Ott 23, 2019 | Sociale
Uscire dalla dipendenza dell’azzardo è possibile, ma non solo. La storia di Christian Rigor, filippino, che nella Fazenda da Esperança ha anche ritrovato Dio e il senso più profondo della propria esistenza. Quando pensiamo all’idea di “puntare in alto” ci vengono in mente mete diverse. Obiettivi di lavoro, progetti personali, sogni per cui lottare. Quelle “sfide” spesso totalizzanti a cui votiamo buona parte della nostra vita. Ma ci sono mete e mete, dal valore soggettivo o collettivo. Mete che per raggiungerle devi fare un percorso di crescita, metterti in discussione, sviluppare un senso di responsabilità per la collettività, aprire i tuoi orizzonti a mondi lontani. E mete che portano al ripiegamento su se stessi, che chiudono la persona all’interno dei propri interessi personali, che la isolano e talvolta diventano distruttive. Gli obiettivi che ci poniamo segnano il percorso della nostra vita. Ma cambiare strada si può. Lo sa bene Christian Rigor, 30enne delle Filippine. Un’infanzia serena in una famiglia benestante che gli ha assicurato studi universitari e specializzazioni in Europa. Un vita sociale piena da ragazzo, vissuta però col desiderio di “far soldi” facilmente, senza fatica. Una leggerezza che gli è stata fatale al primo ingresso in un casinò. È iniziato lì il suo percorso di dipendenza dal gioco d’azzardo, a 20 anni. Un ragazzino inebriato dalle prime vincite, presto vittima dell’esaltazione del gioco, intrappolato nel bisogno di recuperare le inevitabili perdite. Un capitolo buio della sua vita vissuto puntando alle mete sbagliate, lungo il quale ha perso amici, lavori, fidanzata, e la fiducia dei suoi familiari. Anche il bene per se stesso, dall’alto di un cornicione al 24° piano di un palazzo che ha segnato il punto più basso della sua esistenza. La svolta è arrivata quando, incoraggiato dalla madre, decide di entrare nella Fazenda da Esperança – un progetto con strutture diffuse in diversi paesi del mondo e che porta nel proprio DNA la spiritualità dell’unità, a cui i suoi fondatori si sono ispirati – per seguire un programma di riabilitazione dedicato alle persone che soffrono di vari tipi di dipendenze. “Nel corso del programma ho imparato a guardare oltre me stesso, oltre i miei egoistici e superficiali desideri mondani, a vivere per uno scopo superiore. Ho imparato a mirare in alto e ho trovato Dio… È così che ho imparato ad amare, Dio e gli altri, in tutto ciò che faccio nel momento presente, anche quando è difficile o doloroso”. Nella Fazenda da Esperança la vita è scandita secondo tre dimensioni: quella spirituale, quella comunitaria e quella lavorativa. Ognuna è occasione di maturazione personale. “Come cattolico, ho imparato ad approfondire il mio rapporto personale con Dio, ad ascoltare e vivere la sua Parola, a cercare l’unità con Lui nella Santa Messa, e a pregare come si parla ad un amico”. La vita comunitaria gli ha insegnato che “per amare pienamente Dio ho bisogno di amare le persone intorno a me, e vedere Gesù in loro”. Lo ha allenato ad andare al di là delle differenze per servire ogni fratello. A condividere il cibo, dare ascolto ai compagni tristi, sbrigare faccende domestiche. Nel lavoro, faticoso o ordinario, Christian ha imparato a dare il meglio di sé, “non importa quanto difficile, fisicamente impegnativo, noioso, sporco o sgradevole sia”. Lungo il percorso di recupero viene chiamato a fare da coordinatore ai suoi compagni. “E’ stato difficile per me modulare gentilezza e fermezza, soprattutto durante i litigi. Una volta sono stato accusato ingiustamente di un furto, non mi sentivo amato. Volevo arrendermi ma poi ho deciso di restare perché volevo guarire dalla dipendenza ed essere una persona nuova. Mi sono immerso nell’amare ogni momento, nonostante il giudizio altrui. Ho chiesto aiuto a Dio e l’ho sentito ancora più vicino”. Oggi Christian affronta la sfida della vita al di fuori del contesto protetto della Fazenda, e di fronte alle tentazioni del gioco d’azzardo trova rifugio in Dio. In effetti ha scoperto che la felicità autentica sta nel puntare ad altre mete: “Mi sono reso conto che trovo la felicità quando amo Dio, quando lo sento presente nella preghiera, nelle persone che incontro, nelle attività che svolgo, quando amo nel momento presente. Per puntare in alto non serve fare grandi cose, basta farle con amore. Questo è oggi il mio stile di vita”.
Claudia Di Lorenzi
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Set 13, 2018 | Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Nuove Generazioni, Sociale
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Set 6, 2018 | Cultura, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo
https://vimeo.com/279279065 (altro…)
Set 3, 2018 | Chiara Lubich, Cultura, Focolare Worldwide, Focolari nel Mondo, Nuove Generazioni, Sociale
«Il desiderio di fare il medico, che avevo nutrito da sempre, divenne ancora più forte quando, anni fa, mio padre e mio fratello ebbero un grave incidente. L’ospedale diventò la nostra seconda casa, per una serie di operazioni alle gambe che mio padre dovette affrontare. In quei momenti compresi la difficoltà dei pazienti, specie quelli che non avevano sufficienti risorse economiche, a ricevere cure adeguate. “Sarò un medico – mi dissi – per offrire a tutti la speranza di una cura”. Anche la mia famiglia aveva una situazione economica molto precaria. Mio padre, per una disabilità permanente causata dall’incidente, non poteva più lavorare. Al termine della scuola, il mio desiderio di studiare medicina si infranse quando mia madre mi disse: “Non abbiamo i mezzi”. Piansi amaramente, poi però pensai: “Se Gesù vuole così, allora lo voglio anch’io”. Eravamo stati sempre in contatto con il Focolare, e loro sapevano del mio grande desiderio. Alcuni giorni dopo, mi telefonarono per dirmi che avevano trovato, attraverso le organizzazioni AMU e AFN, il modo di sostenermi economicamente. Ero così felice! Un segno dell’amore di Dio. Cominciai gli studi all’università. Non era tutto facile. Ogni giorno dovevo avere una buona dose di pazienza e perseveranza. Nella mia classe c’erano studenti di religioni e culture diverse, e alcuni di loro erano prepotenti con me, che avevo un carattere più morbido e remissivo. Cercavo ugualmente di essere amica di tutti e di restare unita a Gesù, e da Lui ricevevo la forza per affrontare ogni difficoltà. Dormivo anche solo due ore al giorno a causa delle tonnellate di pagine da memorizzare. Non facevo altro che studiare, eppure sperimentai anche l’insuccesso a un esame, o la tristezza di non poter uscire con gli amici. E poi mi mancava tanto la mia famiglia. Ma ero certa che Dio aveva dei piani su di me. Durante il tirocinio lavoravamo in reparto, con i pazienti, con turni anche di 30-36 ore consecutive, ed era veramente faticoso. Bisognava fare molte cose insieme, sincerarsi che tutti i pazienti ricevessero le cure e contemporaneamente dovevo studiare per gli esami. L’incontro con ogni paziente era sempre un’occasione per amare. Nonostante fossi stanca e assonnata, cercavo di presentarmi a loro con energia, di ascoltarli con un sorriso e con sentimenti di vera compassione. In ospedale, gli infermieri tendevano ad essere bruschi con noi stagisti e ci impartivano ordini. Tuttavia, cercavo di mettere a tacere il mio orgoglio e di costruire con loro un rapporto amichevole. Dopo qualche tempo, hanno cambiato atteggiamento. Nel mio gruppo, c’era una studentessa sempre scontrosa, che alzava la voce contro di noi, suoi compagni di corso, anche davanti ai pazienti. Nessuno la sopportava. Ho pensato: “Se non le voglio bene io, chi lo farà?”. Ho imparato a capire lei e le sue difficoltà, a volerle bene. All’inizio era difficile, voleva sempre ottenere qualcosa. Ho pregato Gesù di darmi il coraggio e la forza, perseverando in questo atteggiamento di comprensione. Alla fine, anche lei ha cominciato a capire me, e siamo diventate amiche. Se c’è una cosa che ho imparato, è che le cose possono anche diventare meno facili, ma tu puoi diventare più forte. Ho avuto paura tante volte di non farcela, ma “ricominciare” era il segreto che avevo imparato da Chiara Lubich. Ora sono un medico, il mio sogno si è realizzato, e ho tante più opportunità per amare Dio servendo i miei pazienti, ricordando quella frase del Vangelo “Qualunque cosa avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me”». Chiara Favotti (altro…)
Ago 29, 2018 | Focolari nel Mondo
«Quando avevo sei anni, mia madre mi fece inserire nel programma di assistenza diurna di Bukas Palad, il progetto sociale realizzato dai Focolari attraverso le sue organizzazioni AMU e AFN, dopo aver conosciuto una insegnante che lavorava lì. Ricordo che mi disse: “Qui imparerai ad avere un sorriso luminoso”. Anche mia madre partecipava alle riunioni di formazione e cominciò a impegnarsi come volontaria. Inizialmente pensavo che lo facesse perché non aveva nient’altro da fare, a parte i lavori di casa, ma poi mi sono ricreduta, vedendo che ci andava anche di sabato. Mio padre e i miei fratelli notavano che era più felice. E lo ero anch’io, attirata dallo spirito di reciproco amore e di unità che c’era tra i membri dello staff. Grazie al progetto ho potuto completare tutto il corso di studi fino alla laurea. Posso testimoniare che Bukas Palad ha avuto un ruolo fondamentale nella maggior parte delle mie esperienze e nelle mie scelte di vita. Ricordo molto bene tutte le attività che svolgevamo a scuola e durante i fine settimana, con tutti gli studenti, e la formazione che abbiamo ricevuto e che ci ha fatto diventare persone sensibili alle necessità degli altri e che considerano la povertà non come un ostacolo che ti impedisce di fare quello che vuoi, ma come un dono.
Attraverso il progetto, ho conosciuto Chiara Lubich e i giovani del Movimento dei focolari. Crescendo in questo contesto, ho imparato che i sogni si possono realizzare se crediamo che su ciascuno di noi c’è un piano d’amore di Dio. Mi sono laureata in Educazione all’Università di Cebu, poi ho superato l’esame di abilitazione per insegnanti. Subito dopo la laurea ho iniziato a lavorare, accompagnata dalla mia grande “famiglia”, che mi è sempre stata accanto, anche quando dovevo affrontare il mondo del lavoro e la vita in generale. Sia nei momenti di soddisfazione che in quelli difficili, mi sono portata dietro una frase di Chiara Lubich, “Siate famiglia”. Quando penso a Bukas Palad, capisco bene cosa sia una famiglia. Dapprima ho insegnato nella scuola privata, per cinque anni. Poi, nel 2014, ho fatto richiesta di insegnamento nella scuola pubblica. Sono stata assegnata ad una scuola di Mandaue, una città che fa parte dell’area metropolitana di Cebu. Qui le cose erano completamente diverse, non c’era la stessa organizzazione e sistematicità che conoscevo. Quando insegnavo nella scuola privata, pensavo che per fare l’insegnante era necessario un grande cuore e un animo coraggioso. Ma ora che lavoro nella pubblica credo che si debba avere un cuore ancora più grande, un animo se possibile ancora più coraggioso, una forza ancora maggiore. Ogni volta, quando mi viene la tentazione di abbandonare questo lavoro, qualcosa mi trattiene. Sono soprattutto loro, i ragazzi. In loro vedo me stessa e i miei compagni, tanti anni fa, quando sognavamo di diventare ciò che siamo ora. Forse non sarò in grado di dare lo stesso aiuto e lo stesso supporto che io e la mia famiglia abbiamo ricevuto, ma cerco di fare del mio meglio per trasmettere lo stesso amore». A cura di Chiara Favotti (altro…)