Bahía Blanca è una città situata in riva al mare, proprio dove inizia la Patagonia argentina. Con i suoi 370.000 abitanti, è il centro economico, religioso e culturale di una vasta regione. A pochi chilometri di distanza, altre 80.000 persone vivono nella città di Punta Alta. Insieme, hanno un polo petrolchimico molto importante, un gruppo di 7 diversi porti (porto multifunzionale, cerealicolo, per la frutta, la pesca, il gas, il petrolio e i fertilizzanti) e la base principale della Marina argentina.
In questa regione, la piovosità media in un anno è di 650 mm., ma venerdì 7 marzo 2025 sono caduti 400 mm in sole 7 ore. Una tale quantità d’acqua, nel suo percorso verso il mare, aumentava la sua velocità e distruggeva tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Ponti, canali, ferrovie, strade, strade, automobili, case, negozi… e persone.
La popolazione si è trovata improvvisamente in una scena dantesca di proporzioni inimmaginabili, come se ci fosse stato uno tsunami. Una brusca interruzione di corrente elettrica ha bloccato anche le comunicazioni telefoniche e in questo modo nessuno aveva idea di come stessero le altre persone, i familiari, gli amici, i colleghi di lavoro.
Tuttavia, qualcosa all’interno di questa comunità si è risvegliato e l’insieme di tutte le leggi universali si è riassunto in un unico verbo: servire.
Man mano che l’acqua e il fango lo permettevano, migliaia di persone hanno cominciato a riversarsi per le strade. Ognuno faceva una prima verifica dei danni nella propria abitazione, ma subito dopo spostava lo sguardo sui vicini, per vedere se avessero bisogno di aiuto. Chi riusciva a sistemare la propria situazione, si rendeva totalmente disponibile ad aiutare gli altri. Siamo stati tutti testimoni e protagonisti di un gigantesco miracolo che si è moltiplicato, con meravigliosa creatività e forza.
Recupero delle fotografie di una donna anzianaGiovani che preparano i pasti da distribuire nelle aree alluvionateDistribuzione di donazioni
L’unica cosa che importava era quanto potevamo fare con le nostre mani: aiutare a togliere acqua e fango dalle case, pulire, riordinare, cercare stracci, secchi d’acqua, disinfettante, portare i feriti nei centri sanitari, prendersi cura degli animali domestici, ospitare persone che avevano perso tutto, dare forza, incoraggiare, abbracciare, condividere ogni dolore. Nessuno si lamentava e dicevano: “Per me è stato molto difficile, ma accanto a quello che è successo agli altri…”
Mentre aiutavo alcuni amici, si è avvicinata una coppia e ha distribuito empanadas gratuitamente. Altri, qualcosa da bere. Chi aveva un generatore di corrente lo offriva per ricaricare le batterie dei cellulari. Altri mettevano a disposizione pompe per aspirare l’acqua. Un ottico donava gratuitamente gli occhiali a chi li aveva smarriti. Una signora ha distribuito disinfettanti, un medico faceva visite nelle case, un uomo ha offerto i suoi servizi come muratore e un altro come meccanico. Tutto circolava: candele, cibo, vestiti, pannolini, materassi, acqua potabile, scope, mani, ancora mani e ancora mani.
Un bar offre cioccolata calda gratuitaArrivano donazioni di materassiVolontari puliscono un asilo
E poi è arrivata la solidarietà di tutto il Paese e della gente di tutto il mondo. In camion, in treno, in autobus, in furgoni… tonnellate di donazioni, che hanno avuto bisogno di più volontari per il carico, lo scarico, lo smistamento e la consegna. Volontari che non hanno smesso di moltiplicarsi. E anche denaro, donato con grande generosità. Parrocchie, club, scuole, aziende, tutte le organizzazioni esistenti hanno dato tutto quello che potevano. E anche un altro tipo di organizzazione: i gruppi di amici. Come una sorta di “pattuglia”, ogni gruppo di amici ha iniziato ad occuparsi di uno dei settori della città dove si è visto che sarebbe stato più difficile per gli aiuti governativi arrivare in tempo. Ancora oggi vanno di casa in casa, di porta in porta e annotano ogni tipo di necessità. E si occupano di far arrivare ciò che è necessario in modo tempestivo.
Tutte le mani di queste persone, anche senza saperlo, senza crederlo o senza immaginarlo, si sono trasformate in “mani divine”. Perché è stato il modo più concreto che Dio ha potuto usare per raggiungere chi aveva bisogno. Personalmente ho vissuto momenti di grande preoccupazione perché non sapevo come stessero i miei fratelli o i miei amici. Volevo raggiungerli, ma era impossibile. Così ho deciso di offrire il mio aiuto dove potevo arrivare. In senso figurato l’ho chiamato il mio “metro quadrato”. Più tardi sono riuscito a raggiungere i miei cari e ho scoperto che molte altre persone, estranei, avevano aiutato lì, dove io non avevo potuto farlo.
Alcuni giorni dopo, vari settori della città sono ancora invasi dall’acqua. Il dolore e le difficoltà continuano. Le perdite sono state enormi. E si incontrano ovunque persone con grandi occhiaie e molto dolore ai muscoli, perché hanno lavorato quasi senza riposo. Ma con il cuore in mano e la pienezza negli occhi, per aver dato tutto per gli altri.
In quest’anno dedicato al Giubileo della speranza i e le Gen4 di Roma – i bambini del Movimento dei Focolari – hanno iniziato un percorso a tappe per approfondire la storia della cristianità e capire come vivere il Giubileo nella loro città che accoglie milioni di pellegrini provenienti da tutto il mondo. Le tappe riguardano le basiliche vaticane a Roma: San Pietro, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le Mura, Santa Maria Maggiore. Come guida hanno chiesto aiuto a Padre Fabio Ciardi, OMI, professore di teologia spirituale e autore di numerosi libri e pubblicazioni.
Prima tappa: basilica di San Pietro
Ad ottobre 2024, a due mesi dall’inizio del Giubileo, 33 bambini con altrettanti adulti, prima di entrare in basilica di san Pietro hanno potuto conoscere una realtà del tutto particolare, situata a fianco della residenza dove alloggia Papa Francesco. È il Dispensario di Santa Marta, un luogo dove il Vangelo si fa carne ogni giorno e si manifesta attraverso l’aiuto a centinaia di mamme e bambini. Un’occasione per spiegare ai Gen4 come si può vivere concretamente il Giubileo aiutando il prossimo.
“È un vero e proprio consultorio familiare, che ha iniziato quest’opera di attenzione ai bambini poveri e alle loro famiglie nel 1922 – spiega Padre Fabio -. Oggi sono oltre 400 i piccoli che, con le loro mamme, sono assistiti gratuitamente da una sessantina di medici volontari. Sono per la maggior parte persone senza permesso di soggiorno, senza assistenza sanitaria”. Visite ginecologiche e pediatriche, ma anche visite odontoiatriche per i senzatetto.
Padre Fabio quindi lega il suo racconto con la storia di San Pietro attraverso alcuni disegni. I bambini in solenne silenzio ascoltano la sua voce attraverso le cuffiette: “Gesù incontra Simone il pescatore e lo invita a seguirlo. ‘Vieni con me, gli dice, ti farò pescatore di uomini’. E gli dà un nome nuovo, lo chiama Pietro, che vuol dire pietra, perché vuole costruire su di lui la sua Chiesa”. E via via che il racconto continua, ci si sposta in basilica per pregare sulla tomba di San Pietro. “Pietro venne a Roma. Quando Nerone incendiò la città diede la colpa ai cristiani e Pietro fu ucciso nel circo dell’imperatore Caligola che Nerone aveva rinnovato…e finalmente la tomba di san Pietro nella sua basilica”. C’è aria di forte raccoglimento fra i Gen4, nonostante la grande affluenza di turisti in questo sabato pomeriggio romano. Andando verso la Porta Santa si cammina alla scoperta di alcune opere d’arte. “Questa Madonna era molto cara a Chiara Lubich – racconta Padre Fabio nella navata di destra -: ogni volta che veniva in basilica si fermava qui per pregare Maria”.
La tappa a San Giovanni in Laterano
Arriva così la seconda tappa nel mese di gennaio 2025. Stavolta il gruppo è più corposo: 140 persone fra cui 60 bambini, sempre sotto la guida esperta di Padre Fabio, si sono ritrovati per scoprire la basilica di San Giovanni in Laterano, ricca di sorprese e tesori legati alla storia della cristianità. Attenti e incuriositi, con le cuffiette alle orecchie, per poco più di due ore i Gen4 sono rimasti ad ascoltare l’intenso racconto di Padre Fabio.
Gen4 a San Giovanni in Laterano Gen4 a San Giovanni in LateranoGen4 a San Giovanni in Laterano
“È stato bello raccontare la storia dell’obelisco, è stato bello spiegare il significato del chiostro – scrive Padre Fabio sul suo blog -, è stato bello raccontare le storie di san Giovanni Battista e di san Giovanni evangelista e di lasciare che i bambini andassero a scoprire le loro statue nella basilica. È stato bello mostrare l’antica cattedra del Papa e quella attuale, sulla quale si siede per prendere possesso del suo ufficio. È stato bello indicare le reliquie della tavola sulla quale Gesù ha celebrato l’ultima cena e quella sulla quale Pietro celebrava qua a Roma. È stato bello attraversare insieme la Porta santa…È bello stare con i bambini e raccontare cose belle…”
Ormai i bambini hanno costruito un rapporto speciale con Padre Fabio. Camminano in basilica al suo fianco, gli stringono la mano, gli fanno domande per conoscere qualcosa in più. “Ma com’è il Paradiso?” chiede una Gen4. “Immagina una giornata di scuola impegnativa. Quando finisce, torni a casa e la trovi bella, accogliente, calorosa, con i tuoi genitori, i nonni, gli amici che ti regalano gioia e attenzioni. Ti senti felice in quel momento, giusto? E così è il Paradiso: un luogo dove si sta bene, dove ci si sente a casa!” Termina anche questa tappa. Si torna a casa felici e consapevoli che il Giubileo deve essere per noi un momento in cui dare speranza e felicità ai più disagiati, ai nostri poveri, a chi soffre.
Il percorso continua ma le belle occasioni si rinnovano con le altre generazioni
In attesa di proseguire questo percorso con i Gen4, anche i Gen3 (40 ragazzi adolescenti), i Gen2 (30 giovani) e un gruppo di adulti, affascinati dall’esperienza positiva che i bambini stavano vivendo con Padre Fabio, hanno voluto fare lo stesso percorso, sempre guidati da lui.
“Prima i bambini, poi i ragazzi, poi i giovani e gli adulti. San Giovanni in Laterano, San Pietro, San Paolo, e Santa Maria Maggiore. Così vivo e faccio vivere il Giubileo” scrive Padre Fabio sul suo blog. “Racconto di storia, di arte, di spiritualità, perché è tutto intrecciato, umano e divino, passato e presente. Sono monumenti vivi, che parlano ancora dopo centinaia di anni e continuano a narrare cose sempre belle”.
Gen 2 a San Paolo Fuori le MuraGen 2 a San Paolo Fuori le MuraGen 2 a San Paolo Fuori le Mura
Ed i giovani hanno così ringraziato Padre Fabio “per aver preparato i nostri cuori a un’esperienza così bella, ci hai aiutato a percorrere insieme questa tappa dell’anno santo, con profondità e ironia. Ci è piaciuta molto l’atmosfera che sei riuscito a creare, suscitando in noi la voglia di visitare insieme altri luoghi romani importanti per i primi cristiani e il desiderio di approfondire il significato di essere pellegrini in cammino verso la meta del Paradiso”.
Marta, Lina, Efi e Moria sono quattro donne, quattro focolarine, che nella loro vita hanno percorso strade diverse e che ora hanno trovato un punto di incontro tra sogni, realtà e l’aver dato la propria disponibilità a trasferirsi a Chimaltenango dai loro focolari precedenti, per iniziare l’esperienza di vivere insieme in una città dove povertà, interculturalità e fratture tra etnie sono pane quotidiano.
Chimaltenango è una città del Guatemala, a 50 km dalla capitale, a 1800 metri sul livello del mare. Quasi 120.000 abitanti di 23 diversi popoli indigeni si sono riuniti lì per poter sopravvivere economicamente.
“Sono stata in Argentina per molti anni – esordisce Efi, originaria di Panama. – Poi ho passato qualche anno in Messico e, poco prima della pandemia, sono arrivata in Guatemala dove sono rimasta solo 3 mesi, poi sono dovuta partire per Panama per stare vicino alla mia mamma che si è ammalata e poi è morta. È stato un anno che mi è servito anche per ripensare a tante cose, per fare il punto su quello che avevo vissuto fino a quel momento e per rinnovare la scelta di donazione a Dio fatta anni fa”. È tornata in Guatemala per questo progetto a Chimaltenango.
“Sono cresciuta in un ambiente rurale, con gente molto semplice e il mio sogno è sempre stato quello di fare qualcosa per i più umili – racconta Efi. – Qui la povertà è molto grande. E ci sono anche le comunità indigene, ci sono persone che hanno conosciuto la spiritualità del Movimento e che, a causa della pandemia e della realtà sociale in cui vivono, sono state lasciate ai margini (della società)”.
Lina è guatemalteca, di origine Maya, Kaqchikel. Spiega che una delle fratture più evidenti è tra indigeni e meticci (chiamati anche “ladinos” in Guatemala, che comprendono tutti coloro che non sono indigeni). Non ci sono relazioni fraterne, non c’è dialogo. “Per me – dice – è sempre stato un obiettivo riuscire a superare quella frattura. Dal momento in cui ho avuto il mio primo contatto con i Focolari, ho pensato che questa fosse la soluzione per la mia cultura, per il mio popolo, per la mia gente”. Ricorda il momento del dicembre 2007 quando, al termine del periodo di formazione come focolarina, salutò Chiara Lubich, dicendole: “Sono indigena e mi impegno a portare questa luce al mio popolo Kaqchikel”. “Ho sentito che era un impegno espresso davanti a lei, ma fatto a Gesù”. Al suo ritorno in Guatemala si è dedicata con cura all’accompagnamento delle nuove generazioni, sempre con l’obiettivo di generare legami di unità sia nelle comunità indigene che nella città.
Moria, Lidia, Marta, Lina, EfiLina in visita a una famigliaCon un gruppo nel focolare
Anche Marta è guatemalteca. Meticcia. Nei suoi primi anni in focolare ha anche potuto dedicarsi alla diffusione del carisma dell’unità nelle comunità indigene. In seguito, si è occupata della gestione del Centro Mariapoli, la casa per incontri a Città del Guatemala. Un lavoro intenso durato 23 anni che ha visto svilupparsi il processo di riconciliazione nazionale e di rivendicazione dei popoli indigeni, perché le diverse comunità indigene hanno scelto il Centro Mariapoli come luogo di incontro. Poi è stata in Messico per un periodo. In quel periodo si parlava di identità. E la domanda in lei è sorta spontanea: “Io che identità ho? Quali sono le mie radici?” La risposta l’ha trovata nella Vergine di Guadalupe che, quando apparve in Messico nel 1531, fu raffigurata nel poncho di Juan Diego con caratteristiche somatiche tipiche dei popoli nativi americani. “Per me è stato capire che ero meticcia come lei, che ha entrambe le radici e che può dialogare sia con gli uni che con gli altri”.
Moria, che è di Chimaltenango, per motivi di salute vive con la sua famiglia e fa parte del focolare così come Lidia, una focolarina sposata che vive a Città del Guatemala.
Storie che si intrecciano fino ad arrivare a stabilirsi in questa città che riunisce tante provenienze, molte culture in un’unica cultura. “Il nostro desiderio è quello di stare con la gente, di avvicinarci. Nelle cose semplici, di tutti i giorni – dice Efi – quel saluto, quel sorriso, quel fermarsi, stare con quella signora che non sa nemmeno parlare spagnolo perché parla la sua lingua e noi non ci capiamo”. E racconta: “Un giorno avevo bisogno di comprare del pane. Vado al mercato e le donne che vendono sono sedute su una stuoia di vimini. Se voglio entrare in dialogo con una di loro, mi metto sullo stesso piano, mi chino e, siccome è un luogo di commercio, cerco di essere onesta con lei”.
“Da quando siamo arrivate ci siamo proposte di riprendere contatto con le persone che in vari momenti hanno conosciuto la spiritualità dell’unità – interviene Lina – per andare a trovarle nelle loro case, portando sempre qualcosa, un frutto, per esempio, come è usanza tra questi popoli”. In questo modo si crea un circolo di reciprocità e si avvicinano al focolare. La loro casa si riempie così delle voci delle mamme con i loro figli o anche dei giovani e, a volte, di qualche papà che prende coraggio e le accompagna. E così, senza cercarlo, si crea la comunità attorno a questo nuovo focolare nel cuore della cultura indigena del Guatemala.
Sembra evidente che siamo fatti per la relazione. Infatti tutta la nostra vita è intrecciata di rapporti. Ma a volte rischiamo di rovinarli con giudizi duri o superficiali.
Lungo la storia troviamo molteplici immagini che fanno anche parte del linguaggio comune. Così, nella tradizione antica troviamo un’espressione molto conosciuta che dice: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”[1]; altrettanto proverbiale è l’immagine delle due bisacce: una davanti agli occhi, con i difetti degli altri, che vediamo facilmente e l’altra sulla schiena, con i nostri difetti, che quindi facciamo fatica a riconoscere[2] o, come dice un proverbio cinese, “l’uomo è cieco ai propri difetti, ma ha occhi d’aquila per quelli degli altri”.
Questo non significa accettare quanto accade, indiscriminatamente. Di fronte all’ingiustizia, alla violenza o alla sopraffazione non possiamo chiudere gli occhi. Bisogna impegnarsi per il cambiamento, incominciando a guardare innanzitutto a noi stessi, ascoltando con sincerità la propria coscienza per scoprire cosa dobbiamo migliorare. Solo così potremo chiederci come aiutare concretamente gli altri, anche con consigli e correzioni.
Ci vuole “un altro punto di vista” che offra una prospettiva diversa dalla mia, arricchendo la mia ‘verità’ e aiutandomi a non incorrere nella autoreferenzialità e in quegli errori di valutazione che in fondo, fanno parte della nostra natura umana.
C’è una parola che può sembrare antica, ma che si arricchisce di significati sempre nuovi: misericordia, da vivere innanzitutto verso noi stessi e poi verso gli altri. Infatti, solo se siamo capaci di accettare e perdonare i nostri limiti saremo in grado di accogliere le debolezze e gli errori degli altri. Anzi, quando ci accorgiamo che inconsciamente ci sentiamo superiori e in dovere di giudicare, diventa indispensabile essere disposti a fare “il primo passo” verso l’altro per evitare di incrinare la relazione.
Chiara Lubich racconta ad un gruppo di musulmani la sua esperienza nella piccola casa di Trento in cui iniziò la sua avventura con poche prime compagne. Non tutto era semplice e non mancavano incomprensioni: “Non era sempre facile vivere la radicalità dell’amore. […] Anche fra noi, sui nostri rapporti, poteva posarsi la polvere, e l’unità poteva illanguidire. Ciò accadeva, ad esempio, quando ci si accorgeva dei difetti, delle imperfezioni degli altri e li si giudicava, per cui la corrente d’amore scambievole si raffreddava. Per reagire a questa situazione abbiamo pensato un giorno di stringere un patto fra noi e lo abbiamo chiamato “patto di misericordia”. Si decise di vedere ogni mattina il prossimo che incontravamo – a casa, a scuola, al lavoro, ecc. – nuovo, non ricordandoci affatto dei suoi difetti ma tutto coprendo con l’amore […][3]. Un vero e proprio “metodo” che vale la pena di mettere in pratica nei gruppi di lavoro, in famiglia, nelle assemblee di ogni genere.
L’IDEA DEL MESE è attualmente prodotta dal “Centro del Dialogo con persone di convinzioni non religiose” del Movimento dei Focolari. Si tratta di un’iniziativa nata nel 2014 in Uruguay per condividere con gli amici non credenti i valori della Parola di Vita, cioè la frase della Scrittura che i membri del Movimento si impegnano a mettere in atto nella vita quotidiana. Attualmente L’IDEA DEL MESE viene tradotta in 12 lingue e distribuita in più di 25 paesi, con adattamenti del testo alle diverse sensibilità culturali.dialogue4unity.focolare.org
[3] C. Lubich, L’amore al prossimo, Conversazione con gli amici musulmani, Castel Gandolfo, 1° novembre 2002. Cf. C. Lubich, L’Amore reciproco, Città Nuova, Roma 2013, pp. 89-90.
Caro papa Francesco, forse non ricorda, ma ci siamo conosciuti il 26 settembre 2014, quando Lei ha ricevuto in udienza privata una delegazione del Movimento dei Focolari. Ne facevo parte anch’io, Luciana Scalacci di Abbadia san Salvatore, in rappresentanza delle culture non religiose che pure hanno casa tra i Focolari. Sono una di quelle persone che, come mi ha detto una volta Jesus Moran, «hanno aiutato Chiara Lubich ad aprire nuove piste per il carisma dell’unità». Sono una persona non credente che ha ricevuto tanto dal Movimento.
In quella giornata straordinaria, ho avuto il privilegio di scambiare con Lei alcune parole che non dimenticherò mai, e che riporto.
Luciana: «Santità, quando Lei ha assunto la carica di vescovo di Roma, io le ho scritto una lettera, pur sapendo che Lei non avrebbe avuto opportunità di leggerla, con quante lettere riceve, ma era importante per me farle giungere il mio affetto e il mio augurio, perché io, Santità, non mi riconosco in nessuna fede religiosa, ma da più di 20 anni faccio parte del Movimento dei Focolari che mi ha ridato la speranza che è ancora possibile costruire un mondo unito».
Papa: «Preghi per me, anzi lei non è credente, non prega, mi pensi, mi pensi fortemente, mi pensi sempre, ne ho bisogno».
Luciana: «Ma guardi Santità, che a modo mio io prego per Lei».
Papa: «Ecco, una preghiera laica e mi pensi fortemente, ne ho bisogno».
Luciana: «Santità, in salute, con coraggio, con forza! La Chiesa cattolica e il mondo intero abbiamo bisogno di Lei. La Chiesa cattolica ha bisogno di Lei».
Papa: «Mi pensi fortemente e preghi laicamente per me».
Ora, caro papa Francesco, Lei è in un letto di ospedale, e anche io sono nella stessa condizione. Entrambi davanti alla fragilità della nostra umanità. Volevo assicurarle che non smetto di pensarla e pregare laicamente per Lei. Lei preghi cristianamente per me. Con affetto
Mi incontro regolarmente in parrocchia con l’équipe sinodale. Siamo sette persone elette per un anno in un’assemblea locale per lavorare all’attuazione del processo sinodale. Ci incontriamo alla fine della giornata, a volte portandoci dietro la stanchezza e le preoccupazioni personali , anche se cerchiamo di non pensarci per metterci al servizio della comunità.
Ad una riunione, con la scusa della “settimana della dolcezza” che si celebrava in quei giorni, ho portato un torrone a ciascuno. Eravamo tutti felici come bambini, ci siamo rilassati e l’atteggiamento è cambiato. Mi sono reso conto che la comunione si costruisce con piccoli gesti.
(C.P. – Argentina)
Hanno scelto la pace
Marc e Maria Antonia cinquantenni, con sorpresa, ricevono in eredità dal padrino di Marc, uno zio single che lo amava moltissimo, una piccola azienda di macchinari industriali. Ci pensano molto, ma alla fine decidono di rilevarla invece di venderla, un po’ per preservare i posti di lavoro dei sei dipendenti e un po’ con l’illusione di lavorare in proprio coinvolgendo il loro figlio che ha studiato ingegneria dei materiali.
Nonostante l’entusiasmo, la dedizione e gli sforzi di tutti loro, passano un brutto momento. L’azienda non funziona. Un anno dopo esserne stati al timone, sono costretti a licenziare due dei lavoratori, restituire le macchine che non sono stati in grado di pagare interamente. Hanno anche alcuni debiti con le banche e con la famiglia.
La sera, quando tornano a casa esausti, cominciano a pensare che forse hanno sbagliato, ma non si arrendono, ricominciano e cercano nuovi clienti. A poco a poco, l’azienda si riprende, non ha più perdite e possono iniziare a pagare i debiti. Ma quello che resta loro per vivere è ben poco.
Passano ancora un periodo molto difficile. Poi arriva un nuovo cliente che si propone di effettuare un ordine ampio e periodico che darebbe loro la tanto attesa tranquillità economica. Sono molto felici. Ma si rendono conto che quanto dovrebbero produrre serve per un’industria di armamenti, sono parti di cannoni . Sono sconvolti. Possono chiudere gli occhi e fare finta di nulla? Dopotutto, se non li produce la loro azienda, lo farà qualcun altro.
Parlano molto tra loro e si confrontano anche con Pedro. Trascorrono più di una notte insonne. Non vogliono contribuire, nemmeno indirettamente, alla morte violenta di nessuno. Respingono la richiesta.
Dopo questa difficile decisione, incredibilmente l’azienda ha avuto altri lavori ed è riuscita ad andare avanti, nonostante le difficoltà.
Stiamo raccogliendo fondi per poter viaggiare dal nostro Paese, le Filippine, a Roma e partecipare al Giubileo dei Giovani. In questi giorni due anziane signore sono venute portandoci alcune monete del loro salvadanaio. Una di loro consegnandoci le monete ci ha detto: “Queste sono state raccolte e conservate per un anno sul piccolo altare che ho in casa”. Il suo dono umile ma profondo, nato dalla fede e dal sacrificio, ci ha lasciato sbalorditi.