1 Mag 2016 | Centro internazionale, Spiritualità
«Il lavoro fu inflitto all’uomo come castigo; ma anche come redenzione. Mentre ha la finalità immediata dell’acquisto del pane quotidiano concorre anche al fine ultimo dell’ acquisto del Regno eterno. Riguarda perciò tanto l’economia, quanto la teologia; e difatti l’uomo è figlio di Dio, a Dio destinato, anche quando lavora. Se il problema si riducesse a sola economia, il lavoratore vi diverrebbe sola macchina: la dignità sua d’uomo si ridurrebbe a quella d’un utensile. Oggi, di dignità del lavoro si parla tanto che è divenuto un luogo comune. Ma non è detto che la mentalità schiavistica sia estinta, né che manchino imprenditori, magari battezzati, ai quali, perché pagano un salario, non appaia d’essere in diritto d’umiliare chi di quel salario vive, trattandolo con disprezzo e con diffidenza, sia esso un lavoratore intellettuale o sia esso una domestica semianalfabeta. Ma il lavoro non serve soltanto a maturare un salario di danaro. Il lavoro compiuto con un desiderio di redenzione morale, di partecipazione alle sofferenze di Cristo, diventa produzione di santità: entra nell’economia delle cose eterne, da cui deriva una dignità che fa dei costruttori di macchine, degli agricoltori, degli studenti, dei professionisti, degl’impiegati, delle massaie, altrettanti costruttori del Cristo integrale. «Ogni buon operaio – ha scritto sant’ Ambrogio – è una mano di Cristo». E cioè, Cristo lavora nella società con le mani dei suoi operai. Chi ben opera, in altri termini, edifica in terra una costruzione celeste: è l’artefice umano di un’architettura divina. E questo innalza a dignità sconfinata chi fa e ciò che fa, se lo fa nello spirito e sotto la legge di Cristo. Così si vede che il divino opera nella società per mezzo dell’uomo, associato a partecipare al prodigio vivo dell’Incarnazione, la quale, se fu il miracolo dell’umanizzazione del figlio di Dio, importa con sé anche il miracolo d’ogni giorno d’una divinizzazione di tutti i figli dell’uomo e perciò figli di Dio: un movimento che dalla terra va incontro a Cristo che viene dal cielo. Così la vita sulle strade tormentate del pianeta è, sì, tutta umana, ma anche, se vissuta nello spirito della Redenzione, tutta inserita nel divino: tutta divina. Questa dignità non è limitata alle sole opere dello spirito, ma investe l’intera persona umana, corpo e spirito, in tutto quello che fa. II mestiere, la professione, l’ufficio….: queste cose melanconiche e talora tragiche e spesso noiose si trasfigurano, di colpo, in Valori insospettati, in elementi del nostro destino: diventano i mezzi della nostra redenzione. Il lavoro era il nostro castigo; e, per l’umanità di Cristo, si fa nostro riscatto. È il nostro contributo alla Redenzione. Si scala il cielo coi materiali della terra. Nulla si perde: né una giornata mal pagata, né una parola detta, né un bicchier d’acqua donato per Cristo. Di queste semplici cose si edifica, dai più, il Regno di Dio. Ché i più non vanno in missione, né si chiudono in eremi, né scrivono trattati di teologia: ma tutti lavorano, tutti servono. Ora servendo gli uomini, se si agisce nello spirito di Cristo, si serve Dio. Il quale non ci si presenta ancora nella sua luce, che fulminerebbe lo nostra vista, ma in quella sua effigie, che sono gli uomini, sua rappresentanza e fattura». Igino Giordani, La società cristiana, Città Nuova, Roma (1942) 2010, pp. 72-82 (altro…)
26 Apr 2016 | Centro internazionale, Chiesa, Spiritualità
«È stata la prima volta di un Papa a una Mariapoli e mi è tornato in mente quanto più volte ascoltato da Chiara Lubich, per descrivere l’effetto che avevano in lei la visita e le parole di un vescovo alle Mariapoli. Vi riconosceva «un peso, un’unzione» che le diversificava da quelle di chiunque altro, anche teologo o santo, e la percezione che con la sua presenza la “città di Maria” raggiungesse il compimento: diventasse “città Chiesa”. Così è accaduto, nella pienezza, con la visita fuori programma di Papa Francesco al Villaggio per la Terra a Villa Borghese, dove, in collaborazione con l’evento di Earth Day Italia, si svolgeva la Mariapoli di Roma che però non si ferma nella capitale. Così ogni Mariapoli che si svolge e si svolgerà nel mondo — e sono centinaia — si sentirà guardata e amata alla stessa maniera. Quel suo parlare a braccio, mettendo fin dall’inizio da parte i fogli, era come dire: mi avete preso il cuore e devo rispondere a ciò che voi avete detto a me. E le sue parole nette, luminose, non erano solo riconoscimento per l’impegno e l’azione dei tanti che gli hanno parlato, ma avevano il sapore di un programma per il futuro: in esse ritornavano come idea forte il prodigio e la possibilità di trasformare il deserto in foresta. Mi ha fatto impressione il suo dire con forza che ciò che vale è portare la vita. Non fare programmi e rimanervi ingabbiati, ma andare incontro alla vita così com’è, con il suo disordine e i suoi conflitti, senza paura, affrontando i rischi e cogliendo le opportunità. Per conoscere la realtà col cuore bisogna avvicinarvisi. Avvengono così i miracoli: deserti, i più vari, che si trasformano in foreste. Papa Francesco possiede la forza della parola. Le sue immagini non si cancellano, né dalla mente né dal cuore. Insieme tra diversi: persone, gruppi, associazioni. Il Pontefice lo ha ripetuto tante volte perché ci tiene e gli dà gioia. Lo spettacolo umano a Villa Borghese è nato da una domanda: perché non realizzare la Mariapoli nel cuore di Roma? Perché non provare a fare un innesto di fraternità, magari piccolo ma concreto, nelle strade della città? Roma — lo sappiamo — piange per le tante ferite e soffre per le molte fragilità, ma vive anche di una ricchezza incredibile: il tanto bene che vi si fa. Quando il Papa ha indetto l’anno della Misericordia abbiamo pensato alle tantissime associazioni che operano nella città, con o senza riferimento religioso, ma che “fanno misericordia”. Quasi un caso l’incontro con Earth Day, che si occupa della tutela del creato e lavora per quell’ecologia integrale cara a Francesco. Un percorso e un lavoro appassionanti, fuori dai propri schemi, su strade anche impensate. Non senza difficoltà, certo, perché non ci si conosceva e perché si è diversi. Ma la diversità è ricchezza, come l’incontro con oltre cento associazioni: sono così nate sinergie e si sono costruiti ponti. Anche con realtà piccolissime: «Ma la mia associazione va avanti con la mia pensione, non abbiamo né loghi né cose del genere» ci ha detto un nuovo amico. E la Mariapoli ha voluto dare testimonianza del bene che anche lui fa. Sono così emerse le tante città sotterranee virtuose che Roma contiene. Un bene che si moltiplicherà e una rete che sembra dare ragione all’intuizione che Chiara Lubich scrisse nel 1949 incontrando Roma e amandola: “molti occhi s’illuminerebbero della sua Luce: segno tangibile che Egli vi regna (…) a risuscitare i cristiani e a fare di quest’epoca, fredda perché atea, l’epoca del Fuoco, l’epoca di Dio (…) Non è solo un fatto religioso (…) È questo separarlo dalla vita intera dell’uomo una pratica eresia dei tempi presenti, e un asservire l’uomo a qualcosa che è meno di lui e relegare Dio, che è Padre, lontano dai figli”». di Maria Voce, Presidente del Movimento dei Focolari Fonte: Osservatore Romano, 25 aprile 2016 Centro televisivo vaticano Comunicato Stampa – Servizio Informazione Focolari – SIF Discorso integrale del Santo Padre https://www.youtube.com/watch?v=u3mLE6HanXI (altro…)
18 Apr 2016 | Centro internazionale, Cultura, Focolari nel Mondo, Spiritualità

Tommaso Sorgi (a sinistra) con Igino Giordani nel 1969
Quando nel ‘48 Giordani incontrò il Movimento dei Focolari, egli era deputato del nuovo Stato italiano dopo una vita già matura di battaglie condotte con pari vigore per la fede e per una visione religiosa della vita pubblica. Il suo impegno in quest’ultimo campo gli aveva addossato un costo: l’emarginazione professionale. La sua lettura del Vangelo rifuggiva dai due estremi: quello dell’intimismo disincarnato e quello tendente a ridurlo a solo messianismo terrestre. Preso nella sua interezza umano-divina, il messaggio evangelico è il seme di una rivoluzione (“la” rivoluzione) che ha sconvolto la storia e continua oggi la sua opera per la più profonda libertà dell’uomo. Il suo concetto di fondo, “leit motiv” di numerosi suoi libri, era la connessione fra divino e umano, necessaria all’interesse dell’uomo: dall’accettazione di Cristo nella vita dei popoli hanno origine la libertà e dignità dell’uomo. Libertà, uguaglianza, solidarismo, uso sociale della ricchezza, dignità del lavoro, armonia fra Stato e Chiesa, animazione morale della vita pubblica e dell’attività economica, antimilitarismo e pacifismo sul piano internazionale: erano i punti-cardine del suo pensiero. Erano queste dunque le sue posizioni, quando avvenne l’incontro che alla sua vita – decisamente già in tensione verso Dio – doveva imprimere una impennata verticale. Aveva registrato nelle sue pagine di diario anche l’angoscia per le incoerenze tra la propria fede privata e la vita pubblica, per la fragilità di una personale «ascesi» vanificata da «insuccessi in politica, in letteratura, nella vita sociale». Aveva annotato la lacerazione del sentirsi impotente a rispondere al suo stesso desiderio di «diffondere la santità da un povero foglio di giornale» (a quella data era direttore de “Il Popolo”), di «diffondere la santità da un corridoio di passi perduti» (la hall di Montecitorio). «Chi compirà questo miracolo?», s’ era chiesto nell’agosto del 1946. La risposta a tali angosce e a questo interrogativo si era profilata in quell’incontro con Chiara Lubich, quasi una “chiamata” provvidenziale. Essa gli aveva dato modo di rilanciare il suo già vivo cristianesimo in una profondità per un verso ancora più divino, per un altro ancora più sociale. Quell’incontro era stato per lui l’impatto con un carisma. Al suo spirito nutrito di profonde conoscenze delle spiritualità nella storia della Chiesa, quel carisma apparve subito nelle sue vaste dimensioni e implicazioni teologiche e storiche. La spiritualità dell’unità gli apparve subito una enorme energia utilizzabile oltre che nella Chiesa, anche nella comunità civile per «trasformare la convivenza umana in concittadinanza coi santi, per immettere la grazia nella politica: a farne uno strumento della santità». Così maturò uno dei contributi fondamentali che Giordani doveva dare allo sviluppo del Movimento dei Focolari: aiutare il piccolo drappello iniziale a prendere coscienza della efficacia anche umana del carisma che si stava manifestando. Ora che l’albero del Movimento dei Focolari è fiorito in tutti i continenti, gli rimane come linfa vitale, oltre alla vita di Giordani, la sua visione di cristianesimo sociale, per cui egli ha lavorato e battagliato per una vita intera, ergendosi con la statura di un profeta biblico contro ogni scissione tra fede e opere e contro ogni «liberticidio» che ne consegue. E rimane al Movimento dei Focolari un prezioso patrimonio da approfondire, dato dal suo pensiero e dal suo metodo. Penso che sia valida per l’intero mondo cristiano la via indicata da lui, nella sua penetrante attenzione alle esperienze storiche del Cristianesimo e nella sua equilibrata lettura evangelica, lontana da ingenuità fideistiche e da integralismi, aperta alla ricerca di una «collaborazione razionale» fra le due città: quella di Dio e quella dell’uomo. Tratto da: Tommaso Sorgi, L’eredità che ci ha lasciato, Città Nuova n.9 – 10, maggio 1980 (altro…)
11 Apr 2016 | Centro internazionale, Cultura, Focolari nel Mondo
Il Workshop Interdisciplinare “Il Varco” a Montefalcone Appennino nelle Marche, in Italia, è un’attività culturale, interdisciplinare che coinvolge le discipline di architettura, musica, cinema, letteratura ed è già arrivata alla quarta edizione.
Il nome stesso, ‘Il Varco’, indica la possibilità di mettersi insieme in diverse discipline per affrontare i varchi, queste strettoie che a volte l’attuale società ci impone. Anche quest’anno si svolgerà a Montefalcone Appennino dal 27 al 31 luglio e avrà per tema : Il Varco delle Emozioni.
Sono previsti momenti comuni a tutte le discipline, momenti di lavoro distinto e momenti aperti alla cittadinanza.
Quest’anno per l’architettura durante i momenti dedicati alla disciplina si approfondirà il tema dell’
Architettura al limite: al limite di risorse e di condizioni in preparazione ad un viaggio a Quito in Ecuador previsto nel prossimo novembre. «Lì avremo la possibilità di approfondire ulteriormente il tema e di realizzare sistemi costruttivi in uno dei paesi colpiti dal terremoto, insieme alle persone del posto – scrivono gli organizzatori – A questo progetto abbiamo iniziato a lavorare in collaborazione con l’
AMU e col al gruppo FEPP (Fondo Ecuatoriano Populorum Progressio).
Alleghiamo la locandina e vi aspettiamo….al Varco!!!».
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31 Mar 2016 | Centro internazionale

Foto © CSC Audiovisivi
«Il dialogo è un vero segno dei tempi, ma rappresenta una realtà che dobbiamo approfondire in tutti sensi. Sulla scia di Giovanni Paolo II e di altri pensatori contemporanei, Chiara Lubich ha descritto la nostra epoca, almeno in Occidente, con la categoria di “notte culturale”, non una notte definitiva, ma una notte che, secondo la Lubich, nasconde una luce, una speranza. Potremmo dire allora che nella notte culturale, che è anche una “notte del dialogo”, si occulta una luce, ossia la possibilità di elaborare insieme una nuova cultura del dialogo. Per fare questo – secondo me – la prima cosa è riscoprire che esso è così radicato nella natura umana che in tutte le culture possiamo trovare quello che chiamerei “le fonti del dialogo”. Queste fonti sono raccolte nelle grandi Scritture e sono fondamentalmente due: la fonte che sgorga dall’esperienza religiosa e quella che nasce dalla ricerca filosofica dell’umanità. In questa linea dovremmo parlare di fonte biblica, coranica, vedica, ecc. Vuol dire che in tutte le Scritture delle tradizioni religiose troviamo fortemente l’accento sul dialogo. Dovremmo attingere anche alla filosofia greca, alla metafisica islamica, alle Upanisad, al pensiero buddista, ecc. In Occidente nel secolo scorso si è sviluppata una vera scuola di pensiero dialogico di radice ebraica e cristiana. Attingo, in modo particolare, a questa ultima fonte per offrirvi alcuni principi di una antropologia del dialogo. Primo. Il dialogo “è iscritto nella natura dell’uomo” fino al punto che si può dire che è la definizione stessa dell’uomo. Secondo. Nel dialogo “ogni uomo è completato dal dono dell’altro”, cioè abbiamo bisogno gli uni degli altri per essere noi stessi. Nel dialogo io regalo all’altro la mia alterità, la mia diversità. Terzo. Ogni dialogo “è sempre un incontro personale”. Quindi non si tratta tanto di parole o di pensiero, ma di donare il nostro essere. Il dialogo non è semplice conversazione, né discussione, ma qualcosa che tocca il più profondo degli interlocutori. Quarto. Il dialogo “richiede silenzio e ascolto”. Questo è decisivo, perché il silenzio è importante non solo per il retto parlare, ma anche per il retto pensare. Come dice un proverbio: “Quando parli fa che le tue parole siano migliori del tuo silenzio” (Dionigi il Vecchio). Quinto. Il vero dialogo “costituisce qualche cosa di esistenziale” perché rischiamo noi stessi, la nostra visione delle cose, la nostra identità. A volte sentiamo che perdiamo la nostra identità culturale, ma è solo un passaggio perché in realtà l’identità viene arricchita immensamente nella sua apertura. Noi dovremmo avere una “identità aperta”. Questo vuol dire sapere chi siamo; ma anche essere convinti che “quando mi capisco con qualcuno… so meglio anch’io chi sono” (Fabris). Ancora altri principi. Il dialogo autentico “ha a che fare con la verità”, è un approfondimento della verità. Per i greci antichi il dialogo era il metodo per arrivare alla verità. Questo significa che la verità ha sempre bisogno di essere completata, nessuno possiede la verità, è lei che ci possiede. Quindi non si tratta di relatività della verità, ma di “relazionalità della verità” (Baccarini). “Verità relativa” vuol dire che ognuno ha la sua verità che è valida solo per sé. “Verità relazionale”, invece, vuol dire che ognuno partecipa e mette in comune con gli altri la sua partecipazione alla verità, che è una per tutti. Diverso è il modo come noi arriviamo e come partecipiamo alla verità. Per questo è importante dialogare: per arricchirci delle varie prospettive. Nella relazione ognuno scopre aspetti nuovi della verità come fossero propri. Come dice Raimond Panikkar: “Da una finestra si vede tutto il paesaggio, ma non totalmente”. È quello che dicevamo prima: dobbiamo concepire la differenza come un dono e non come un pericolo. Uno dei grandi paradossi di oggi è che in questo mondo globalizzato abbiamo paura della differenza, dell’altro. Il dialogo, poi, “richiede una forte volontà”. L’amore alla verità mi porta a cercarla e a volerla, e per questo mi metto in dialogo. Due ultimi principi. Il dialogo “è possibile solo tra persone vere”, e solo l’amore ci fa veri. In altre parole, l’amore prepara le persone al dialogo facendole vere. Ciò che fa fecondo il parlare è la santità di chi parla e la santità di chi ascolta. Ecco la responsabilità del dialogo in tutta la sua portata: richiede persone vere e fa le persone più vere. E infine: la cultura del dialogo “conosce solo una legge che è quella della reciprocità”. Ci vuole questo percorso di andata e ritorno perché ci sia vero dialogo. In definitiva, oggi si parla molto di interculturalità. Penso che una vera interculturalità è possibile se cominciamo a vivere questa cultura del dialogo. Nessuno ha mai detto che dialogare sia facile. Si richiede ciò che oggi è difficile pronunciare: sacrificio. Richiede uomini e donne “maturi per la morte” (Maria Zambrano), cioè morire a se stessi per vivere nell’altro». Jesús Morán, Università di Mumbai, 5 febbraio 2016 (altro…)