Movimento dei Focolari

Le migrazioni dalla sponda sud del Mediterraneo/2 parte

Il fenomeno delle migrazioni forzate verso l’Europa resta uno dei temi irrisolti del dibattito tra i paesi UE. Troppo divisi da interessi particolari per individuare una politica comune, ispirata a principi di solidarietà e sostenibilità. Ne abbiamo parlato con Pasquale Ferrara, ambasciatore italiano in Algeria. Secondo l’UNHCR*, dal 1 gennaio al 21 ottobre 2019 sono sbarcati via mare sulle coste Europee di Italia, Malta, Cipro, Spagna e Grecia 75.522 migranti. A questi si aggiungono i 16.322 arrivati via terra in Grecia e Spagna per un totale di 91.844 persone, di cui 9.270 in Italia, 2.738 a Malta, 1.183 a Cipro, 25.191 in Spagna, 53.462 in Grecia. Dati che seguono un trend in calo e archiviano la fase d’emergenza, ma non bastano all’Europa per avviare un dialogo allargato e costruttivo sul tema: la prospettiva della creazione di un sistema europeo di gestione dei flussi resta assai remota, e in generale il confronto a livello istituzionale non tiene conto della prospettiva dei paesi africani. Ad Algeri abbiamo raggiunto l’Ambasciatore italiano, Pasquale Ferrara: (2° PARTE) Si dice da tempo che è necessario strutturare una collaborazione con i paesi del Nord Africa, ma anche con quelli di transito. Buoni propositi ma pochi fatti concreti…. Per passare ai fatti concreti bisogna prendere atto della realtà, del fatto che i paesi africani, soprattutto quelli del Nord, che consideriamo paesi di transito sono essi stessi paesi di destinazione dell’emigrazione. L’Egitto ospita oltre 200 mila rifugiati sul proprio territorio, mentre in tutta Europa nel 2018 sono arrivate poco più di 120 mila persone. Le poche centinaia di migranti irregolari che arrivano dall’Algeria sono tutti algerini, non subsahariani che transitano dall’Algeria, perché spesso questi migranti restano qui. Inoltre questi paesi non accettano programmi tendenti a creare “hotspot” (centri di raccolta) per i migranti subsahariani. Qui non funziona il modello della Turchia, alla quale l’Unione Europea ha dato 6 miliardi di euro per gestire campi dove ospitare oltre 4 milioni di profughi siriani e non solo. Con la Turchia l’operazione funzionò perché c’era la guerra in Siria e per gli interessi strategici della Turchia. In Africa i fenomeni sono molto diversi bisogna trovare altri modi. Quali potrebbero essere le forme di collaborazione? Non servono collaborazioni asimmetriche ma partenariati alla pari. Dobbiamo considerare che non siamo solo noi europei ad avere il problema migratorio, e dunque è necessario rispettare questi paesi con le loro esigenze interne, anche in fatto di migrazione. Solo poi si può cercare insieme di gestire il fenomeno. Per esempio esistono già accordi di cooperazione fra l’Italia e l’Algeria che risalgono al 2000 ed al 2009 e che funzionano bene. Cosa prevedono? La gestione congiunta del fenomeno migratorio in termini di lotta allo sfruttamento e alla tratta di esseri umani, alla criminalità trans-nazionale che utilizza il fenomeno per finanziarsi, al pericolo di infiltrazioni terroristiche. Vi sono anche disposizioni per il rimpatrio concordato, ordinato e dignitoso dei migranti irregolari. Si parla del fatto che i paesi occidentali debbano sostenere quelli africani per creare condizioni di vita migliori, tali da scoraggiare le partenze. Quanto è praticabile questa strada? Nelle condizioni attuali dell’economia e della cultura politica internazionale lo vedo poco praticabile e tutto sommato poco efficace. In primo luogo, parliamo già di un miliardo di africani: nessun “piano Marshall” europeo o mondiale potrebbe affrontare tali dimensioni demografiche. Tra l’altro l’Africa è molto diversificata, ci sono paesi in condizioni di sviluppo avanzate: il Ghana ha un tasso di innovazione tecnologica superiore a vari paesi sviluppati; l’Angola è un paese ricchissimo di risorse che sta tentando di riorganizzare la sua struttura economica in modo più partecipativo. Abbiamo dei leader, come il neo premio Nobel per la pace, il Primo Ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed Ali, che ha 42 anni e guarda alle nuove generazioni. Ha già fatto piantare 350 milioni di alberi in un programma di riforestazione mondiale chiamato “Trillion Tree Campaign”. L’Uganda vive una fase di forte sviluppo. Il problema piuttosto sono le disparità economiche, drammatiche e ingiuste, e qui l’Occidente può intervenire aiutando a migliorare la governance di questi paesi, perché sia più inclusiva e partecipata. Ma ricordiamoci che sono gli stessi problemi di polarizzazione socio-economica che abbiamo in Europa: purtroppo, non possiamo dare molte lezioni in questo campo. Nelle riflessioni sul fenomeno migratorio a livello istituzionale in primo piano c’è la dimensione economica, mentre viene trascurata quella umana. Cosa significa mettere l’uomo al centro del problema migratorio? Dietro ogni migrante c’è una storia, una famiglia, un percorso accidentato, la fatica di procurarsi il denaro e forse debiti con organizzazioni criminali. Certamente non possiamo ammettere l’immigrazione irregolare perché tutto deve svolgersi nel rispetto delle leggi, ma dare valore alla dimensione umana significa tenere conto di questo passato e non vedere in queste persone dei numeri che arrivano a bordo di barconi o via terra. Mi ha profondamente colpito la storia di quel ragazzo di 14 anni, proveniente dal Mali, trovato in fondo al mare con una pagella cucita dentro il giubbotto, con ottimi voti. Quella è una storia che ci lascia senza parole. E dietro c’è una tragedia familiare, umana, un tessuto sociale lacerato. Consiglio il bel libro di Cristina Cattaneo, “Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo”. Non dimentichiamo però anche le storie della nostra Marina militare – in particolare quella della comandante Catia Pellegrino – che ha salvato migliaia di naufraghi. Persone, volti, eventi reali. * https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean (leggi la 1° parte dell’intervista)

A cura di Claudia Di Lorenzi

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Le migrazioni dalla sponda sud del Mediterraneo/1 parte

Che visione si ha dal Nord Africa del fenomeno migratorio verso l’Europa? In che modo è possibile mettere l’uomo al centro, passando così da una visione puramente economica a quella umana delle migrazioni? Intervista a Pasquale Ferrara, ambasciatore italiano ad Algeri. Secondo l’UNHCR*, dal 1 gennaio al 21 ottobre 2019 sono sbarcati via mare sulle coste Europee di Italia, Malta, Cipro, Spagna e Grecia 75.522 migranti. A questi si aggiungono i 16.322 arrivati via terra in Grecia e Spagna per un totale di 91.844 persone, di cui 9.270 in Italia, 2.738 a Malta, 1.183 a Cipro, 25.191 in Spagna, 53.462 in Grecia. Dati che seguono un trend in calo e archiviano la fase d’emergenza, ma non bastano all’Europa per avviare un dialogo allargato e costruttivo sul tema: la prospettiva della creazione di un sistema europeo di gestione dei flussi resta assai remota, e in generale il confronto a livello istituzionale non tiene conto della prospettiva dei paesi africani. Ad Algeri abbiamo raggiunto l’Ambasciatore italiano, Pasquale Ferrara: Ambasciatore, che visione si ha dal Nord Africa del fenomeno delle migrazioni verso l’Europa? Visto dall’Africa si tratta di un fenomeno storico e strutturale, soprattutto infra-africano, perché la stragrande maggioranza dei movimenti di migranti e rifugiati avviene tra paesi africani: oltre 20 milioni di persone vivono in un paese diverso da quello di origine. Altra cosa è la migrazione verso l’Europa, che teme un afflusso incontrollato. Qui il quadro entro cui leggere il fenomeno è solo parzialmente quello del differenziale di sviluppo. In Europa spesso si fa la distinzione fra rifugiati politici e migranti economici. Ma spesso i migranti economici africani sono il risultato di una pessima gestione politica degli stati, perché c’è un problema di governance, di appropriazione delle risorse da parte di oligarchie, di inclusione sociale. Quindi in qualche modo anch’essi sono qualificabili come rifugiati politici. Al di là delle migrazioni irregolari, per ciò che riguarda l’Africa del nord, bisognerebbe ripristinare nel Mediterraneo quella mobilità circolare delle popolazioni che nella storia si è sempre osservata. Significa per esempio la possibilità di venire in Europa per un periodo di studio o lavoro, per poi tornare nel paese di origine. Al momento questi spostamenti sono subordinati alla concessione del visto, che però è molto difficile ottenere per via dei molti e necessari controlli. Per molti rappresenta un dramma, per cui la tentazione di chi riceve il visto, anche se si tratta di persone di buone intenzioni, è spesso quella di non tornare nel paese di origine. Il visto va mantenuto, ma, nell’ottica di favorire la mobilità circolare, è necessario pensare ad un sistema più strutturato. C’è poi un altro fattore che dà impulso alla migrazione, ed è la differenza nella qualità dei servizi che una società offre: quelli sanitari e quelli previdenziali in genere, la cui scarsa disponibilità e qualità influisce anch’essa, assieme ad altri fattori come la violenza endemica, sul senso di sicurezza, o quelli scolastici per cui anche chi non è in una situazione di miseria assoluta tenta di approdare in Europa per dare un’educazione migliore ai figli. Quindi dovremmo investire di più nella formazione delle classi dirigenti, dei professionisti, degli educatori. Ad Algeri, pur con numeri ridotti, stiamo cercando di farlo, aumentando le borse di studio per i giovani algerini che vanno in Italia a studiare musica, arte, restauro, come investimento per il loro futuro professionale. C’è una responsabilità dell’Occidente nell’impoverimento dei Paesi africani? “Sarei molto prudente. Questa è una narrazione che fa comodo a certe oligarchie afro-africane per scaricare le proprie responsabilità anche rispetto ad una governance che è dubbia nella sua legittimazione e nei suoi risultati. Il periodo coloniale ha segnato molto l’Africa e le responsabilità passate dell’Occidente sono accertate, ma dalla decolonizzazione sono trascorsi almeno 50 anni ed è difficile imputare all’Occidente le problematiche delle società africane di oggi. La qualità della governance ha un grande peso. Piuttosto oggi in Africa c’è una presenza forte della Cina con programmi legati alle risorse naturali e minerali in quasi tutti i paesi. La Cina considera l’Africa un grande mercato, ma lo scambio è asimmetrico a favore di Pechino. Tuttavia, per compensare questo squilibrio la Cina realizza a proprie spese opere infrastrutturali, stadi, teatri, centri culturali per miliardi di dollari. Nella gestione del fenomeno l’Europa fa passi incerti. Mancano politiche comunitarie e sembra che il principio di responsabilità condivisa non scaldi i cuori in Europa.. La scelta della solidarietà non può dipendere dalla buona volontà dei singoli governi e dal variare degli orientamenti degli stessi. La questione migratoria deve diventare una competenza esclusiva dell’Unione europea in quanto tale, come avviene per le politiche commerciali per le quali gli stati dell’UE hanno dato a Bruxelles la responsabilità esclusiva di negoziare accordi con paesi extraeuropei. Oggi invece da un lato, per una questione di sovranità nazionale, gli stati vogliono mantenere il controllo sulle migrazioni e sulle frontiere, ed è comprensibile. Dall’altro accusano di inerzia l’Europa a cui però non danno le competenze necessarie per operare efficacemente. Ma passare a questa dimensione decisiva mi sembra improbabile ora, considerando la resistenza che questo tema incontra rispetto alle politiche interne. * https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean Fine 1° PARTE

 A cura di Claudia Di Lorenzi

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Centro Internazionale Giorgio La Pira

Centro Internazionale Giorgio La Pira

Un sostegno fondamentale ai giovani che vengono dall’Asia, dal Medio Oriente, dall’Africa, dal Sudamerica e dall’Est europeo, viene anche da strutture quali il Centro internazionale studenti «Giorgio La Pira». Come si concretizza questo impegno? «Nel marzo 1978 – ricorda Maurizio Certini, direttore del Centro – di fronte al disorientamento e alla solitudine vissuti da numerosi studenti esteri, la Chiesa fiorentina volle offrire a questi giovani un luogo di accoglienza, nel rispetto delle differenze culturali o religiose; un luogo aperto al dialogo, dove ci si aiutasse reciprocamente a superare momenti difficili e si trovasse insieme, come avrebbe detto più tardi Papa Giovanni Paolo II, la spinta «verso una società culturalmente più ricca, più fraterna nella sua diversità». «La Diocesi e la città risposero con entusiasmo alla proposta del cardinale Giovanni Benelli, che chiese un primo aiuto a Chiara Lubich e al Movimento dei Focolari: varie famiglie fiorentine, ad esempio, offrirono a studenti senza alloggio ospitalità in casa propria, come fossero loro figli. Si apriva davanti ai primi operatori volontari del Centro l’umanità da amare con lo stesso cuore universale di Dio, con la sensibilità dell’uomo contemporaneo e la forza del Vangelo». Negli anni, la struttura è cresciuta. E oggi rappresenta – come ha detto recentemente il presidente della Cet, cardinale Giuseppe Betori – «la vera casa dei popoli». È una moderna Rete di relazioni personali, associative, istituzionali. Qui infatti hanno avuto sede le prime associazioni di studenti stranieri, divenute talvolta la base per la costituzione delle Comunità di immigrati, che in futuro è auspicabile possano sorgere – seppur in dimensione più ridotta – anche a Pisa, Siena ed Arezzo. «Ma il significato vero – sottolinea Certini – è espresso dalla miriade di volti che si sono incontrati e si incontrano, giovani provenienti spesso da Nazioni in conflitto tra loro, che hanno reso il “Centro La Pira” un laboratorio permanente di educazione alla pace. Giovani che tornando nei loro Paesi – a volte retti da regimi dittatoriali – possono imporsi anche come vere e proprie risorse di democrazia e aspirare ad essere una futura classe dirigente». Fonte: “Toscana Oggi” (altro…)

Non solo aiuti, ma un’onda di amicizia

Non solo aiuti, ma un’onda di amicizia

Al 16 gennaio 2006, i fondi pervenuti per l’emergenza nel Sud-Est asiatico attraverso l’Ongs AMU, (Organizzazione Non Governativa di sviluppo, che si ispira alla spiritualità dell’unità), ammontavano a circa un milione di Euro. Sono stati destinati per la maggior parte a progetti in Indonesia, in Sri Lanka, in Thailandia ed in India. I fondi residui saranno assegnati a nuovi progetti che si stanno valutando o agli stessi progetti in corso, sulla base del loro stato di avanzamento e delle necessità. L’origine di questi fondi, raccolti in tutto il mondo, sono provenienti spesso dal poco di molti: dai bambini del Kenya, dalla Colombia, dalla Russia e da tanti altri paesi dove anche un solo euro donato è un grande atto di generosità. Riportiamo ora gli appunti di viaggio di Stefano Comazzi, rappresentante dell’AMU, ad un anno dalla catastrofe ambientale che ha colpito il Sudest asiatico: Sono stato in viaggio per visitare le diverse attività svolte dai nostri volontari e collaboratori nella regione, e ho condiviso una parte del percorso con il gruppo di giovani europei del Movimento dei Focolari, che già precedentemente si erano recati presso le popolazioni aiutate dai progetti AMU in Indonesia. Prima erano stati sull’isola di Nias, a sud di Sumatra, dove hanno effettuato un campo di lavoro, collaborando alla ricostruzione di un villaggio ed animando molte iniziative per i bambini. In seguito si sono recati nella provincia di Aceh, la più colpita dal maremoto del 26 dicembre 2004, all’estremità settentrionale dell’isola di Sumatra. L’arrivo a Banda Aceh, ed al vicino villaggio di Lampuuk, dove anche i giovani indonesiani del Movimento hanno trascorso molte settimane convivendo con la popolazione locale, è stato davvero impressionante. A tanti mesi dal maremoto molto è cambiato, ma alcuni segni restano a ricordo della forza straordinaria della natura e di quell’evento, come un’enorme barca trasportata dal mare a diversi chilometri dalla costa ed abbattutasi su un quartiere della città. Interi rioni di Banda Aceh sono diventati degli acquitrini stagnanti, totalmente rasi al suolo, e così anche molti villaggi vicini, come Lampuuk. Tra la popolazione interamente musulmana, i nostri giovani collaboratori hanno guadagnato la stima e l’amicizia che si esprime con tanti piccoli gesti ed attenzioni; la casa che è stata offerta loro gratuitamente durante questi mesi, e dove molti di noi abbiamo alloggiato, ne è un eloquente esempio. A Lampuuk con i fondi dell’AMU si è dato avvio alla costruzione di barche per pescatori. A Medan, la più estesa città dell’isola ed una delle principali dell’Indonesia, ho fatto conoscenza con molti dei giovani del luogo che nei mesi scorsi hanno collaborato al progetto sostenuto dall’AMU. Si tratta di ragazze e ragazzi appartenenti al Movimento dei Focolari; ve ne sono di cristiani, buddisti e musulmani, e già questa è una testimonianza forte. Inoltre non tutti sono indonesiani, come ad esempio J. P. W., studente malese, che ha sospeso per alcuni mesi la sua frequenza universitaria per potersi dedicare a tempo pieno alle attività del progetto. Anche altri giovani vi si sono impegnati a tempo pieno, sia nella gestione delle attività logistiche ed organizzative, sia con soggiorni prolungati nelle province di Aceh e Nias. Passato il confine tra la provincia di Medan e quella di Aceh, abbiamo incontrato alcune comunità di pescatori che vivono nella parte meridionale della provincia. Sono ormai diventati “amici” dei nostri volontari, ed al nostro arrivo ci hanno accolto con calore e con un’amicizia straordinaria, con uno striscione di benvenuto della loro neonata associazione chiamata “SILATURRAHMI” (“tutti sono benvenuti”). I giovani indonesiani che ci accompagnano li avevano già conosciuti durante i viaggi precedenti, avevano condiviso con loro i pochi beni materiali che avevano portato con sé, ma soprattutto ascoltato le storie di ciascuno, la sofferenza e lo smarrimento dei sopravvissuti. Grazie agli aiuti raccolti, sono poi stati in grado di tornare ed organizzare, insieme agli abitanti dei villaggi, azioni di ricostruzione e rinascita. A Blang Nibong ed a Padan Kasab, sempre nella provincia di Aceh, abbiamo constatato direttamente quante barche erano già costruite e quante erano in costruzione. A Blang Nibong eravamo attesi per la consegna ufficiale delle prime dieci già completate ed assegnate secondo criteri di composizione del nucleo familiare (famiglie numerose hanno ricevuto una barca, mentre gruppi più piccoli condivideranno la stessa barca), e dei danni subiti. I giovani che ci accompagnavano hanno anche partecipato al varo di una delle barche già pronte, e tutti abbiamo fatto un giro inaugurale nel caldo mare di Malacca. Questo viaggio è stato davvero costruttivo e ci ha confermato come sia importante lavorare “con” le persone, dal basso, privilegiando l’ascolto e la condivisione che diventa reciprocità. (dal periodico AMU NOTIZIE n. 4/2005)   (altro…)

Tra i feriti negli ospedali, una grande lezione della fede dei musulmani

Tra i feriti negli ospedali, una grande lezione della fede dei musulmani

Il quadro drammatico di quanto ha provocato il terremoto che ha colpito il Kashmir è noto: oltre 50.000 morti, 65.000 feriti e più di 4 milioni senzatetto. Ci sono ancora villaggi sulle montagne in cui non è stato possibile arrivare neppure in elicottero. I feriti trasportati negli ospedali di Rawalpindi e Islamabad con gli elicotteri sono più di 5.000, ma le strutture non sono assolutamente adeguate. L’emergenza sanitaria cresce di ora in ora anche per il pericolo di epidemie e infezioni. Già ci sono tanti casi di tetano.

La terra continua a tremare. Non sono solo piccole scosse di assestamento, ma forti scosse di terremoto. Di notte si stenta a dormire e di giorno intensa è l’opera di soccorso. Ma si sta assistendo a una straordinaria generosità da parte di governi di molti Paesi e di organizzazioni internazionali – anche se insufficiente per far fronte alle dimensioni del sisma. C’è chi ha detto che gli aiuti così tempestivi arrivati da Europa e Stati Uniti, stanno sanando quella ferita aperta tra occidente e mondo islamico. Colpisce la generosità del popolo. Una generosità che non conosce confini di classe, di religione, di nazionalità. A contatto con i feriti e i senzatetto che hanno perso tutto, restiamo edificati dalla grande lezione di fede. Quella fede che fa credere che al di là di tutto c’è Dio che ti ama e che fa riscoprire ciò che veramente vale nella vita. Queste notizie che ci giungono dal Pakistan, da alcuni amici cristiani e musulmani. Ci hanno scritto una toccante lettera che ci aiuta a penetrare il volto più umano di questa catastrofe: “Vorremmo soprattutto condividere con voi la storia di alcune delle tantissime vittime del terremoto, perché anche voi possiate conoscerle almeno attraverso queste poche righe. Vorremmo caricarci sulle nostre spalle un po’ dei loro dolori, delle loro sofferenze, perché non siano soli e possano sentirsi capiti e aiutati nella loro situazione”. Ed ecco la loro testimonianza:  

Tra i terremotati feriti negli ospedali di Rawalpindi: “I feriti, via via che erano estratti dalle macerie, venivano trasportati ad Islamabad e Rawalpindi, e smistati nei vari ospedali. Cerchiamo di portare sostegno ai feriti, perché manca chi li ascolta, li lava e li assiste. Tutti gli operatori ospedalieri ci hanno suggerito questo compito, di cui vedevano l’assoluta necessità. La gente ha bisogno di ripetere a qualcuno quanto ha vissuto. Sentiamo quanto sia importante essere lì per prendere su di noi questa sofferenza ed essere segni concreti dell’amore di Dio.

Alessandro è andato al Rawalpindi General Hospital. Racconta: “La scena che ci si è presentata all’ingresso dell’ospedale era agghiacciante, l’atrio, i corridoi, ogni spazio era occupato da barelle e lettini, con donne, uomini, bambini, medicati alla meglio, alcuni in condizioni visibilmente gravi, e quasi tutti in silenzio, con lo sguardo smarrito, forse sotto shock”. “Ma la più grande lezione ci viene proprio dalle vittime del terremoto, che incontriamo negli ospedali e che ci raccontano storie dolorosissime e terrificanti. Una studente di 17 anni: “Ero in classe quando sono iniziate le prime scosse, ero vicino alla porta e mi è venuto spontaneo correre fuori. Girandomi ho visto davanti ai miei occhi la terra aprirsi e inghiottire tutta la mia classe. Sono l’unica sopravvissuta”. Molti hanno perso tutto, e in molti casi, l’intera famiglia. Ma la fede, che questa gente attinge dall’Islam, fa credere che aldilà di tutto c’è un Dio che ti ama, e fa riscoprire cosa veramente vale nella vita. Oggi Rani, visitando un reparto dell’ospedale, si ferma con una bambina, ancora in stato di shock, con una gamba ingessata e l’altra ferita. Le offre una mela e la piccola abbozza un sorriso, ma non parla. “Coraggio, di’ come ti chiami” interviene dolcemente il padre, con un gran sorriso. Rani è commossa da questa scena e chiede all’uomo dove sia la moglie. ‘Non c’è più’ è la risposta, data con lo stesso sorriso e commovente serenità. In un’atmosfera di reciproca gratitudine, sembra che tutto sparisca, e resti solo quell’amore concreto e reale, che ci fa sentire parte di una stessa famiglia. (altro…)