Movimento dei Focolari
Capodanno cinese

Capodanno cinese

ChineseNewYear_Loppiano_03La festa di primavera (春節, 春节, chūnjié) o capodanno lunare (農曆新年, 农历新年, nónglì xīnnián), in Occidente noto come capodanno cinese, è una delle più importanti e maggiormente sentite festività tradizionali cinesi, in cui si celebra l’inizio del nuovo anno secondo il calendario cinese. Le celebrazioni cominceranno il 16 febbraio e si protrarranno per circa due settimane fino alla Festa delle Lanterne, con numerose attività, spettacoli e mercati. La vigilia di capodanno le famiglie si riuniscono per la “cena di ritrovo”, il pasto più importante dell’anno. In questa occasione diverse generazioni siedono intorno a tavole rotonde gustando il cibo e il tempo insieme. Ogni strada, casa o palazzo è decorato di rosso, il colore principale della festività. Pregare in un tempio, durante il Capodanno, è ritenuto un ottimo auspicio per l’anno nuovo che inizia. A Shanghai migliaia di persone si riversano al Tempio Longhua, il più grande della città. A Loppiano, cittadella internazionale dei Focolari, dove molti abitanti provengono dall’Estremo Oriente, si festeggerà l’ingresso nell’anno del Cane con una festa, sabato 17 febbraio, occasione per entrare nelle culture dell’Asia attraverso giochi, arte, musica, danze. (altro…)

Dalla Siria alla Siria

Dalla Siria alla Siria

Focolare_Aleppo

Robert Chelhod, al centro, con i focolarini ad Aleppo

Robert Chelhod, classe 1963, è nato in Siria, ad Aleppo. Si trova in Italia, presso la sede dell’Amu (Azione Mondo Unito), nei pressi di Roma, per fare un punto sui progetti sociali e l’organizzazione degli aiuti. Nel 1990 è tornato nel suo Paese di origine per aprire il primo centro dei Focolari, ed è rimasto ad Aleppo per 18 anni, prima di andare in Libano, nel 2008. Qual è il tuo ricordo della Siria? «Il regime non ha impedito il progresso. Ho assistito ad una fioritura sotto tutti i livelli: la Siria era piena di turisti, l’economia era al massimo. Prima della guerra lo stipendio minimo era di 500 $, adesso per dare un’idea è di 50$. L’apice è stato nel 2010. Con la primavera araba nel 2011 sono cominciati i problemi interni da cui poi è cominciata la guerra». Come hai vissuto gli anni della guerra in Siria, stando in Libano? «Avrei voluto essere vicino alla mia gente, ma non era possibile lasciare il Libano in quel momento. Il dolore più grande era vedere i rifugiati siriani arrivare in Libano. Quelle persone le conoscevo! Gente onesta, che lavorava bene, che sarebbe stata una risorsa per il Paese». Nel gennaio 2017 sei tornato in Siria, un mese dopo la liberazione di Aleppo. «Sono rimasto tre mesi “a casa”, in una cerchia ristretta. Solo dopo tre mesi ho trovato il coraggio di uscire e vedere la parte più bella della città rasa al suolo. Rivedere i posti di cui mi sono sempre “vantato”, o meglio, vedere che non esistono più, è stato uno choc. Quando sono andato per la prima volta al vecchio Suk, dove trovi solo macerie, qualcuno mi spiegava: “qui sono entrati i ribelli, qui è venuto l’esercito…”. Pensavo a quante persone erano morte in quel luogo. E sentivo di non dover giudicare neanche quelle che hanno distrutto la mia città». 20180214-03Come hai trovato le persone al tuo rientro? «Scoraggiate e deluse. Ma anche desiderose di andare avanti. C’è una stanchezza degli anni passati, delle condizioni di vita, ma allo stesso tempo la volontà di ripartire». Cosa si può fare per la Siria oggi? «Per chi ha una fede, continuare a pregare. E poi scommettere con i siriani che il Paese è vivo. In Siria abbiamo bisogno di sostegno. Non solo dal punto di vista economico, certamente importante , ma di credere con noi che questo Paese, culla di civiltà, può rinascere. Che ancora la pace è possibile. Abbiamo bisogno di sentire che il mondo sente la nostra sofferenza, quella di un Paese che sta scomparendo». Coordini sul posto i progetti sociali sostenuti attraverso l’Amu. Come vi muovete? «I progetti vanno dall’aiuto per il vitto all’aiuto alla scolarizzazione. Poi ci sono gli aiuti sanitari, perché la sanità pubblica, per mancanza di medici, medicinali e strumenti, non riesce a rispondere a standard minimi di accessibilità. Oltre gli aiuti alle famiglie, si sono strutturati alcuni progetti più stabili: due doposcuola, a Damasco e Homs, con 100 bambini ciascuno, cristiani e musulmani; due progetti sanitari specifici, per cure per il cancro e per la dialisi; e una scuola per bambini sordomuti, attiva già da prima della guerra. Questi progetti offrono una possibilità di lavoro a tanti giovani del posto. La questione lavoro è fondamentale. Stiamo sognando nel prossimo futuro la possibilità di lavorare sul microcredito per far ripartire le attività. Aleppo era una città piena di commercianti, che oggi ripartirebbero, ma manca il capitale iniziale». 20180214-02Tanti invece continuano a partire… «L’esodo, soprattutto dei cristiani, è inarrestabile. Il motivo è l’insicurezza, la mancanza di lavoro. La chiesa soffre, questa è storicamente terra dei cristiani, prima dell’arrivo dell’islam. E cerca di fare il possibile per aiutare e sostenere. Ma le risorse sono molto poche. La maggioranza dei giovani è nell’esercito. Trovi qualche universitario, o ragazzi. Ma la fascia 25-40 non c’è. Nella città di Aleppo si calcola un calo dei cristiani da 130mila a 40mila, mentre sono arrivati tanti musulmani sfollati dalle loro città distrutte». Che riflesso ha questo sul dialogo interreligioso? «Ad Aleppo i cristiani si consideravano un po’ l’élite del Paese. Con la guerra, visto che le zone musulmane sono state colpite, tanti si sono rifugiati nelle zone cristiane. Quindi i cristiani si sono aperti ai musulmani, hanno dovuto accoglierli. Il vescovo emerito latino di Aleppo, mons. Armando Bortolaso, durante la guerra mi ha detto: “Adesso è il momento di essere veri cristiani”. Allo stesso tempo i musulmani hanno conosciuto più da vicino i cristiani. Sono stati toccati dall’aiuto concreto.C’è il positivo, c’è il negativo. Il positivo è che questa guerra ci ha uniti di più tra siriani». Fonte: Città Nuova (altro…)

Sono stata al Genfest del 1980

Sono stata al Genfest del 1980

Genfest1980_bSono nata e cresciuta a Macau, una ex-colonia portoghese che ora fa parte della Cina Continentale. Qui, durante una Mariapoli, ho conosciuto l’Ideale di unità. Macau è una piccola città che si può visitare in poche ore, e per questo l’invito a partecipare ad un Genfest che si sarebbe svolto dopo qualche tempo a Roma, insieme a migliaia di giovani di tutto il mondo, mi attirava molto, anche se non avevo la minima idea di cosa fosse. Avevamo da poco cominciato a sperimentare questonuovo stile di vita, insieme ad altre ragazze. Alcune focolarine venivano spesso a trovarci e ci portavano le notizie e le esperienze del Vangelo vissuto. Quel mondo che prima conoscevo solo dalle lezioni di geografia, ora, con l’Ideale dell’unità che accomunava persone di tutte le latitudini, diventava per me più piccolo e più vicino. Siamo arrivati a Roma alcuni giorni prima dell’inizio del Genfest. Alloggiavamo in una casa che ospitava giovani giunti per l’occasione dalle Filippine, da Hong Kong, dall’Australia e dall’America Latina. Come avremmo comunicato tra noi? Mi chiedevo. Noi asiatiche eravamo un po’ timide, e oltretutto non parlavamo la loro lingua. Invece mi resi conto che non c’era bisogno di parlare, ci accomunava la stessa gioia. Tra tutti è nata subito una forte intesa e dopo un paio di giorni eravamo già come un’unica famiglia. Lì abbiamo saputo che il titolo del Genfest era: “Per un Mondo Unito”.

Chiara Lubich

Il Genfest si sarebbe svolto in uno stadio all’aperto, perciò ricordo che tutti pregavamo che non piovesse. Si attendevano centinaia di pullman da tutta Europa. Abbiamo saputo che Chiara Lubich, che ancora non conoscevo, desiderava che il Genfest fosse per noi “un momento di Dio”. Più che alla festa, ci portava all’essenziale. Anche se allora non capivo molto l’italiano, mi chiesero di tradurre per i giovani cinesi, filippini e brasiliani. Non è stato facile, anzi per dire la verità, quando il Genfest è cominciato tra l’emozione e le difficoltà ad ascoltare, non sono proprio riuscita a farlo. Quando sul palco è salita Chiara, i 40 mila giovani presenti erano già “un cuor solo e un’anima sola”. Eravamo presi dalla sua presenza e lì ho capito chi fosse. Pur in uno stadio immenso, ciascuno la sentiva vicina, come se parlasse a lui direttamente. Non capivo tutto, ma sentivo che avevamo già intrapreso insieme la strada verso un mondo più unito. Per un ideale così grande, ciascuno si sentiva interpellato in prima persona. Ad un certo punto ha cominciato a piovere. Ma era impressionante vedere che la pioggia non ci disturbava e chi aveva un ombrello lo usava per coprire chi era davanti o accanto. Nonostante non riuscissimo, per cause tecniche, a cogliere appieno quanto veniva detto dal palco, eravamo felici. La presenza di Gesù tra noi, resa possibile per l’amore reciproco, ci trascinava e ci riempiva di gioia. A conclusione del Genfest, tutti i 40 mila presenti siamo ripartiti da lì con la convinzione che iniziavamo a percorrere la stessa strada, quella che Chiara Lubich ci aveva indicato per costruire un mondo unito. Cominciava da subito, amando ogni persona che avremmo incontrato, ogni istante della nostra vita.

Del de Sousa

(altro…)

La scoperta di George

Se non fosse stato per un gruppo di amiche, maestre di una scuola per bambini di strada, perciò avvezze alla miseria e ai disagi, non avrei mai conosciuto quest’aspetto della mia città: i poveri. Eppure Saigon, o come la chiamano ora, Ho Chi Minh City, è anche questo: povertà, disagi, sofferenza. A Natale e per le grandi feste, si usa andare in giro, magari vicino o dietro alle famose birrerie e cercare, in veri e propri tuguri scuri, puzzolenti e infestati dai topi, alcune famiglie povere, o meglio, poverissime. Credevo di aver visto la povertà in Thailandia, tra i profughi karen ed i migranti sulle montagne del Nord e sui canali sporchi di Bangkok, ma quello che ho visto oggi a Saigon, nella “Milano del Vietnam”, non lo avrei mai immaginato. Piccole stanze, con 12 persone che ci vivono, e magari anche tre cani. Mi prende una tale nausea, quando entro in quei posti, che a fatica riesco a trattenermi. Ma poi, i volti di quei bimbi che s’illuminano, di quelle mamme che ti guardano intensamente per dirti “grazie” quando gli porgi un sacchetto con 5 kg di riso, ti ripaga di tutto e ti dona la voglia di vivere e la gioia di asciugarti, dopo una pioggia che ti ha inzuppato tutto. E poi ci sono i presepi, a Saigon, e tante stelle comete sopra le case di molte famiglie e addirittura alcuni viottoli tutti illuminati, che danno un colore e un calore tutto particolare a questa città, che non è per niente “fredda”, impersonale, staccata: e nemmeno atea. Si notano, le stelle e i presepi, perché li scopri dappertutto, e ti appaiono in molti angoli delle strade: li scopri quasi all’improvviso. Tra tutti mi hanno impressionato quei presepi nei mercati popolari, di notte, quasi a ridosso della spazzatura di un giorno intero: oppure quelli in un viottolo sperduto della periferia, ma illuminato a causa di due grossi presepi allestiti proprio sulla strada. E poi, in cima alle case, di notte, le stelle fluorescenti che si accendono ad intermittenza. Ritornando stanotte a casa, dopo il giro per i poveri, mi sono guardato questo spettacolo che mi ha riempito di un grande senso di gratitudine: anche se lontano da casa, non mi manca il senso vero del Natale. Papa Francesco, lo scorso anno, disse: «Il Natale è la festa della debolezza, perché si festeggia un bambino, segno di fragilità, piccolezza, umiltà e amore». Oggi capisco un po’ meglio quelle parole: questa notte che mi lascio alle spalle, perché ormai è quasi mattina, è stata illuminata dall’amore che ho visto tra la gente che è andata per aiutare, soccorrere, mostrare vicinanza a chi soffre. Ancora una volta, la notte culturale in cui viviamo viene illuminata da questi “presepi viventi”, da gente, che ha fatto di quel Bambino la ragione vera della propria vita. Ed ho compreso che il messaggio vero del Natale non è morto, ma quel messaggio d’amore, di comprensione, di tenerezza è vivo, e io l’ho visto: stava tutto nel gesto di prendere in braccio un piccolo disabile di 3 anni e stringerlo forte a sé. E quel bimbo si è lasciato sollevare da quel volto sconosciuto. Tutta la tecnologia dei presenti e futuri robot (la nuova “frontiera commerciale” proveniente dall’Asia e di cui qui si parla tanto) non riusciranno mai a fare questo miracolo: l’amore. Perché l’amore è gratuità. L’amore non è un dovere e nessuno te lo può comandare o programmare. È un dono che nasce dentro. Ho visto volti illuminarsi e credere che la vita, domani mattina, andrà avanti e che sarà un giorno più bello di ieri. Non mi manca la mia Europa in questo Natale. Perché dove c’è l’amore c’è anche casa mia. Anche Saigon è casa mia. (altro…)