Tagaytay (Filippine): “Uniti per la Pace 2015”
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Arrivano da Damasco, Aleppo, Homs, Banias, Kfarbo e Tartous. Chi poteva immaginare un week-end con i giovani da tutte le parti della Siria. Una pazzia? Si sono chiesti gli organizzatori. Forse, ma è diventata una realtà. Il numero è andato crescendo giorno dopo giorno finché sono diventati 67. «La nostra avventura è incominciata così», raccontano. «Abbiamo scelto un posto sicuro dove tutti potessero arrivare, anche dovendo fare 10 ore di viaggio. L’idea era di trascorrere 3 giorni insieme dove poter vivere, condividere, pregare, piangere, giocare, stare nella natura, ma tutto nell’amore reciproco fra noi». «Cosa importa nella mia vita?» era il titolo del week-end, domanda che risuona ancora più forte in una situazione precaria come quella dei giovani siriani. Divisi in quattro gruppi con diversi temi: “Un’amicizia speciale col Padre”, “Ogni giorno da Gesù”, “L’Amore che rende liberi”, “L’amore a Maria”, che hanno approfondito con brani della Sacra scrittura, dei Papi e dei santi, accompagnati da storie vere di giovani che li hanno preceduti nella corsa verso la santità. «Quando sono arrivata al week-end ero stanca dalla guerra – confida Fatima – e sentivo che la vita era ferma, ma lì ho sperimentato di nuovo la presenza di Dio nella mia vita e il suo Amore per me attraverso l’amore degli altri. Adesso quando passo momenti difficili, mi basta pensare che c’è qualcuno che sta pregando per me e che sta cercando di vivere allo stesso modo, e questo mi dà una pace interiore grande. Ho capito che la cosa più importante è vivere la vita… amando Gesù in ogni prossimo».
Il primo giorno hanno approfondito uno dei cardini della spiritualità dell’unità, «Dio Amore». Ripercorrendo la storia degli inizi dei Focolari a Trento durante la seconda guerra mondiale, nel crollo di tutto, si ripercorreva anche la realtà siriana di oggi. «Tutto crolla solo Dio rimane», affermava qualcuno, quindi: «Cosa importa davvero nella mia vita?». Uno di loro ha detto: «Vivere il cristianesimo in modo radicale». Il secondo giorno, attorno a uno storico discorso di Chiara Lubich ai giovani negli anni ’70, «Gesù Maestro», è emersa la loro sete di Dio. «Non sono mancate le serate con canti, danze e giochi che ci hanno fatto sperimentare il senso di una vera famiglia», scrivono ancora Murad e Lina. Andando via qualcuno affermava: «Ringrazio Gesù per tutti i momenti di gioia e di dolore». «Ho sperimentato di nuovo la carezza di Dio – scrive Haashim – sento la responsabilità di portare questa grazia a tutti quelli che sono attorno a noi». Giorni indimenticabili per tutti. «Sono stati giorni» – scrive Samir – «in cui abbiamo preso pace, serenità e che ci hanno dato la forza per tornare a vivere in questa situazione drammatica». «Nonostante tutta l’assurdità della guerra – conclude Nahda – non mi sento sola». (altro…)
«I fatti che sono successi hanno risvegliato la solidarietà nella comunità cittadina. Tanti leader e gruppi religiosi, e organizzazioni civili, si sono messi a lavorare insieme per pulire strade ed edifici e per aiutare in tanti modi, facendo vedere il volto positivo della città, pur ferita profondamente», scrive Lucia, corresponsabile del Movimento dei Focolari, da Washington. I fatti di cui parla sono ben noti, e cioè le proteste popolari che si sono scatenate a Baltimora, nello scorso mese e tuttora in corso, dopo la morte del 25enne afroamericano Freddie Gray mentre era in stato di arresto. Baltimora, la più grande città del Maryland con più di 600.000 abitanti, è un crogiuolo di gruppi etnici in particolare afroamericani. Leonie e Jennifer, due volontarie dei Focolari, abitano in centro città. «La situazione rimane molto tesa; ieri il sindaco aveva chiuso le scuole e il governatore dello stato ha dispiegato le forze armate. Comunque tutti quelli che conosciamo stano bene». Leonie è proprio vicina ai luoghi degli scontri e insegna in una scuola elementare di quasi tutti afro e dove c’è molta povertà. «Alla TV ho visto un mio allievo di 3° elementare partecipare a saccheggi di edifici e proprietà». «Non possiamo restare indifferenti, vogliamo fare qualcosa di concreto, con la consapevolezza che il nostro contributo per stabilire rapporti veri tra le persone è più urgente che mai. Non solo, ma che ogni atto d’amore costruisca rapporti nuovi e che contribuisca a far crescere la fraternità tra le persone », scrivono Marilena e Mike. «Intanto, parteciperemo ai diversi momenti di preghiera organizzati dalle autorità religiose, a cominciare dalla messa che l’arcivescovo Lori celebrerà nel nostro quartiere, invocando la pace». «Oggi sono ritornata a scuola – racconta Leonie –, cercando di vedere i miei allievi (che hanno partecipato ai saccheggi) con “occhi nuovi”. Ho contattato un insegnate afroamericana musulmana che conosce due rappresentati religiosi neri nella scuola per offrire solidarietà e ci siamo messi d’accordo per lavorare insieme». Jennifer lavora in una ditta dove sono quasi tutti bianchi. «Una mia collega che abita vicino ai luoghi delle violenze è venuta oggi a trovarmi e mi diceva la sua sofferenza nel vedere quello che sta accadendo, ma non aveva il coraggio di dirlo a nessuno per timore di essere emarginata dai colleghi. È stata l’occasione per dire che possiamo cominciare noi a costruire il dialogo con tutti, una persona alla volta, e diffondere così una mentalità nuova. La mia collega non è praticante, ma si è illuminata in volto e mi ha detto che questo è proprio quello che vuole anche lei». Intanto, i leader delle diverse comunità religiose cominciano a lavorare insieme per la pace. «Sono stata invitata dall’Imam Talib della moschea di Washington a offrire, il 5 maggio, la mia testimonianza come focolarina, e l’ideale che ci anima», continua Lucia. «Vuole che parli in un incontro aperto al pubblico e organizzato da loro insieme al Procuratore Distrettuale, per integrare la prospettiva religiosa come una dimensione essenziale per calmare la violenza. Il titolo dell’evento è: “Heal the Hurt, Heal the Heart” (Cura la ferita, cura il cuore). Ci sembra un’ottima possibilità di dialogo fra religioni, ma anche un’opportunità per far vedere, più che lo scontro, la ricchezza delle diversità etniche della nostra società». (altro…)

Foto: WFP/Abeer Etefa
«Il Venerdì Santo è avvenuta la strage di Garissa. Mi sono recata nell’obitorio dove stavano trasportando le salme degli studenti per il riconoscimento, non lontano dalla mia casa a Nairobi, portando con me la macchina fotografica: era impossibile non sentire le sirene. Ho trovato da una parte i genitori degli studenti uccisi che svenivano… dall’altra, i colleghi con le telecamere. Certamente avrei potuto riprendere qualche intervista, ma non ce l’ho fatta; mi sono trovata subito a piangere con quelle famiglie. C’era una forte pressione da parte di tutti, dell’opinione pubblica, che voleva avere notizie, si aspettava qualcosa … io, però, avevo bisogno di tempo per assumere e digerire questa situazione così dolorosa, per essere in grado di dire qualcosa di costruttivo. Sentivo che la mia parte era di stare in silenzio con questo dolore, e resistere alle pressioni». Racconta, non senza commozione, Liliane Mugombozi, giornalista keniota.
Sono quasi 150 le vittime dell’attacco da parte di estremisti somali al Garissa University College, nel Nord-Est del Kenya (al confine con la Somalia e a 350 km dalla capitale Nairobi). Nella giornata del 3 aprile, infatti, i terroristi avevano attaccato il college, prendendo di mira gli studenti cristiani. Solo l’intervento delle forze armate governative, che hanno fronteggiato per l’intera giornata gli assalitori, ha evitato che la strage avesse dimensioni ancora maggiori. Ma la paura generale di nuovi attacchi resta così alta che, anche un qualunque incidente può scatenare il panico con pesanti conseguenze, come è successo il 12 aprile al “Kikuyu Campus” (altro college universitario) di Uthiru, a 30 km da Nairobi: un trasformatore elettrico nelle vicinanze è esploso provocando uno boato simile all’esplosione di una bomba. Uno studente è morto lanciandosi dal 5° piano e circa 150 sono rimasti feriti, nell’intento disperato di fuggire.
«Già dai primi giorni, con tanti della comunità siamo stati nella camera mortuaria dove sono stati portati i 148 corpi dei giovani uccisi, per consolare le persone che hanno perso i loro figli – racconta Charles Besigye della comunità locale dei Focolari –. Oggi, 11 aprile, insieme ai nostri giovani, abbiamo passato il pomeriggio nell’obitorio. È qualcosa che spezza il cuore! Persone nella sospensione assoluta che, a distanza di una settimana, non sanno ancora dove sono i propri figli. Alcuni corpi sono già stati identificati e li stanno portando via per la sepoltura nei rispettivi villaggi. Il dolore è immenso… scene angoscianti dei parenti. È straziante vederli crollare, dopo tanto tempo di attesa. Siamo rimasti lì per condividere con loro il dolore, per aiutarli a portare questa pesante croce. Per piangere con quelli che riescono ancora a farlo, perché c’è chi non ha più lacrime. Una di noi si è offerta a dare una mano per aiutare a sistemare i corpi dei giovani defunti prima di mostrarli ai parenti. Una esperienza forte! C’è tanto spirito di solidarietà da parte delle varie associazioni e di tutto il popolo keniota: portano pane, latte, bibite, ecc… E tutti i mass-media richiamano all’unità e al dialogo. Commuove anche vedere il clima sacro che si respira nell’obitorio. Le persone che si raccolgono: chi prega Dio, chi consola». Nel corso della Via Crucis al Colosseo di Roma la sera del Venerdì Santo, il Papa ha usato parole durissime: «La sete del tuo Padre misericordioso – ha detto Francesco – che in te ha voluto abbracciare, perdonare e salvare tutta l’umanità ci fa pensare alla sete dei nostri fratelli perseguitati, decapitati e crocifissi per la loro fede in te, sotto i nostri occhi o spesso con il nostro silenzio complice». È un forte monito che ci sprona a non tacere. (altro…)