 2 maggio per 30 cm. Era nel pomeriggio, con la luce ed in casa eravamo io e un figlio. L’abbiamo presa all’inizio quasi come un’ avventura, ma quella stessa notte ho preferito che mio marito, che nel frattempo era in giro a recuperare gli altri due figli dalle attività sportive, non rientrasse, perché fuori c’era molta più acqua che dentro e noi abbiamo solo porte finestre al piano terra. Farli rientrare in casa avrebbe significato fare entrare anche molta più acqua. Per cui loro sono andati a dormire dai nonni e noi abbiamo provato a portare al piano superiore alcune cose, abbiamo cenato nelle camere e siamo andati a letto. Anche i vigili del fuoco che erano passati di lì ci avevano tranquillizzati, dicendoci che più di così la situazione non sarebbe peggiorata. Il giorno dopo il livello dell’acqua tra dentro e fuori era uguale e allora, in accordo con mio marito, abbiamo deciso di uscire di casa. Quando 15 giorni dopo hanno iniziato a consigliare di evacuare i piani terra perché stava per risuccedere, tutta la città si è messa in allerta e ha capito che doveva mobilizzarsi perché sarebbe stata qualcosa di una portata maggiore. E cosa è accaduto la seconda volta? La seconda alluvione, quella in cui siamo scappati, è arrivata di sera. Verso le 20:30 si è rotto l’argine del fiume proprio sopra casa nostra e noi, fino a quel momento, siccome eravamo attrezzati con una pompa dentro casa, non eravamo usciti convinti di poter controllare il flusso delle pompe, tenere l’acqua bassa anche con l’aiuto di sacchi di sabbia. Invece nel giro di 20 minuti l’acqua è arrivata al primo piano, ha raggiunto i 3 m in pochissimo tempo e lì ci siamo trovati intrappolati. Abbiamo chiamato i soccorsi che ci han subito risposto dicendo che sarebbero arrivati, ma nel frattempo quel pomeriggio aveva già esondato il fiume Savio a Cesena, quindi la protezione civile, i vigili del fuoco, che fino al giorno prima erano tutti a Faenza, erano già un po’ più sparsi nelle varie zone. Oltretutto nella mia via la corrente era così forte che i mezzi a motore sono riusciti ad entrare solo alle 04:00 di notte e noi non saremmo riusciti a resistere fino a quell’ora. I vigili ci dicevano di andare sui tetti, ma non abbiamo il lucernaio, quindi voleva dire andarci da fuori, galleggiando. La situazione era veramente pericolosa. (Nella foto la freccia indica il livello raggiunto dalle acque) A un certo punto un cugino di mio marito, sapendo dai social che il fiume aveva rotto l’argine proprio a casa nostra, l’ha chiamato e gli ha chiesto se fossimo già fuori. Dalla voce ha percepito che eravamo in pericolo e siccome è un atleta, ha fatto surf da ragazzo, si è messo la muta, ha preso la sua tavola e si è buttato nella corrente. Ha nuotato fino a casa nostra e spingendo il surf, uno alla volta, ci ha caricati su, portandoci in salvo fino alle mura della città, a 500 metri da casa nostra. Cosa hai visto una volta fuori? Immersi nella corrente era cambiata tutta la prospettiva. L’ acqua già superava i cartelli delle vie, quindi non sapevi più se fossi sulla strada o nel giardino di una casa. Siamo passati sopra i cancelli, sopra i garage e tanto eravamo alti che a un certo punto mi ha chiesto di aggrapparmi a quello che sembrava un cespuglio, ma in realtà, adesso che lo vedo, era un albero. Io sono stata l’ultima a salvarsi. Bagnati fradici, siamo stati accolti in casa da una signora che ci conosce. Ci ha fatto svestire nel suo bagno, dato vestiti puliti perché anche il freddo quella notte era tremendo e pioveva. Ci siamo riscaldati e poi siamo scappati a 6 km dalla città dove abita mia suocera. Siamo stati davvero fortunati perché tra i primi ad uscire. Soprattutto non abbiamo vissuto quello che poi in tanti ci hanno raccontato dopo, una vera notte di terrore in città. I bambini si sono accorti del pericolo? Si. Ho tre figli di 10, 8 e 6 anni. Il più piccolo a un certo punto continuava a correre dalle scale perché vedevamo alzarsi gradino per gradino l’acqua e mi diceva: “mancano 5 gradini, 4 quattro gradini. Andiamo in terrazzo, dobbiamo scappare” e noi dicevamo “stiamo qui alla finestra, perché fuori piove. Adesso arrivano i vigili”. Insomma, loro si sono accorti e pian piano hanno dovuto metabolizzare, soprattutto il grande. In un’ora noi abbiamo temuto di non farcela. Una volta dalla nonna erano più tranquilli anche se arrivati là hanno iniziato a capire che avevamo perso tutto. Mi dicevano, “mamma ma non abbiamo più gli zaini di scuola, i libri, e adesso?”. Ho spiegato loro che in tanti ci avrebbero aiutati. E così è stato. Come sono stati i primi giorni? Dove avete trovato riparo? Siamo stati un paio di giorni da mia suocera perché non ci si poteva muovere in città. Poi, successivamente, siamo stati accolti da una zia di un amico di mio figlio che vive all’estero e che ci ha prestato per un mese la sua casetta in centro, 10 minuti a piedi da dove abitavamo, quindi con la possibilità di andare e iniziare a spalare. Eravamo stretti, ma veramente è stato un regalo grande e forse me ne sono accorta dopo, quando ho iniziato a sentire i racconti degli altri. Dopo hanno iniziato ad arrivare anche i volontari in tutta la città. Devo dire che a casa nostra, un po’ per il Movimento dei Focolari e un po’ perché mio marito ha vari contatti, sono sempre venuti amici. Sono arrivati da Parma, da Piacenza, dal Veneto e anche chi ha subito il terremoto nell’ Emilia anni fa, ha sentito proprio una chiamata a venire a dare una mano. C’è stato un clima bellissimo, di vero aiuto, ed è in questo clima che, pian piano, ho cominciato a buttar via tutto ma ero davvero serena. Spalare fango è una cosa totalizzante all’inizio, provi a fare del tuo meglio, nella fatica e ti accorgi poi che non sono le cose, gli oggetti che fanno la tua vita, ma tutto il resto. Tuo marito ha anche un ristorante… Sì. Lui dalle telecamere aveva visto che lì l’acqua per fortuna non c’era però aveva bisogno di andare a vedere di persona. Un giorno è partito alle sei del mattino pensando di fare l’autostrada ma anche quella era chiusa. Ci è venuta un’idea: “chiamiamo il vicesindaco, e diciamogli che se ti portano con la protezione civile al ristorante, tu ti metti a cucinare per tutti quelli di cui c’è bisogno”. E lui devo dire che ha accettato volentieri il nostro metterci a servizio, perché gli sfollati li erano già in tanti. Tutte le persone disabili, anziane, le avevano portate via prima per fortuna e le avevano mandate in questo albergo che è molto vicino al ristorante di mio marito, ma che non ha le cucine attive. Quindi mio marito e due dipendenti sono stati un giorno intero al ristorante, hanno fatto 700 coperti tra pranzo e cena. Di questi sfollati c’erano 100 persone, i vigili del fuoco, la protezione civile e siccome il ristorante si trova proprio sulla via Emilia, un punto di passaggio, tante delle persone che erano rimaste bloccate in strada, che avevano dormito in auto senza mangiare, sono arrivate al locale chiedendo aiuto. Tutta la zona di Cesena e Forlì era paralizzata. Adesso come vi organizzerete? Attualmente abbiamo lasciato la piccola casetta che ci ha ospitato. Ci trasferiremo in una casa che abbiamo al mare per un po’ e poi abbiamo preso un appartamento in affitto per 18 mesi in attesa di sistemare la nostra casa. La prospettiva è quella di rientrare a settembre 2024. Poi ci sono tanti punti interrogativi, prima di tutto capire se ci saranno le imprese che riescono a ristrutturare tutte queste case, perché siamo tanti. Parliamo di 12.000 persone fuori casa. 6000 famiglie solo nella nostra città e alcune case, le più vecchie, sono state dichiarate inagibili. Ora le case si devono asciugare. Noi abbiamo già distrutto tutto. Avevamo il parquet e l’abbiamo tolto, i controsoffitti a piano terra son venuti giù da soli quando è scesa l’acqua e con l’aiuto di tanti siamo riusciti almeno a staccare i sanitari. Adesso tutte le mattine andiamo ad aprire le finestre e la sera andiamo a chiuderle per accendere il deumidificatore. Per fortuna c’è l’estate. Se fosse capitato in autunno, sarebbe stato un disagio maggiore. La solidarietà continua? Assolutamente sì ed in varie forme. Ad esempio, all’inizio avevamo pensato di cercare una casa già arredata per non dover fare un doppio trasloco, però ci siamo accorti che la gente ha cominciato a regalare di tutto: armadi, materassi, camere, divani. Abbiamo scelto di prendere una casa vuota da poter iniziare a riarredare con questa provvidenza per poi, tra 18 mesi, riportar tutto a casa nostra, anche perché poi ci saranno sicuramente altre priorità. La gente è proprio contenta di aiutare e devo dire che per me è stata una lezione. Mi ricordo che un giorno, dopo la prima inondazione, avevo la casa sottosopra e la lavatrice rotta. Mi sono detta “io faccio tre buste, una di panni da lavare bianchi, una con i colorati, una con i neri e poi vado a lavorare. La prima collega che mi chiede ‘come ti posso aiutare?’, le dico ‘se sei pronta a tutto questi sono i panni da lavare’”. Non ho fatto in tempo a fare un passo a scuola che le avevo già distribuite. In questi casi si crea un legame più forte con la gente e soprattutto non mi sono vergognata di chiedere aiuto. Abbiamo accettato quanto ci veniva donato e sento che è un modo anche per mettermi a nudo di fronte ai miei bisogni e dire va bene,  ci vogliamo bene così, per quello che siamo. Anche con i vicini si è creato un bel legame. Noi abitiamo lì da quattro anni e mezzo ma non ero mai entrata in tanti giardini dei vicini, perché comunque la vita è frenetica, si corre. Invece adesso si entra, ci si saluta, ci si aiuta. Che fase si apre adesso? È iniziata la seconda fase, quella della creazione di comitati cittadini per iniziare a comunicare con l’amministrazione comunale. Mi sarei tirata fuori subito per varie ragioni, soprattutto per aver ricoperto certi ruoli in passato, poi invece ho capito che senza espormi troppo, ascoltando, rimanendo dentro le chat, aiutando chi è responsabile di questi comitati, posso fare la mia parte. Lo devo ai miei figli che ancora mi chiedono “ma dobbiamo tornare a vivere proprio lì? Costruiamo una scala esterna che ci porta sul tetto la prossima volta?”. C’è bisogno di una cittadinanza attiva che tenga monitorate le situazioni. Ho sentito che anche la mia esperienza dovevo metterla a disposizione, nelle forme giuste, creando il più possibile connessioni, perché adesso, come sempre succede quando c’è da ricostruire, la paura più grande è quella di rimanere da soli. Sei speranzosa? Si, davvero. L’altro giorno dovevamo fare un regalino a questa signora che ci ha ospitato in casa sua per il primo mese e, dato che Faenza è città delle ceramiche, le ho preso una piastrella da appendere al muro con la frase “Le cose belle della vita spettinano”. Mi sono detta che questa è stata una grandissima spettinata, enorme. Ci metteremo anche del tempo a rimetterci in sesto e ce la faremo, ma sento che certe esperienze non le avrei potute fare senza aver vissuto questo momento così duro. Sento davvero di essere arrivata a quel punto in cui guardi all’essenziale, a quello che conta. È stato terribile, ma non riesco a pensare solo al disastro, che l’acqua abbia portato via tutto e sia finita lì. C’è molto, molto di più.

Maria Grazia Berretta (Intervista di Carlos Mana – Foto: gentilezza di Maria Chiara Campodoni)

E’ ancora possibile contribuire con la raccolta fondi per l’emergenza. Se vuoi donare fai click qui

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Giappone: CommuniHeart project

In Giappone, un gruppo di donne di religioni diverse ha dato vita al “CommuniHeart project”, un progetto per la prevenzione al suicidio che punta sulla consapevolezza del sé, la comunicazione e il sostegno di una comunità. Il CommuniHeart project è un progetto promosso da Religions for Peace Japan (World Conference Religions for Peace). https://youtu.be/Bec2PlDCtik (altro…)