Movimento dei Focolari
Sophia: tra politica e teologia

Sophia: tra politica e teologia

Gabriel de Almeida ha 25 anni. Rio de Janeiro, dov’è nato, è una metropoli brasiliana attiva e dinamica: sarà sede della prossima Giornata Mondiale della Gioventù e dell’edizione 2014 della Coppa del mondo di calcio. E dalla grande Rio, Gabriel ha portato all’Istituto Universitario Sophia (IUS) anche la vivacità e lo slancio verso il futuro della popolazione carioca. L’itinerario di studio che sta concludendo presenta vari punti di interesse. Perché ti sei iscritto allo IUS? «Portata a casa la laurea in Relazioni internazionali, sentivo la necessità di fare un passo oltre i confini delle teorie politiche e di esplorare l’orizzonte dell’umanesimo. Dopo più di quattro anni e mezzo all’università, mi ritrovavo… con una grande sete: cercavo dove e come rispondere alle mie domande. I racconti di alcuni miei amici che avevano già frequentato Sophia mi hanno fatto intuire che proprio lo IUS poteva essere il posto giusto. Perché hai scelto la specializzazione in “Ontologia trinitaria”, tu che hai alla spalle studi politici? Che rapporto c’è tra i due percorsi? «Sono arrivato a Sophia pensando di seguire la specializzazione in politica; era una scelta più che naturale per me. Ma dopo qualche mese, sono venute a galla due nuove impressioni. La prima era di meraviglia: la meraviglia di trovarmi a conoscere chi è Gesù, forse per la prima volta in un modo così personale, soprattutto frequentando il corso sul Vangelo di Marco. La seconda: una nuova comprensione di me stesso maturata in occasione di un seminario su temi teologici; mi sono sentito “capace” di avvicinarmi al pensiero di Gesù, a ciò che Paolo chiama il “noûs christos”. Non per una qualche ambizione di conoscere il senso di tutto, di arrivare a possedere la logica del reale, ma per la scoperta di un luogo pienamente umano da cui leggere il mondo e le sue sfide, rispettandone i linguaggi e le ragioni. Sei iscritto al secondo anno: hai avviato la preparazione della tesi? «Sì, ho già scelto il tema, la fenomenologia dello “straniero”, se così si può dire, un argomento di grande impatto in politica, ma che voglio analizzare a partire dai suoi fondamenti filosofici. Mi trovo dunque ad avere di nuovo a che fare con la politica, ma il mio sguardo sarà diverso, perché tratterò i flussi migratori che attraversano le società contemporanee facendo emergere, da un “luogo” di conoscenza che si ispira alle ragioni dell’Amore, nuove declinazioni politiche e culturali. Sei allo IUS da quasi due anni: come definiresti questo tempo che stai vivendo? Vorrei continuare ad usare la metafora del “luogo”: Sophia è prima di tutto un luogo da dove guardare… le mille e variegate realtà umane a partire dalla fraternità, da una idea profondamente innovativa di socialità. Inoltre Sophia mi sta dando gli strumenti non solo per riflettere, ma anche per agire concretamente tenendo al centro la persona in tutta la ricchezza delle sue relazioni. So che infiniti momenti di “meraviglia” mi attendono ancora, di quella meraviglia filosofica che anticipa e svela la conoscenza, e insieme agli altri studenti e a tutta la comunità dello IUS mi sento più che mai in cammino. Fonte:Istituto Universitario Sophia (altro…)

Sophia: tra politica e teologia

Aotearoa, cioè Nuova Zelanda

Difficile immaginare un luogo più vivibile di Wellington. È vero, qui siamo in estate, il sole splende e la temperatura è ideale. È vero, Eolo in queste ore non soffia troppo impetuoso, nella città considerata la più ventosa al mondo, dopo Chicago. È vero, in questo weekend si svolge la Seven’s Cup, la maggior competizione di rugby a sette del Paese: la gente usa mascherarsi per l’occasione, per la gioia dei fotografi. Ma Wellington in ogni caso è veramente incantevole. Al Saint Mary’s College della capitale, appena sopra le cattedrali cattolica e anglicana, nel weekend del 2 e 3 febbraio si riunisce la comunità neozelandese dei Focolari, più di 200 persone provenienti dalle due principali isole che costituiscono il Paese, appartenenti sia alla maggioranza non indigena che alla minoranza maori, la popolazione locale per cui la è “Aotearoa” (la terra della lunga nuvola bianca). A differenza dell’Australia, dove la convivenza tra gli aborigeni e i non-indigeni presenta ancora gravi difficoltà, qui in Nuova Zelanda le relazioni interetniche sono molto meno problematiche, grazie agli sforzi congiunti delle autorità civili, religiose e culturali. Il Paese pare ormai un vero esempio di convivenza pacifica. Non poteva essere che una karana, il popolare inno danzato maori, a salutare l’arrivo degli ospiti di Roma. Canti corali si alternano a potenti grida – di sfida e di accoglienza nello stesso tempo –, come in qualche modo abbiamo conosciuto dai massimi ambasciatori della Nuova Zelanda nel mondo, i favolosi All Blacks, la squadra di rugby più forte che esista sul pianeta. Un breve ma efficace percorso storico – fatto di immagini, suoni, danze e testimonianze – permette agli ospiti e ai locali di riprendere, valorizzare e capire meglio la vicenda di un popolo composito ma unito, che ha saputo, grazie anche e soprattutto alla presenza cristiana, avere una reale coesione sociale. Che ha permesso di vantarsi dell’invidiabile qualità di coloro che non hanno nemici e che sanno accogliere. Istruttivo, non c’è che dire. Soprattutto in un’epoca in cui l’immigrazione è all’ordine del giorno, anche qui, proveniente in primo luogo dai Paesi asiatici. Welcome home, benvenuti a casa canta la band che coniuga sonorità europee con ritmi e interpunzioni locali, in un mix suggestivo. La ancor breve storia del “popolo nato dal Vangelo”, quello di Chiara Lubich, non poteva che cominciare con il Salmo: «Chiedilo, e ti darò in eredità tutte le nazioni, fino agli ultimi confini della Terra». Qui siamo esattamente agli antipodi di Trento, proprio agli ultimi confini… Una storia cominciata con un adulto olandese, Evert Tros, e con un giovane neozelandese, Terry Gunn, che avevano deciso di cominciare a vivere alla maniera evangelica, seguendo l’esempio della maestrina di Trento. Una storia proseguita più tardi con l’arrivo del focolare, accolto dall’arcivescovo Tom Williams, ora cardinale emerito di Wellington, che tra l’altro aveva conosciuto il carisma dell’unità a Roma, nel 1960, durante le Olimpiadi romane. Per raggiungere poi, in tempi diversi, tutte le principali città della nazione e anche tante zone rurali. È una comunità, quella dei Focolari locali, che appare uno spaccato fedele della società, sia per le diverse età presenti, sia per la composizione “sociologica”con maori e non-maori, ricchi e meno ricchi, immigrati recenti e meno recenti. Bill Murray è un elder, cioè un anziano della sua tribù, Ngati Apa. Con decisione afferma: «Dopo aver conosciuto il focolare ho cambiato non poco la mia vita e il mio modo di essere elder. L’amore di Gesù ormai è parte integrante del mio modo di fare. Ogni mio giudizio o decisione vengono sostenuti dall’amore che ho appreso da Chiara». Riconosce l’importanza dei Focolari per la Nuova Zelanda anche l’attuale arcivescovo di Wellington, mons. John Dew: «Nella secolarizzazione presente lo Spirito ha inviato alcuni carismi per rendere sempre nuovi i messaggi del Vangelo. Qui in Nuova Zelanda vedo che i Focolari hanno capito il popolo e le sue esigenze, e sanno operare con fantasia e coraggio». Alle comunità provenienti dalle città di tutta la Nuova Zelanda, praticamente dall’estremo Nord alle propaggini più meridionali del Paese, si rivolgono Maria Voce e Giancarlo Faletti. «I viaggi che ho fatto mi hanno permesso di conoscere le bellezze di tanti popoli. Figurarsi di voi, che vivete in un Paese così bello e ricco di umanità», ha esordito la presidente, suscitando l’applauso della sala. Anche qui emerge, come già era accaduto in Australia, la forte influenza della secolarizzazione e della multiculturalità. Sono domande esistenziali quelle che vengono poste dai giovani e giovanissimi, sull’esistenza di Dio, sulla salvezza portata da Gesù, sulla libertà che l’uomo ha di peccare, sulla forza di cambiare sé stessi, su cosa si può fare per chi non ha una casa o un lavoro, sulle gravi piaghe innocenti della follia… Sono i figli delle famiglie cristiane che si pongono tali domande, ad evidenziare una nuova, vasta frontiera di evangelizzazione. Le riposte – «sono un cercare insieme, non affermazioni tutte fatte», precisa Maria Voce – indicano l’amore di Dio come risposta credibile e la via della condivisione, dell’unità, come metodo per riuscire a non fallire sotto al peso di tale domande. Altre domande vertono sulla non-credenza, sulle difficoltà nell’educazione alla fede. Maria Voce e Giancarlo Faletti cercano anche in questo caso di dar coraggio, di suggerire la forza dell’unità come risposta, come luogo dove trovare le risposte adeguate. E invitano tutti, anche chi non crede, a mettersi insieme per dare una testimonianza adeguata ai tempi e alle situazioni. Altra domanda impegnativa: «Dio è irrilevante nella vita della maggioranza della gente. Tendiamo perciò a non parlare di Dio. Sappiamo che per prima cosa bisogna amare i nostri prossimi, ma basta? Bisogna anche parlare?». Risponde Giancarlo Faletti: «Dobbiamo vedere Gesù in ognuno e quindi ognuno va amato come se parlassimo con Gesù. Questa è la base. Dopo che l’abbiamo fatto, sentiremo la necessità di parlare ad ognuno nel modo più adeguato per lui». Ma c’è di più: «Dobbiamo saper scegliere i comportamenti giusti, non facendo certe cose o addirittura lasciando certe situazioni. Poi bisogna in qualche modo spiegarsi. Dobbiamo vedere nella nostra vita un annuncio di Gesù e dell’amore di Dio». «Vedo nel Movimento, in qualche modo, la Chiesa così come dovrebbe essere. Come far sì, allora, che tutti sperimentino Gesù in mezzo (Mt 18,20)?», chiede un’aderente del Movimento. E Maria Voce: «Giovanni Paolo II ha detto qualcosa di simile: “Vedo in voi la Chiesa postconciliare”. Come far sì, allora, che tutta l’umanità esperimenti la presenza di Gesù in mezzo? Non sappiamo quando, ma accadrà, perché Gesù lo vuole avendo chiesto al Padre l’unità (Gv, 17,21). Ma ci chiede di aiutarlo a realizzare questo sogno. La nostra parte è quella di stabilire in mezzo all’umanità dei piccoli fuochi, di persone unite nel nome di Gesù. Magari solo due, ma insieme: in una scuola, in un ospedale, in un band, anche in un campo di cricket. Due persone sole, un piccolo fuoco. Ma tanti piccoli fuochi ad un certo punto si collegheranno con gli altri fuochi. E il fuoco diventerà sempre più grande, anche se non sappiamo molto spesso dove il fuoco ha già attaccato. È certo che Dio sta lavorando. E allora cooperiamo anche noi con lui, accendendo e tenendo accesi questi piccoli fuochi». Quest’oggi Wellington è il centro del “popolo nato dal Vangelo”, e non più l’ultimo confine della Terra. di Michele Zanzucchi, inviato (altro…)