Un cammino di riconciliazione in Myanmar
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Per raggiungere Gan Gan, un villaggio che dista da Trelew poco più di 300 km, occorrono, bel tempo permettendo, 6/7 ore di viaggio. Si devono infatti affrontare i pendii della meseta di Chubut, che qui sono particolarmente impervi. In genere sono in pochi a visitare Gan Gan, che con i suoi 800 abitanti, a maggioranza indigeni mapuches e tehuelches, si è tristemente guadagnato la fama di “villaggio dimenticato da tutti”. Il 19 e 20 novembre scorso, proprio a Gan Gan si è tenuta una missione, con la partecipazione di persone venute da parrocchie e da realtà associative di Trelew. Durante il viaggio, la comitiva approfitta per rinsaldare la conoscenza reciproca e riflettere sul significato di questo spingersi verso i più poveri in risposta all’appello di papa Francesco. Ad attenderli, la festosa accoglienza della gente, con i suoi canti tipici, mentre un sacerdote li introduce nella realtà di questo tratto di altopiano dove sono ancora presenti miniere che vengono lavorate a cielo aperto, con gravi conseguenze per la contaminazione dell’ambiente. A fare gli onori di casa è un’anziana del villaggio, che nella sua lingua mapuche dà il benvenuto e presenta mons. Croxatto, vescovo ausiliare di Comodoro Rivadavia anch’egli venuto per la missione. Si inizia con la celebrazione di 5 battesimi. «Il sogno di uno di questi bambini, che ha già 4 anni – racconta una focolarina che fa parte della comitiva –, era di essere battezzato da papa Francesco. Il vescovo, ornato da tutti i paramenti, con grande amore gli spiega che il Papa è impossibilitato a venire fin quassù, ma che aveva conferito a lui il mandato di battezzarlo. Alla cerimonia è seguito un pranzo con cibo generosamente portato dalla gente e condiviso fra tutti». Poi i missionari iniziano a percorrere, in preghiera, l’intero villaggio: «Una processione che per gli scenari che si presentano ai nostri occhi – racconta un’altra focolarina presente – sembra una Via Crucis. La gente è disposta lungo la strada e racconta drammi di abbandono, solitudine, violenza, mancanza di giustizia: dalla mamma cui hanno ucciso il figlio, a quella il cui figlio è desaparecido, dalla poverissima casa di ricovero per anziani, alla cappella in desolante abbandono. Ciò che fa più impressione sono i volti della gente, anzitempo solcati da rughe di dolore e di stenti. Impressionante anche la quantità di persone che desiderano confessarsi. I sacerdoti ascoltano ininterrottamente le loro confessioni mentre la processione procede silenziosa. Altro momento forte è la messa della prima comunione con la cresima a 15 persone, alcune adulte e addirittura già nonne. A vedere come i sacerdoti si prodigano in questa realtà socialmente così lacerata, a come cercano di farsi vicini ai problemi della gente, tornano alla mente le parole di papa Francesco quando dice che i pastori debbono avere addosso l’odore delle loro pecore».
Nel viaggio di ritorno viene creato un gruppo whatsapp perché tutti vogliono che l’esperienza della missione non finisca qui. Molti dicono che a Gan Gan bisogna tornare, colpiti dall’esperienza forte e profonda di essersi sentiti – pastori e laici – un unico popolo di Dio. E per aver vissuto, insieme, l’esperienza di “uscire” come Chiesa per incontrare i più deboli. Toccante l’esperienza condivisa da uno dei sacerdoti che durante il pranzo comunitario era andato a far visita ai parenti di una signora di Trelew nativa di Gan Gan. «L’impatto è stato molto forte – racconta –. Erano due fratelli di 83 e 81 anni ambedue sordi: la signora al 90% e il fratello, non vedente al 100%. Vivono in una stanza di due metri per due, con i due letti disposti a L. La porta è quasi inesistente e il pavimento di nuda terra. Il freddo che entra dalla porta e quello che affiora dal pavimento, non fa che accentuare l’artrosi di cui soffre la donna. Nel cuore mi è rimasta una ferita. Penso che la missione, che pure è andata bene, non avrebbe senso se non facciamo qualcosa per dare dignità a questi indigenti». Alla sera già arrivano le prime risposte via whatsapp al parroco: «Abbiamo trovato i soldi per rifare la porta. Mandaci le misure». Fonte: Focolares Cono Sur online (altro…)
«Così è la brama così è l’ira, esse nascono dal rajas, dalla passione dei sensi che tutto divora…» (Bhagavad Gita 3,37). È una delle citazioni fatte da Paramahamsa Svami Yogananda Ghiri, presidente onorario dell’Unione Induista italiana (UII), nel suo discorso di saluto alla 1° Conferenza cristiano-induista, che il 6 dicembre ha gremito l’aula magna dell’Università Gregoriana (Roma). Ad aprire i lavori il card. Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, promotore dell’evento, in collaborazione con l’UII, la Conferenza episcopale italiana, Religions for Peace e il Movimento dei Focolari. Il prelato, nell’esprimere la sua gioia per questo momento di dialogo, auspica fiducioso: «Con la nostra luce interiore che arde e illumina, saremo capaci di orientare ogni nostro passo sulla via della Pace». Cristianesimo ed induismo, religioni rappresentate in egual misura da 300 persone animate da un profondo desiderio di conoscenza e di comunione reciproche. Due emblemi campeggiano nell’aula: la Lampada e il Crocefisso, ambedue simboli di luce. “Luce di Pace” è, infatti, il titolo della giornata trascorsa nel dialogo e nella ricerca di costruire insieme la Pace. Significative le parole del vescovo Paul Gallagher, segretario per i rapporti del Vaticano con gli Stati che, dopo aver ricordato i molti conflitti presenti nel pianeta, si appella alla comunità internazionale per un «superamento della logica dell’individualismo, della competitività, del voler essere i primi» e chiede che al più presto si promuova “un’etica della solidarietà”.
Di grande interesse anche l’analisi del prof. Naso dell’Università La Sapienza (Roma). Egli, dopo aver riportato i tristi dati della conflittualità generata da motivi religiosi, ricorda i molti casi in cui sono proprio le comunità di fede a diventare mediatori di processi di pace (es. Irlanda del Nord, Sudafrica, Mozambico). Ciò fa sperare che «le religioni possano davvero giocare un ruolo costruttivo nelle situazioni di conflitto». Vivace e supportata da esperienze personali, la relazione della psicologa induista Sangita Dubey, sulle differenze culturali e sui costi psichici della migrazione dovuti alla diversa alimentazione, lingua, mentalità… Afferma, perciò, che occorre moltiplicare gli eventi interreligiosi, così da penetrare nelle tradizioni dell’altro, accogliendo le rispettive diversità. “La sconfitta del dialogo”, sottolinea Svamini Hamsananda Ghiri (UII) nel suo discorso sulla prospettiva induista, «è la paura, l’indifferenza, il fondamentalismo, il sospetto dell’altro»; per perseguire il bene comune occorre «vedere l’altro come fratello, perché generato da un Dio Padre». Paolo Trianni, dell’Ateneo di S. Anselmo, a cui è chiesto di esprimere la prospettiva cristiana, conclude: «Quando s’incontrano due civiltà millenarie, due spiritualità così profonde, non possono che discenderne grandi ricchezze». Due esperienze di dialogo hanno dato concretezza alle prospettive tracciate: fr. Cesare Bovinelli monaco di Camaldoli (Italia), ha ricordato la grande sintonia sui temi dell’ambiente negli incontri di Assisi; una giovane dei Focolari, Aileen Carneiro, dell’India, ha descritto le molteplici attività svolte nel suo Paese con giovani indù e cristiani. In particolare, la sinergia con il gruppo gandhiano Shanti Ashram di Coimbatore, da cui ha preso vita un progetto tendente a risolvere la povertà seguendo l’Economia di Comunione. Aileen ha spiegato che va privilegiato il dialogo della vita, mettendo in pratica la cosiddetta Regola d’Oro: «Fai agli altri tutto ciò che vorresti fosse fatto a te». La Conferenza si è conclusa con uno spazio culturale di poesie, canti e danze sacre indù, in cui l’arte è diventata ulteriore motivo di comunione, degna cornice alla lettura del Comunicato congiunto Anna Friso (altro…)
«Visitavamo le famiglie con il foglietto della Parola di vita e, fra un discorso e l’altro, si faceva un incontro». A raccontarlo è Carmen artefice, con il marito Mynor e i parenti più stretti, della Mariapoli realizzata nei pressi della loro città, Chimaltenango, a 54 km da Città del Guatemala. La città, economicamente basata sul commercio e l’agricoltura, è integrata ai ritmi moderni della produzione e consumo, ma rimane gelosa custode di una cultura dalle antiche tradizioni. Carmen e Mynor sono il cuore della comunità dei Focolari e la loro casa, particolarmente ampia, ne è la sede locale. Ne parlano con un pizzico di orgoglio nel raccontare le riunioni che lì si fanno. Il Movimento è poco conosciuto e, come prima cosa, bisognava informare il parroco ed insieme, Mynor, Carmen e la sorella Martha, sono andati a trovarlo. Ma un sacerdote da queste parti è molto impegnato, per cui Mynor , che non poteva aspettarlo a lungo, è andato al lavoro in Tribunale. «Il sacerdote non riusciva a capire che cosa porta di nuovo il Movimento – prosegue Carmen – finché mia sorella Martha gli ha raccontato le esperienze dei figli gen3». La prima aveva destinato i soldi della festa dei 15 anni ai bambini poveri di un paesino isolato, l’altro aveva perdonato un compagno che lo aveva sgambettato con conseguente rottura di un braccio. A quel punto il parroco ha compreso gli effetti del vivere la spiritualità dei Focolari. Ottenuto il sostegno della chiesa locale, bisognava coprire le spese perché «Quando le persone sono invitate ad un ritiro – dice Mynor – sanno di essere ospiti». Per questo la preparazione della Mariapoli consiste anche in attività per raccogliere fondi. Una di queste è stato un Bingo realizzato nel salone parrocchiale, per il quale si era fatta una raccolta di regali donati per l’occasione.
Kelly, la seconda dei 4 figli di Carmen e Mynor, studia legge sulle orme del papà. «Siamo in pochi – afferma – ma ci aiutiamo. Siamo solo due gen ma cerchiamo che ci sia sempre Gesù in mezzo a noi e con tutti». Kelly prova ammirazione per la coerenza di vita dei suoi genitori: «Quando invitavano le persone alla Mariapoli raccontavano esperienze che io conoscevo. E quello che dicevano era vero. A casa nostra la Parola di vita è il riferimento per ogni situazione. Così, quando c’è qualche problema, andiamo a leggerla per attuarla». Il rispetto per gli anziani è una delle ricchezze dei Cakchiqueles. Davanti a loro, prima di parlare si fa una riverenza. La maternità, il dono dei figli, sono ritenuti una benedizione di Dio e precedono in valore ogni altro calcolo. «Per me il Movimento – ancora Carmen – è una grazia di Dio che ci accoglie, grandi e piccoli, tutti, così come accoglie le varie culture e lingue diverse. Qui ci apprezzano, con le nostre tradizioni e col nostro modo di pensare». Nella cultura Maya c’è un forte legame con la natura, «noi invochiamo dicendo grazie al cuore del cielo e al cuore della terra e diciamo, come San Francesco: tutti sono miei fratelli. Chiara Lubich l’ha visto anche così, lo Spirito Santo l’ha mossa in questo senso per cui il Movimento dei Focolari ci accoglie come siamo». E conclude Mynor: «La filosofia Maya risalta l’armonia, il rispetto e la solidarietà. Armonia nella famiglia, equilibrio dell’aspetto materiale e spirituale, solidarietà che è uguale a fraternità, per favorire condizioni di cooperazione». Al di là delle contraddizioni che regnano in ogni cultura, il popolo Cakchiquel, conserva tanti valori umani che, illuminati e purificati dal Vangelo, arricchiscono chi vi si avvicina. Filippo Casabianca, da Città di Guatemala (altro…)
«Mi è stato chiesto di presentare una relazione sulla testimonianza cristiana di fronte alla tradizione africana. Non è stato facile per me, per due semplici motivi: il primo è che sono un Bangwa, il secondo è che non sono solo un cristiano, ma sono anche il Vescovo di Mamfe». A parlare è Mons. Andrew Fuanya Nkea, nell’ambito di un simposio sul dialogo tra religione tradizionale africana e cristianesimo in occasione dei 50 anni di presenza del Movimento dei Focolari a Fontem. 51 anni, originario di Widikum (Camerun), studi di Filosofia e Teologia, sacerdote dal 1992, parroco, segretario della Diocesi, professore e formatore, infine Segretario Generale della Catholic University of Cameroon, ultimo incarico prima della nomina, voluta dal Santo Padre, nel 2013, a Vescovo Coadiutore della diocesi di Mamfe. Mons. Andrew Fuanya è la dimostrazione tangibile di un possibile superamento del dualismo tra le due tradizioni, senza incorrere nel rischio di un sincretismo religioso. «Ho deciso di dare un taglio più pratico che teorico alla mia relazione», afferma, ripercorrendo la storia dei rapporti tra la cultura Bangwa (in particolare nella zona sud-ovest del Camerun, il distretto di Lebialem) e il cristianesimo, segnati da un incontro, divenuto una sorta di spartiacque tra un “prima” e un “dopo”: quello con il Movimento dei Focolari. Il cristianesimo, portato dai primi missionari giunti in Camerun negli anni Venti, aveva messo la popolazione davanti a un bivio: «O diventavi cristiano evitando tutti gli aspetti della religione tradizionale, o praticavi la religione Bangwa, rimanendo un pagano, buono soltanto come legna da ardere all’inferno». Poco o nessun dialogo tra cristianesimo e cultura del posto: gli strumenti musicali tipici erano banditi nelle chiese, come le preghiere tradizionali. Nonostante le rigidità e i metodi inflessibili dei primi missionari, molte persone avevano abbracciato il cristianesimo, pur tra difficoltà e una forte opposizione della loro comunità. La novità
rappresentata dalla prima visita di Chiara Lubich al palazzo reale del Fon di Fontem, nel 1966, è sintetizzata in un’immagine, utilizzata dalla fondatrice dei Focolari, per descrivere la prima scintilla, l’ispirazione del dialogo interreligioso che si sarebbe sviluppato in seguito: «All’improvviso ebbi una forte impressione di Dio come di un enorme sole, che abbraccia tutti, noi e loro, con il Suo amore». Un’era nuova era cominciata, sospinta dal vento post conciliare e dalla straordinaria storia di amicizia tra i primi focolarini arrivati sul posto (molti dei quali medici, accorsi per sconfiggere la malattia del sonno che stava decimando la popolazione) e il popolo Bangwa. Da allora, i rapporti tra i fedeli delle due religioni sono caratterizzati da un profondo e reciproco rispetto, che ha ridato dignità alla cultura tradizionale, vera matrice identitaria anche dei cristiani. Spiega il vescovo: vi sono tradizioni religiose locali che i cristiani hanno mantenuto (la preghiera ai defunti, affinché intercedano per la famiglia, o il “Cry die”, dedicato a loro); altre invece sono divenute estranee alla loro fede (poligamia, sacrificio di animali, stregonerie). La nuova inculturazione, conclude il Vescovo, secondo lo spirito del Vaticano II, non proviene da una imposizione o da una rigida uniformità, ma si ispira ai valori del dialogo e della collaborazione, alla ricerca dei “semi del Verbo” sparsi in ogni tradizione. «La sfida dei cristiani di Lebialem per i prossimi 50 anni sarà riconoscere che la loro credibilità dipenderà da quanto saranno capaci di amare tutti, indipendentemente dalla religione cui appartengono». Solo così saranno autenticamente cristiani e insieme autenticamente africani. Chiara Favotti Intervento integrale di Mons. Andrew F. Nkea (inglese) (altro…)
«Attraverso il Movimento dei Focolari Dio ha visitato il popolo Bangwa […] Hanno vissuto il patto dell’amore scambievole con il popolo Bangwa e insegnato la spiritualità dell’unità e la fraternità universale […] Hanno ridotto la mortalità infantile dal 90% a praticamente lo zero; hanno lavorato duramente per eliminare la mortifera mosca Tsetse che faceva di Fontem una valle di morte; migliaia di persone non avrebbero avuto una buona formazione scolastica senza di loro; hanno messo alla portata di tutti buone condizioni sanitarie […] Ora è il momento di celebrare l’amore di Dio per tutto il popolo di Lebialem». Questi alcuni passaggi della lettera con cui mons. Andrew Nkea, vescovo di Mamfe, aveva indetto il 2016 come anno giubilare di ringraziamento a Dio per l’arrivo dei Focolari tra il popolo Bangwa. Assieme ad una preghiera da recitare ogni giorno, la lettera ripercorre i momenti salienti di questi 50 anni, ricordandone i protagonisti e quanti nel corso di questa storia hanno dato la vita. Essa esprime anche il sentire dei Fon – re dei territori della regione –, dei responsabili delle istituzioni e di tutta la popolazione. Risale al 1966 l’arrivo dei primi focolarini medici a Fontem. Rispondere all’emergenza in cui si trovava allora il popolo Bangwa diventò una priorità per tutto il Movimento dei Focolari. Chiara Lubich vi fece la prima visita nello stesso anno, accolta con grande festa dal re, il Fon Defang, dai notabili e da tutto il popolo. Vi ritornerà altre due volte. Nel maggio 2000 così si rivolge ai Bangwa radunati nella grande spianata davanti al palazzo del Fon: «Non mi sento di staccarmi da voi senza avere fatto un patto solenne. Un patto d’amore vicendevole, forte e vincolante. È come una specie di giuramento, in cui ci impegniamo ad essere sempre nella piena pace fra noi e a ricomporla ogni volta si fosse incrinata».