Lug 14, 2019 | Dialogo Interreligioso
Per la prima volta una settimana insieme: ebrei, musulmani, indù, buddisti, cristiani. Appartengono alla famiglia dei Focolari. Liridona viene dalla Macedonia del Nord ed è musulmana, sunnita. A Papa Francesco, nel suo recente viaggio, ha presentato l’esperienza che vive con altri giovani dei Focolari, cristiani e musulmani, concludendo con la domanda: «È lecito continuare a sognare?»[1]. Dal 17 al 23 giugno, il suo sogno si è incrociato con quello di una quarantina di persone, da 15 Paesi, di 5 fedi diverse, attesi a Castel Gandolfo come si attende «quelli di casa» dal team del centro del dialogo interreligioso dei Focolari. Prima tappa la cappella che custodisce la tomba di Chiara Lubich[2]. Con un canto Vinu Aram, indiana, leader del movimento Shanti Ashram, esprime per tutti l’amore che li lega alla «fonte» che ha cambiato le loro vite.
E il dr. Amer, musulmano, docente di teologia comparata: «Vengo dalla Giordania, dove scorre il Giordano. Mi fa pensare che il nostro cammino inizia con la purificazione dell’anima. Spesso mi chiedo come persone possano togliere la vita ad altri e a sé stessi spinti dall’estremismo radicale. Chiedo a Dio il coraggio di essere pronti a dare la vita per il Bene, per testimoniare quest’amore tra noi e a tutti».
Un quarto dei partecipanti ha meno di trentacinque anni. Fra loro Kyoko, buddista, dal Giappone, Nadjib e Rassim musulmani dell’Algeria, Israa e Shahnaze, sciite, che vivono negli Usa, Vijay indù di Coimbatore. Si vivono giorni di «profezia» approfondendo l’esperienza mistica dell’estate ‘49. Shubhada Joshi, indù, racconta: «Quando ho sentito parlare per la prima volta di “Gesù Abbandonato“ stavo sopportando grandi sofferenze e non riuscivo a capire. Ho iniziato a guardarlo come l’altro lato della medaglia dell’amore. Sto comprendendo la mia tradizione in un modo migliore».
Dopo tre giorni questo «laboratorio» si apre a un centinaio di persone, per lo più cristiani, impegnate nel cammino di fraternità dei Focolari. Il messaggio del neo-Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, mons. Ayuso Guixot esprime un segno di profonda «sintonia» con l’operato di papa Francesco. La narrazione di questo dialogo nel magistero degli ultimi Papi fatta da Rita Moussallem e Roberto Catalano mette in evidenza l’apertura e lo spirito profetico del Vaticano II. Formazione e trasformazione dunque. Ognuno, arrivato «carico» delle proprie esperienze, trova nella condivisione con fratelli e sorelle di varie fedi la «scuola» più vera, fa l’esperienza di un «Dio presente». Oltre il dialogo, si guarda avanti insieme. Del resto Papa Francesco a Liridona aveva risposto di: «diventare bravi scalpellini dei propri sogni con applicazione e sforzo, e specialmente con una gran voglia di vedere come quella pietra, per la quale nessuno avrebbe dato nulla, diventa un’opera d’arte»[3].
Gianna Sibelli
[1]cfr. www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-05/papa-francesco-viaggio-macedonia-nord-incontro-ecumenico-giovani.html [2]La cappella del centro del Movimento dei Focolari, a Rocca di Papa, custodisce la tomba di Chiara Lubich insieme a quelle dei co-fondatori dell’Opera di Maria: Igino Giordani e d. Pasquale Foresi [3]www.vatican.va, viaggio apostolico in Macedonia del Nord, Discorso di Papa Francesco all’incontro ecumenico e interreligioso con i giovani, Skopje, 7 maggio 2019. (altro…)
Mag 14, 2014 | Dialogo Interreligioso, Focolari nel Mondo
In Argentina, da quasi 20 anni, si sta portando avanti un fruttuoso dialogo tra persone del Movimento dei Focolari e alcuni fratelli ebrei: si è maturati nella conoscenza gli uni degli altri e, nella reciproca stima, si sono intraprese iniziative congiunte.
Quest’anno, i membri del OJDI (Organizzazione ebraica di dialogo interconfessionale) hanno voluto celebrare la ricorrenza del Séder di Pesaj (celebrazione della Pasqua) – a cui sempre partecipano le persone dei Focolari -, il primo maggio, nella Cittadella “Mariapoli Lia” a 250 Km da Buenos Aires.
Un gruppo di ebrei, arrivato dalla capitale argentina, ed una numerosa rappresentanza di giovani, famiglie ed adulti della Cittadella hanno partecipato con raccoglimento alla celebrazione del rito pasquale ebraico. Le tre ore di liturgia e la cena sono state seguite con attenzione ed entusiasmo, ed alla fine qualcuno ha espresso ad alta voce l’invito ai nostri “fratelli maggiori” di ripetere tutti gli anni questa celebrazione nella Mariapoli, così importante soprattutto per i giovani che si fermano solamente un anno nella Cittadella. Molti di loro hanno scoperto che sono molto di più le cose che ci uniscono che quelle che ci separano, e che “come cristiani è stata una grazia speciale, che ci ha permesso di entrare nella mentalità e nella fede degli ebrei; questo ci sprona a vivere in modo più profondo e radicale la nostra fede cristiana”.
“E’ stata un’esperienza che mi ha colpito profondamente — ha dichiarato uno dei giovani presenti — perché è stato il mio primo incotro con l’ebraismo. dato che nessuno degli ebrei che conosco è praticante. Mentre leggevamo le preghiere e le letture, mi sembrava che le leggi di Dio siano perfettamente traducibili nei valori umani (la solidarietà, il rispetto, la libertà…) che tutti, credenti o non-credenti, possiamo comunque condividere”. Ed una giovane ha aggiunto: “È stato mettere in pratica il dialogo interreligioso e non restare solo nella teoria. Un’esperienza unica: sapere che la fraternità universale è possibile”. (altro…)
Gen 25, 2007 | Dialogo Interreligioso
«Come dice il Concilio Vaticano II, la Chiesa per la sua stessa natura è realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes, n.1). Ma la storia della Chiesa cattolica nel Novecento si è intrecciata con una tragedia senza precedenti come lo sterminio pianificato di sei milioni di ebrei. Indagare sugli eventi e dibattere sul loro concatenarsi è compito degli storici che si confrontano ormai da decenni sulle fonti, ricercandone sempre di nuove e arricchendo il patrimonio delle nostre conoscenze. La tragedia bellica e la Shoah hanno segnato profondamente la nostra civiltà. Il patrimonio di tolleranza e di democrazia è stato messo a dura prova, ma è stata anche messa a repentaglio l’Europa con i suo valori religiosi. A questo patrimonio a questi valori, gli uomini di buona volontà si sono sempre aggrappati quando tutto sembrava ormai perduto. “Tu mio Signore, hai fatto di tutto perché io non credessi in Te. Ma io muoio così come sono vissuto: con una fede incrollabile in Te”. L’ebreo Yossi Rakover, di cui narra Kolitz, si rivolge all’Onnipotente con queste parole, prima di soccombere ai nazisti nell’insurrezione del Ghetto di Varsavia. In queste parole sembra di leggere anche la storia dei Giusti, così analiticamente descritta nel libro di Sir Martin Gilbert che oggi presentiamo. E’ una storia del bene, anzi di una corrente di bene, che attraversa l’umanità prescindendo dalle differenze religiose. I cristiani, tra cui moltissimi cattolici, ma anche i musulmani, accettarono (a costo della loro stessa vita) di salvare gli ebrei dalla Shoah. Agirono a volte senza aspettare di avere paura, a volte percorsi dal terrore di un tragico destino, a volte dubbiosi, a volte indecisi. Ma agirono e lo fecero conducendo una guerra pacifica e silenziosa per la salvezza dei tanti ebrei che rischiavano di finire nei Lager. Fu questa una guerra fatta senza proclami, senza manifesti, senza teorie, senza retorica e questi “Giusti” la combatterono a volte contro le convenzioni e contro i pregiudizi del loro stesso ambiente. In questa guerra la Chiesa cattolica, intesa come istituzione, ebbe una sua parte. Specifica e rilevante, sotto Pio XII e seguendone le direttive, essa cercò di coordinare gli sforzi in favore delle vittime di guerra e soprattutto trasmettere un esempio ai fedeli. Non si trattava soltanto di organizzare burocraticamente la ricerca dei dispersi e l’assistenza ai prigionieri. Fu invece un’attitudine precisa nei confronti degli ebrei perseguitati. Essi andavano aiutati, in ogni modo possibile. E’ questo il presupposto su cui si fondò l’azione del Papa e dei suoi collaboratori, come si evince dalla documentazione esistente. Ho ricevuto recentemente Suor Margherita Marchione che mi ha presentato l’Opera “Crociata della carità: l’impegno di Pio XII per i prigionieri della seconda guerra mondiale”. E’ una documentazione impressionante. La storia dei Giusti cattolici s’intreccia quindi con l’azione di Pio XII. Essa è innanzitutto una storia di comprensione e di dialogo nella carità, così come registrata nelle numerose testimonianze riportate da Gilbert. E’ una storia che vide impegnati cattolici ed ebrei insieme (si pensi al ruolo di monsignor Roncalli a Istanbul), intrisa di impegno, di speranze e di gratitudine degli israeliti per la Chiesa e per il Papa. Ma è soprattutto una storia che toglie ogni ragion d’essere alle ricorrenti accuse di “collaborazionismo” papale e di antisemitismo cattolico. Perché indipendentemente dai deprecabili pregiudizi di alcuni nuclei di cristiani, rimane il fatto che l’antisemitismo era stato già da tempo condannato dal Vaticano. Ormai è chiaro che quello di Papa Pacelli non fu un silenzio ma un parlare intelligente e strategico, come dimostra il radiomessaggio natalizio del 1942 che fece andare Hitler su tutte le furie. Le prove sono negli Archivi vaticani, dove è presente ad esempio la dichiarazione di condanna dell’antisemitismo del 1928 dell’ex Sant’Uffizio, molto netta e molto chiara. Un documento che viene assolutamente dimenticato come se la condanna dell’antisemitismo fosse solo quella del Vaticano II. E’ questo il tessuto su cui si dipana la trama dei “Giusti”, resa ancora più preziosa per il fatto di provenire da un celebrato e autorevole studioso ebreo, la cui opera è pubblicata in Italia da una casa editrice cattolica: ma la storia che si legge in questo volume di Martin Gilbert meritava di essere conosciuta anche per un altro motivo: perché essa non è solo la storia di quei “Giusti” proclamati tali davanti al mondo, ma è anche la storia di quei tanti “Giusti impliciti”, che non poterono essere onorati perché se n’era persa la memoria storica. Recuperare questa memoria è stato il compito dell’Autore, che è riuscito brillantemente nel suo intento, offrendoci un patrimonio di conoscenze da trasmettere soprattutto alle giovani generazioni: affinché esse imparino a non dimenticare la Shoah e il valore della memoria del bene che ad essa ci lega. Desidero citare qui i giusti di un paese molto martoriato per contrastanti ragioni, e cioè della Polonia. Secondo lo storico polacco Jan Zaryn, membro dell’Istituto della Memoria Nazionale, nelle varie forme dell’aiuto agli ebrei erano coinvolti circa un milione di polacchi. Un milione di polacchi che in ogni momento rischiavano la morte immediata per mano degli occupanti tedeschi (tale rischio si estendeva spesso su tutta la famiglia della persona che offriva aiuto). Spesso ci si scorda che la Polonia era l’unico paese dove vigeva la pena di morte per l’aiuto agli ebrei. Un attivista ebreo Adolf Barman ricordò questo importantissimo fatto nel corso della conferenza riguardante l’aiuto degli ebrei durante la Guerra mondiale, che si è svolta a Gerusalemme nel 1974 (vedi Rescue Attempts during the Holocaust, Yad Vashem, Jerusalem 1977, p.453). perciò furono migliaia i polacchi morti per aiutare i loro connazionali ebrei. Alcuni di loro hanno ricevuto la medaglia dei “Giusti tra le nazioni del Mondo”, altri sono visti come esempi di virtù cristiane, soprattutto della carità. In agosto del 2003 nella diocesi di Przemsyl è cominciato il processo diocesano di un’intera famiglia: Giuseppe Ulma, sua moglie Vittoria, sei figli ed un altro figlio non nato (Vittoria era negli ultimi mesi di gravidanza) trucidati il 24 marzo 1944 per mano dei gendarmi tedeschi nel villaggio Markowa, per aver nascosto a casa loro otto ebrei. Termino citando il discorso fatto da Benedetto XVI, in occasione degli auguri natalizi alla Curia Romana, durante il quale ha sintetizzato le emozioni provate nel corso dei suoi viaggi apostolici, fra cui quello in Polonia: “Nei miei spostamenti in Polonia – ha detto – non poteva mancare la vista ad Auschwitz-Birkenau nel luogo della barbarie più crudele – del tentativo di cancellare il popolo di Israele, di vanificare così anche l’elezione da parte di Dio, di bandire Dio stesso dalla storia. Fu per me motivo di grande conforto veder comparire nel cielo in quel momento l’arcobaleno, mentre io, davanti all’orrore di quel luogo, nell’atteggiamento di Giobbe gridavo verso Dio, scosso dallo spavento della sua apparente assenza e, al contempo, sorretto dalla certezza che Egli anche nel suo silenzio non cessa di essere e di rimanere con noi. L’arcobaleno era come una risposta: Sì, Io ci sono, e le parole della promessa, dell’Alleanza, che ho pronunciato dopo il diluvio, sono valide anche oggi (cfr Gn 9,12-17)”». Cardinale Tarcisio Bertone, 24 gennaio 2007 (altro…)