Movimento dei Focolari
La geopolitica coraggiosa di papa Francesco

La geopolitica coraggiosa di papa Francesco

La categoria imprescindibile del pontificato di papa Francesco, confermata anche in Iraq, è la fraternità. La sua testimonianza personale ed ecclesiale, il suo magistero e le sue relazioni con il mondo musulmano, fanno ormai della fraternità una cifra geopolitica. Lo storico incontro con al-Sistani. Da più parti, in questi giorni, si cerca di fare un bilancio del viaggio di papa Francesco in Iraq. Penso che sia difficile, se non impossibile, tentarne uno esauriente. Troppi i temi coinvolti e, soprattutto, siamo troppo vicini, a ridosso immediato di un evento globale articolato, che solo con il passare del tempo si potrà comprenderlo in tutte le sue valenze. Ovviamente alcuni elementi più di altri hanno colpito l’immaginario di chi ha seguito i vari avvenimenti in un contesto che, per certi versi, nella sua cruda realtà rischiava quasi di apparire surreale. Se pensiamo ai viaggi papali inaugurati da Woityla a partire dal 1979, eravamo abituati a ben altri scenari e sfondi: folle oceaniche, preparazione coreografica che spesso rasentava la perfezione e, soprattutto, eventi che lasciavano l’immagine, soprattutto nei primi anni dell’era del papa polacco, di una fede forte, al centro della storia, in contrapposizione con il mondo ateo da cui il papa polacco veniva. Papa Francesco, che fin dall’inizio del suo pontificato ha introdotto l’idea di una Chiesa incidentata e paragonata ad un ospedale da campo, in questi anni è impegnato a trasmettere questa immagine di Chiesa e lo ha fatto praticamente dovunque è andato. Fin dal suo primo viaggio ufficiale a Lampedusa, porto e cimitero di migranti, passando per Bangui, dove ha voluto inaugurare il suo Giubileo inatteso e straordinario, per arrivare a Mosul, dove il palco aveva come sfondo macerie e muri ancora perforati da proiettili di vario calibro. E non possiamo dimenticare Tacloban, dove ha sfidato un imminente tifone per stare accanto ai sopravvissuti di un altro evento catastrofico; Lesbo dove ha passato senza fretta tempo prezioso ascoltando le storie inenarrabili di profughi di varie provenienze. Ma la lezione di Francesco non riguarda solo l’impegno a mostrare che il volto più prezioso della Chiesa è quello incidentato. È piuttosto il modo con cui mostra la prossimità, il calore necessario per far sentire a chi soffre la comunità cristiana. Soprattutto è impegnato a proiettare queste comunità sul palcoscenico mondiale, per dire che quella è la Chiesa vera, che tutti dobbiamo avere a cuore e che testimonia in modo reale Cristo. Come ha detto sul volo di ritorno, Bergoglio respira in questi frangenti, perché è questa la sua chiamata petrina, quella per la quale il conclave lo ha eletto pur senza sapere ed immaginare dove avrebbe condotto la barca di Pietro. Lo stiamo tutti vedendo e sperimentando in questi anni. Ed i viaggi ne sono lo specchio probabilmente più veritiero, che non tradisce e non lascia adito alcuno a malintesi. D’altra parte non è nulla di nuovo. Come i suoi predecessori, il papa argentino dimostra di saper leggere e decodificare i segni dei tempi ed offre testimonianza credibile al fatto che la Chiesa è testimone nel tempo, intercettandone le problematiche ed i nodi-chiave, offrendo risposte spesso contro corrente rispetto a quelle che il mondo politico, internazionale e, oggi, finanziario impongono. Di fronte alla realtà che Francesco si è trovato a vivere, compresa quella senza precedenti (almeno in questi termini) della pandemia, la categoria imprescindibile del suo pontificato, confermata anche in Iraq, è la fraternità. La testimonianza personale ed ecclesiale di Bergoglio, il suo Magistero e le sue relazioni, soprattutto ma non solo, con il mondo musulmano, ne fanno ormai una cifra geopolitica. Lo ha dimostrato anche il suo incontro con il Grande Ayatollah al-Sistani. Le implicazioni di quei quarantacinque minuti sono fondamentali. Tutti sappiamo, infatti, che il grosso nodo che l’islam oggi deve sciogliere è interno al suo mondo: la tensione mai sopita ma ora pericolosamente acuita fra la sfera sunnita e quella sciita. È qui che si devono ricercare le radici di molti dei problemi che i musulmani vivono e per i quali, anche, molti muoiono. Bergoglio ha mostrato grande tatto politico nel voler incontrare al-Sistani, il rappresentante più significativo dello sciismo spirituale, ben distanziato dalla teocrazia iraniana che dalla rivoluzione khomeinista degli anni Ottanta del secolo scorso, ha spinto il mondo iraniano ad essere paladino di questa frangia del caleidoscopio musulmano. Al-Sistani ha sempre preso le distanze dalla scelta teocratica degli ayatollah iraniani, ed è da decenni un leader spirituale e religioso riconosciuto. Fra l’altro è nato in Iran. L’incontro fra i due è avvenuto a porte chiuse, ma come lo ha descritto papa Francesco nel volo di ritorno, è stato un momento di spiritualità, «un messaggio universale. Ho sentito il dovere, […] di andare a trovare un grande, un saggio, un uomo di Dio. E solo ascoltandolo si percepisce questo. […] E lui è una persona che ha quella saggezza … e anche la prudenza. […] E lui è stato molto rispettoso, molto rispettoso nell’incontro, e io mi sono sentito onorato. Anche nel saluto: lui mai si alza, e si è alzato, per salutarmi, per due volte. È un uomo umile e saggio. A me ha fatto bene all’anima, questo incontro. È una luce». Bergoglio ha poi azzardato un apprezzamento che forse nessun papa aveva avuto il coraggio di esprimere in passato: «Questi saggi sono dappertutto, perché la saggezza di Dio è stata sparsa per tutto il mondo. Succede lo stesso anche con i santi, che non sono solo quelli che stanno sugli altari. Sono i santi di tutti i giorni, quelli che io chiamo “della porta accanto”, i santi – uomini e donne – che vivono la loro fede, qualunque sia, con coerenza, che vivono i valori umani con coerenza, la fratellanza con coerenza». Tutto questo non è passato inosservato. I commenti positivi sono piovuti da più parti, cominciando proprio dal mondo musulmano. Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf, esponente di spicco del mondo sciita iracheno e direttore dell’Istituto Al-Khoei che fa parte dell’Hawza di Najaf, un seminario religioso fondato quasi mille anni fa per gli studiosi musulmani sciiti, è stato molto chiaro nei suoi apprezzamenti. «Sebbene questo sia il primo incontro nella storia tra il capo dell’establishment islamico sciita e il capo della Chiesa cattolica, questa visita è il frutto di molti anni di scambi tra Najaf e Vaticano e rafforzerà senza dubbio le nostre relazioni interreligiose. È stato un momento storico anche per l’Iran». Al-Khoei ha affermato l’impegno a «continuare a rafforzare le nostre relazioni come istituzioni e individui. Presto ci recheremo in Vaticano per assicurarci che questo dialogo continui, si sviluppi e non si fermi qui. Il mondo deve affrontare sfide comuni e queste sfide non possono essere risolte da nessuno stato, istituzione o persona, da soli». L’agenzia AsiaNews riporta anche alcuni commenti positivi apparsi sulla stampa iraniana, che ha dato ampio risalto e celebrato come “opportunità per la pace” lo storico incontro. La notizia è stata il titolo di apertura di quotidiani e organi di informazione della Repubblica islamica. Sazandegi, una storica pubblicazione vicina all’ala riformista, sottolinea che i due leader religiosi sono oggi «i portabandiera della pace mondiale». E ha definito il loro faccia faccia nella casa del leader spirituale sciita «l’evento più efficace [nella storia] del dialogo tra le religioni».  

Roberto Catalano

fonte: Città Nuova (altro…)

La Preghiera dei figli di Abramo: “apri i nostri cuori al perdono reciproco”

Sabato 6 marzo 2021, durante il viaggio apostolico di Papa Francesco in Iraq, si è tenuto l’incontro interreligioso nella Piana di Ur dei Caldei. Al termine è stata intonata un’orazione ispirata alla figura del patriarca Abramo, padre comune nella fede per cristiani, ebrei e musulmani. Ecco il testo. Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra. Ti ringraziamo per il suo esempio di uomo di fede che ti ha obbedito fino in fondo, lasciando la sua famiglia, la sua tribù e la sua patria per andare verso una terra che non conosceva. Ti ringraziamo anche per l’esempio di coraggio, di resilienza e di forza d’animo, di generosità e di ospitalità che il nostro comune padre nella fede ci ha donato. Ti ringraziamo, in particolare, per la sua fede eroica, dimostrata dalla disponibilità a sacrificare suo figlio per obbedire al tuo comando. Sappiamo che era una prova difficilissima, dalla quale tuttavia è uscito vincitore, perché senza riserve si è fidato di Te, che sei misericordioso e apri sempre possibilità nuove per ricominciare. Ti ringraziamo perché, benedicendo il nostro padre Abramo, hai fatto di lui una benedizione per tutti i popoli. Ti chiediamo, Dio del nostro padre Abramo e Dio nostro, di concederci una fede forte, operosa nel bene, una fede che apra i nostri cuori a Te e a tutti i nostri fratelli e sorelle; e una speranza insopprimibile, capace di scorgere ovunque la fedeltà delle tue promesse. Fai di ognuno di noi un testimone della tua cura amorevole per tutti, in particolare per i rifugiati e gli sfollati, le vedove e gli orfani, i poveri e gli ammalati. Apri i nostri cuori al perdono reciproco e rendici strumenti di riconciliazione, costruttori di una società più giusta e fraterna. Accogli nella tua dimora di pace e di luce tutti i defunti, in particolare le vittime della violenza e delle guerre. Assisti le autorità civili nel cercare e trovare le persone rapite, e nel proteggere in modo speciale le donne e i bambini. Aiutaci ad avere cura del pianeta, casa comune che, nella tua bontà e generosità, hai dato a tutti noi. Sostieni le nostre mani nella ricostruzione di questo Paese, e dacci la forza necessaria per aiutare quanti hanno dovuto lasciare le loro case e loro terre a rientrare in sicurezza e con dignità, e a iniziare una vita nuova, serena e prospera. Amen.   (altro…)

Un muftī, un monaco buddista e un vescovo cattolico

Scomparsi il primo dicembre scorso, tre figure esemplari, testimoni che il dialogo fra le religioni è possibile Uomini per la fraternità. Appassionati all’avventura del dialogo fra credenti di religioni diverse. Accomunati dal desiderio di vivere in unità, nel rispetto delle fedi, delle culture, delle sensibilità rispettive. L’imam Nedal Abu Tabaq, muftī della Lega musulmana in Polonia, il monaco buddhista theravada Phra Ajahn Eiam, e mons. Henri Teissier, vescovo cattolico di Orano – nel nord dell’Algeria – e arcivescovo di Algeri, sono scomparsi nello stesso giorno, lo scorso primo dicembre. A chi gli era amico, sulla strada del dialogo interreligioso, il compito di raccoglierne l’eredità e rinnovare l’impegno per la fratellanza universale. Come ricorda Roberto Catalano, per il Movimento dei Focolari co-responsabile del dialogo interreligioso, il muftī Nedal Abu Tabaq ha incoraggiato in Polonia l’avvio di un cammino di dialogo fra musulmani, cristiani ed ebrei. Numerosi gli eventi promossi e condivisi da credenti delle tre religioni: concerti, simposi, incontri fraterni anche in occasione delle rispettive feste religiose, intesi quali occasioni per farsi conoscere nei propri valori e nel proprio credo e per conoscere l’altro nel reciproco rispetto. Quindi la creazione di un “Calendario delle Tre Religioni: Ebrei, Cristiani, Musulmani”, in collaborazione con le autorità locali, e l’istituzione nel 2013 della “Giornata del Cristianesimo tra i Musulmani in Polonia”, il 29 maggio, e l’anno seguente della “Giornata dell’Ebraismo tra i Musulmani in Polonia”, il 16 del mese. Proprio nel 2014 il muftī partecipò ad un Convegno Interreligioso dedicato a Chiara Lubich, nel V anniversario della sua morte. Si è spento vittima della pandemia da coronavirus. Del monaco buddista theravada, Phra Ajahn Eiam, thailandese, si ricorda il sorriso incoraggiante, ad illuminare una figura discreta, silenziosa, meditativa. Era impegnato con convizione nel dialogo buddhista-cristiano. Affetto da un tumore, le sue condizioni sono precipitate per il sopraggiungere dell’infezione da Covid-19. In Algeria mons. Henri Teissier, nato a Lione, ordinato sacerdote ad Algeri nel 1955, ed arcivescovo della capitale per vent’anni, è stato un uomo di diaologo, impegnato per la comprensione, il rispetto e la stima tra i credenti dell’islam e del cristianesimo. “Amante dell’Algeria, del suo popolo, della sua lingua e della sua cultura – lo ricorda così l’agenzia di stampa della Conferenza Episcopale Italiana –  ha guidato la Chiesa d’Algeria nel tumulto degli anni ‘90, dove diciannove suore e preti e il vescovo Pierre Claverie furono assassinati tra il 1994 e il 1996”. Anche negli anni difficili della guerra civile mons. Teissier ha “servito la Chiesa e la sua stessa vocazione ad essere una Chiesa di amicizia e fraternità con il popolo algerino”. Da tempo in pensione, si dedicava alla scrittura e partecipava a convegni in tutto il mondo. Si è spento a causa di un ictus. Tre figure esemplari, testimoni che il dialogo è possibile.

Claudia Di Lorenzi

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Da 50 anni testimoni e costruttori di pace

Da 50 anni testimoni e costruttori di pace

In occasione dei 50 anni di Religions for Peace, facciamo il punto sul cammino fatto e le prospettive future con Azza Karram, eletta segretario generale.

Azza Karram

Azza Karram è stata eletta segretario generale di Religions for Peace nell’agosto 2019. Egiziana di origini, cittadina olandese, docente di studi religiosi e diplomazia, ex funzionario dell’Onu, anima dalla dimensione universale, guida oggi un movimento a cui aderiscono oltre 900 leaders religiosi di 90 paesi impegnati con lei nel fare della pace un luogo di incontro e un cammino da percorrere comunitariamente. Religions for Peace, dal 16 al 21 agosto del 1970, apriva la sua prima assemblea. A condurla Nikkyo Niwano, giapponese e fondatore della Rissho Kosei-kai, uno spirito di grande visione. Negli anni ’90 coinvolse anche Chiara Lubich in questa assise mondiale: trovò in lei una consonanza spirituale e pragmatica unica. Quest’anno Religions for Peace festeggia i suoi 50 anni. Abbiamo raggiunto Azza Karram a New York per chiederle un’analisi del cammino fatto e le prospettive di futuro. Dopo 50 anni dalla fondazione di Religions for Peace, quale mission e quale messaggio il movimento continua a dare? Dopo 50 anni di vita la nostra è la testimonianza che è inevitabile per le religioni il lavorare insieme, al di là delle differenze istituzionali, geografiche o di dottrina. Questo è il messaggio che diamo anche se non lo realizziamo ancora perfettamente perché sappiamo che un processo di apprendimento costante e che c’è anche la fatica del lavoro insieme. Il Covid, poi, ha messo ancor più in evidenza la necessità di un lavoro comune. Le comunità religiose o le ong ispirate da valori religiosi stanno facendo perché sono state le prime a rispondere a questa crisi umanitaria non altri. E’ vero che le istituzioni sanitarie sono anche intervenute, ma non avrebbero potuto farlo in maniera così capillare senza le istituzioni religiose che a questa crisi hanno dato non solo una risposta sanitaria, finanziaria, psicologica, ma hanno saputo guardare ai bisogni spirituali di una comunità e stanno rispondendo su tutti i fronti al 100%. Tuttavia quante di queste istituzioni religiose, pur rispondendo ai bisogni di una stessa comunità stanno lavorando insieme? Molto poche e non perché manchino i bisogni o l’efficienza o la conoscenza. A volte mi viene il sospetto che in realtà stiamo cercando di salvare le nostre istituzioni e collaborare in questo tempo complesso richiede ancora più sforzo e più impegno perché è più semplice preoccuparsi della santità e della coesione dei nostri gruppi che aprirci ad un impegno universale e invece proprio il Covid ci costringe ad altro. Noi abbiamo voluto lanciare un fondo umanitario multi-religioso proprio per mostrare che rispondere insieme ad un bisogno è costruire il futuro comune con intenzionalità e volontà e i risultati sono e saranno copiosi: lo sappiamo dalla nostra storia e vogliamo continuare a mostrare quanto fruttuosa è la collaborazione interreligiosa. Quali sfide Religions for Peace si sta trovando a vivere? Le sfide di Religions for Peace penso siano le stesse di tutte le istituzioni non solo religiose, ma politiche, istituzionali, giudiziarie e finanziarie in termini di fiducia, efficienza, legittimità, competenze. A mio parere le istituzioni religiose stanno soffrendo di queste crisi da lungo tempo e ne soffriranno più a lungo delle istituzioni civili. Torno ancora alla pandemia. I blocchi e le chiusure hanno creato un breakdown istituzionale nelle nostre comunità. Potete ben capire cosa vuol dire non potersi più riunire che è una delle funzioni basilari e fondamentali delle nostre esperienze e invece queste funzioni sono minacciate con chiese, templi, moschee e sinagoghe che accoglievano migliaia o centinaia su centinaia di persone e ora devono limitarsi a 50 o a poche decine. L’assenza del convenire quindi chiede di ristrutturare anche il nostro servizio religioso e infatti ci siamo trasferiti li, ma quanto questo sta incidendo sulla pratica religiosa? Anche chi guida queste comunità e non solo i membri deve riconfigurare il suo ruolo e il modo di svolgerlo nel mondo. Per questo se sto già battagliando per sopravvivere come istituzione come posso lavorare con altri che hanno gli stessi problemi in altre parti del mondo? Siamo tutti sfidati in questo ripensarci, lo sono le Nazioni Unite, i governi e lo siamo anche noi come religioni. E poi ci sono le minacce proprio all’esistenza delle fedi in paesi e società dove l’autoritarismo non consente le pratiche di fede e dove i regimi si sentono minacciati nella loro intrinseca fragilità da queste voci che vibrano per i diritti umani, la giustizia, il pluralismo. Per rispondere a queste sfide serve maggiore collaborazione, servono risorse finanziarie e oserei dire che servirebbe anche maggiore consapevolezza politica del ruolo sociale delle collaborazioni multi-religiose che andrebbero sostenute anche economicamente perché sono spazi di servizio, di incontro, di  risorse uniche per la crescita di una società. E invece vedo che le fedi sono spesso ai margini e se poi lavorano insieme sono maggiormente ultime nelle prospettive dei governi. Citava prima la collaborazione come un pilastro base dell’esperienza interreligiosa. Sappiamo che tra Religions for Peace e il movimento dei Focolari c’ è una collaborazione di lunga data. Come continua e come implementare questo lavoro comune? E’ una collaborazione lontana, nata nel 1982 e che ha visto in Chiara Lubich uno dei presidenti onorari di Religions for Peace sin dal 1994 e ora anche Maria Voce continua ad essere dal 2013 uno dei nostri co- presidenti. Mi sono ripromessa, iniziando il mio mandato, di onorare tutti quelli che mi hanno preceduto e che hanno permesso a Religions for Peace di essere ciò che è e quindi anche Chiara. Devo proprio trovare uno spazio, anche nel nostro sito per raccontare di questa amicizia. La cosa che più mi colpisce del nostro legame, sia nel passato che adesso è che la nostra è stata sempre una collaborazione vitale, viva fatta dalle persone. E’ frutto di questa eredità se anche oggi la comunicazione di Religions for Peace è curata da una persona del Focolare e negli anni, quanti del focolare hanno servito il nostro movimento nei modi più vari.  E lo stesso ha fatto la Rissho Kosei-kai. Queste collaborazioni interreligiose in grado di condividere risorse umane, immagini del divino viventi che onorano con la loro presenza lo spazio sacro del dialogo sono per me un segno della reciprocità verso Dio perché attraverso questo lavoro comune nel dialogo interreligioso lo stiamo servendo, mostrando a tutti la bellezza di averci creati di tante religioni. Come immagina il futuro per Religions for Peace? Lo immagino all’insegna del multilateralismo. Così come le Nazioni Unite sono il multilateralismo dei governi, io vedo il nostro movimento come il multilateralismo delle religioni. Noi in fondo ci impegniamo come esseri umani a livello micro e macro a preservare la diversità voluta dal Creatore e a salvarla per tutti, comprese le istituzioni. Immagino il beneficio che le istituzioni potrebbero avere da questa visione e dal nostro lavoro e se insieme collaboriamo si fiorirà entrambi. Se le istituzioni politiche sono focalizzare a salvare sé stesse, se le entità religiose sono interessate a salvare sé stesso, questo porterà alla distruzione non solo dei nostri gruppi ma dell’intero pianeta. E invece il papa stesso, prima con la Laudato sì ora con la sua enciclica, nata da quel documento comune con il massimo leader sunnita ci chiama, è una chiamata comune alla salvaguardia della terra, ma soprattutto alla fraternità umana inclusiva di tutte le religioni. Noi supportiamo questa enciclica e questo richiamo alla fraternità non lascia escluso nessuno, neppure chi è senza una fede e ci batteremo perché sia davvero un patrimonio di tutte le religioni.

A cura di Maddalena Maltese

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14 maggio: Giornata mondiale di preghiera per l’umanità

“Con la giornata di preghiera interreligiosa del 14 maggio prossimo l’Alto Comitato per la Fratellanza Umana ci ricorda che l’attuale pandemia ha segnato un punto di non ritorno: ci salviamo solo guardando al bene comune, non al bene dell’uno o dell’altro, non agli interessi di una parte o dell’altra ma al bene di tutti”.  Con queste parole Maria Voce, presidente dei Focolari ha annunciato la piena adesione del Movimento alla giornata di preghiera per l’umanità, annunciata anche da papa Francesco domenica 3 maggio scorso, “affinché il prossimo 14 maggio i credenti di tutte le religioni si uniscano spiritualmente in una giornata di preghiera e digiuno e opere di carità, per implorare Dio di aiutare l’umanità a superare la pandemia di coronavirus”. “Siamo una grande famiglia – ha aggiunto ancora Maria Voce – formata da cristiani, fedeli di diverse tradizioni religiose, insieme a persone senza un preciso riferimento di fede. Incoraggio tutti a vivere la giornata di giovedì prossimo 14 maggio in uno spirito di preghiera – secondo le rispettive fedi e tradizioni – di digiuno e di impegno concreto nell’aiuto di chi ci sta accanto, soprattutto i più deboli ed emarginati. Lo realizzeremo a livello locale, come ogni comunità lo riterrà opportuno, sempre in conformità alle disposizioni vigenti, ed in spirito di vera e fattiva fratellanza”. “Siamo certi che le preghiere che saliranno a Dio dai suoi figli e figlie saranno ascoltate per il bene della grande famiglia che è l’umanità e che la prova che tutti stiamo vivendo ci renderà davvero più forti nel pellegrinaggio comune che è la vita”.

Stefania Tanesini

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Scomparso il Gran Maestro Ajahn Thong

Figura di primo piano del buddismo theravada thailandese, il Venerabile Phra Phrom Mongkol, vi si è spento il 12 dicembre scorso a 97 anni. Altissima l’esperienza di dialogo buddhista-cristiano tra lui e Chiara Lubich. A metà degli anni Novanta, grazie a Phramaha Thongratana, monaco che aveva avuto l’occasione di incontrare Giovanni Paolo II e di conoscere il Movimento dei Focolari e Chiara Lubich, il Gran Maestro aveva trascorso un periodo nella cittadella di Loppiano, insieme al suo giovane seguace, noto in ambito cattolico anche con il nome di Luce Ardente. Dopo i primi incontri che questi aveva avuto con la fondatrice dei Focolari, era nato il desiderio di un dialogo fra buddismo e cristianesimo in Thailandia, che, nelle parole del monaco doveva essere realizzato «dolcemente, con una carità squisita, con tanto amore ed occupandocene con il cuore». A questo aggiungeva una considerazione fondamentale per il dialogo: «Questi due termini – buddhismo e cristianesimo – sono soltanto due parole […] il bene, l’amore, è ciò che unisce tutti gli uomini di qualsiasi razza, religione, lingua e fa sì che tutti possano ritrovarsi e convivere insieme». Da qui, il suo impegno, deciso e, per certi versi, sorprendente: «Finchè avrò respiro, finchè avrò vita, cercherò di costruire rapporti veri e belli con tutti nel mondo». La Lubich confermava questi sentimenti con un invito che è anche profezia: «Continuiamo a preparare la strada vivendo secondo la Luce che abbiamo ricevuto e tanti ci seguiranno». Con questa preparazione l’anziano e venerabile monaco era giunto nella cittadella di Loppiano dove aveva soggiornato presso il Centro di spiritualità chiamato Claritas, che accoglie regolarmente religiosi di diverse congregazioni che desiderano vivere una esperienza di comunione di carismi. Due monaci theravada insieme a francescani, salesiani, gesuiti, domenicani ed altri: una vera profezia. Il Ven. Phra Phrom Mongkol era rimasto profondamente toccato dall’accoglienza ricevuta e, incontrando la Lubich, aveva commentato: «Il fatto che tu hai invitato dei monaci buddhisti a venire qui in mezzo al tuo popolo, è una cosa bellissima». Tutto questo non era semplicemente formalità e gentilezza, aspetti sia pure tipici della cultura thai. Si trattava dei primi passi di una profonda esperienza spirituale, di cui i due monaci erano ben consapevoli. Chiara Lubich aveva confermato la sua attesa di quel primo incontro con un atteggiamento di ascolto volto a imparare, piuttosto che a insegnare: «io sono contenta di questa visita anche per imparare qualcosa di bello. Qual è il cuore del vostro insegnamento?» Da qui, era iniziato un percorso imprevedibile. Agli inizi del 1997, infatti, la leader cattolica era stata invitata in Thailandia da queste personalità del monachesimo buddhista e non si trattava solo di una visita di cortesia. Chiara fu invitata a rivolgere la sua parola di testimonianza cristiana a diversi gruppi di monaci, monache e laici buddhisti sia a Bangkok che, soprattutto, a Chiang Mai. Proprio qui, presso il Wat Rampoeng Temple, il Gran Maestro la introdusse con parole sorprendenti: «Tutti voi, miei seguaci, vi domandate perché la mamma che è una donna è stata invitata. Vorrei che voi monaci e seminaristi, dimenticaste questa domanda e non pensaste che lei è una donna. Chi è saggio ed è in grado di indicare la strada giusta per la nostra vita, che sia donna o uomo, merita rispetto. E’ come quando siamo al buio: se c’è qualcuno che viene a portarci una lampada per guidarci gli siamo grati, e non ci importa se quella persona che è venuta a portarci la luce per farci camminare sulla strada giusta è una donna o un uomo, un bambino o un adulto». In queste poche parole sembra condensarsi la grande sapienza di quest’uomo capace, insieme ad altri, di camminare sulla via del dialogo senza timore, trascinando altri in questa esperienza profetica. La stessa Lubich, toccata da questa apertura e sensibilità, aveva colto una presenza superiore in questo rapporto e si era rivolta al Gran Maestro con parole che sembrano una profezia «Continuiamo a preparare la strada vivendo secondo la Luce che abbiamo ricevuto e tanti ci seguiranno». E così è stato. Da venticinque anni questa esperienza di dialogo continua e si sviluppa. Anche nella morte qualcosa sembra accomunare questo vegliardo monaco della millenaria tradizione theravada con la donna cattolica fondatrice di un movimento ecclesiale recente. Il 7 dicembre, infatti, a Trento si sono aperti i festeggiamenti per il centenario della nascita della Lubich, tra questi un evento interreligioso il 7 giugno 2020. Il Ven. Gran Maestro aveva espresso il desiderio di essere presente per quella occasione. Un’amicizia destinata ora a continuare nell’eterno.

Roberto Catalano (Co-responsabile Dialogo Interreligioso Movimento dei Focolari)

 A colloquio con il Gran Maestro Ajahn Thong, un servizio del Collegamento CH del 13 febbraio 2016 https://vimeo.com/155437353 (altro…)